«Ci siamo sempre scandalizzati, considerando inumani gli Spartani che ai bambini handicappati riservavano una sorte senza speranza, abbandonandoli o gettandoli dalla rupe. Attualmente riteniamo che i nostri handicappati gravi possano avere una sorte migliore solo perché diamo loro una sommaria educazione fino ai 10-14 anni, senza accorgerci che giunti ad una certa età, anch’essi vengono, in misura maggiore o minore, abbandonati»: questo riportava la Delibera Consiliare, quando, nel 1971, il Comune di Lecco decise di costituire il primo “Centro di Formazione Professionale per Handicappati” in Italia.
In quegli anni la spinta egualitaria, nata con i movimenti del Sessantotto, si estese al mondo dei “subnormali” e dei “matti”, uno dei settori sociali più emarginati.
All’inizio delle proprie attività, quel Centro di Lecco era in difficoltà ad avere i primi utenti. Li cercavamo nei vari paesi, chiedendo al partroco o alla gente che incontravamo, se conoscessero degli “handicappati”. Quando li trovavamo, non era facile convincere i genitori a farli venire da noi; eppure molti vivevano letteralmente segregati in casa.
Da allora tutto è cambiato in meglio. Le persone con disabilità intellettiva non trascorrono più la loro vita negli istituti o nei manicomi. Oggi abbiamo una pluralità di servizi sociali, sociosanitari, riabilitativi, formativi, educativi e una pluralità di strutture, quali CSE (Centri Socio Educativi), SFA (Servizi di Formazione all’Autonomia), CFP (Centri di Formazione Professionale), Cooperative Sociali ecc., che favoriscono una maggiore integrazione e una migliore qualità di vita. L’inclusione sociale si realizza già nei primi anni di vita, dalla Scuola dell’Infanzia all’Università, per poi continuare in àmbiti protetti o nel mondo del lavoro.
Tanto è stato fatto, ma tanto resta ancora da fare. La maggiore visibilità nella vita sociale quotidiana, sui mass-media e sui social non va scambiata infatti come un segno di maggiore integrazione e accettazione, se è vero, ad esempio, che negli ultimi anni stanno nascendo progetti e strutture fatte appositamente per loro e in quanto tali, speciali, e quindi emarginanti.
Stiamo attraversando una fase di rallentamento e in certa misura di ritorno al passato. La cultura dell’inclusione si sta impoverendo e inaridendo, il tutto facilitato e giustificato dalla crisi economica e dal conseguente calo delle risorse. Si corre il rischio di utilizzare l’attuale congiuntura economica come comodo alibi, per giustificare un drastico ridimensionamento del welfare locale e nazionale.
Nonostante tutto, in mezzo secolo la disabilità si è trasformata da problema familiare in responsabilità sociale. La famiglia non è colpevolizzata come avveniva in passato ed è meno sola e disorientata. E tuttavia un interrogativo attanaglia i genitori, oggi più di ieri: «Cosa ne sarà di nostro figlio quando noi non ci saremo?».
Purtroppo la crisi che ha investito la famiglia negli ultimi decenni non facilita questo passaggio esistenziale, già drammatico di suo. Se ci sono altri figli ed esistono solidi legami fraterni, è facile ipotizzare un sostegno da parte loro; in caso contrario sarà compito dei Servizi Sociali o di un Amministratore di Sostegno farsene carico. Questa transizione sarà però facilitata, se sostenuta da una sufficiente autonomia personale, da un adeguato reddito economico e da una positiva integrazione sociale. Non va dimenticato infatti che il benessere di una persona è assicurato dalle condizioni di salute, dal grado di autonomia personale, dall’autosufficienza economica e dall’integrazione socio-lavorativa.
Si può quindi affermare che l’inclusione passi attraverso il rapporto fra l’identità personale e il ruolo di reciprocità sociale. Se cresce l’integrazione, aumenta di conseguenza l’identità personale e il ruolo sociale, processo, questo, che rafforza l’inclusione, l’autostima e quindi la senszione di benessere e la qualità di vita.
Tutto ciò ci porta a sottolineare l’importanza del lavoro, troppo spesso lasciato in secondo piano quando si parla del “Dopo di Noi”.
Il lavoro oggi rappresenta il perno esistenziale su cui ruotano l’identità personale, il ruolo sociale, la qualità di vita, il divenire del tempo, la vita stessa. L’assenza di lavoro toglie tutto questo «e produce preoccupazione, frustrazione e spesso disperazione, a cui si accompagna una serie infinita di contraddizioni sociali. Il lavoro impone inoltre un’organizzazione programmata del tempo, offre una ragione per affrontare il nuovo giorno, producendo una routine tranquillizzante che, in quanto tale, inibisce l’ansia, producendo quindi equilibrio psicofisico.
Ecco perché bisogna occuparsi e preoccuparsi del futuro lavorativo dei figli, soprattutto di quelli più socialmente deboli. Purtroppo questa preoccupazione, che dovrebbe essere sociale e non solo familiare, oggi non è oggetto di un’adeguata attenzione da parte delle Istituzioni. La classe politica è troppo impegnata ad affrontare altre urgenze sociali e gli uffici preposti non sembrano in grado di adeguarsi al rapido cambiamento sociale. I servizi pubblici vivono in uno stato di immobilismo auto conservativo, in attesa (e in ansia) che qualcuno possa cambiare lo stato delle cose. Non è dunque da loro che verrà un cambiamento!
Il “Dopo di Noi”, come dice Vincenzo Falabella, presidente della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), «non diviene un problema per le famiglie, se riusciamo a costruire un sistema di protezione e investimento sul “Durante Noi”». Non dimentichiamolo e non restiamo semplici spettatori di un dramma che ci appartiene!