«Esiste la disabilità come fatto che una persona è costretta a vivere, con il proprio corpo o la propria psiche obbligati a ciò; esiste altresì un contesto disabilizzante che rende l’individuo incapace di rendersi autonomo anche nel vivere sfere così intime della propria persona, come l’affettività e la sessualità»: lo scrive Tonino Urgesi, la cui riflessione parte da una delle domande che più spesso càpita di sentirsi porre: «Come ci si relaziona con la persona con disabilità?»
In tutti questi anni, girando e partecipando a vari convegni sulla disabilità, e andando nelle scuole a parlare di una “nuova pedagogia e cultura della disabilità”, la domanda che mi veniva sovente posta era: «Come ci si relaziona con la persona con disabilità?». Questa prima domanda ne nascondeva in realtà una seconda, ancora più profonda: «Chi è la persona con disabilità?».
Mi verrebbe da rispondere, ora, che la disabilità in sé non esiste, ma esiste la disabilità che quella persona è costretta a vivere con il proprio corpo obbligato e costretto. In ogni caso, quella persona rimane un essere umano: io non sono la mia disabilità, io vivo la disabilità che sono costretto a vivere, facendola così diventare una sana convivenza.
Il soggetto con disabilità non è un ammalato, è solo qualcuno che vive su una carrozzina o su un letto, ma non deve essere considerato portatore di una patologia particolare, e neppure come un paziente ospedalizzato. Qui bisogna fare un salto di pensiero e annullare la domanda con la quale abbiamo iniziato, ovvero come comportarsi con il disabile.
Non ci si comporta in un modo diverso con un ragazzo o ragazza in carrozzina, bisogna infatti avere solo il coraggio di partire dalla storia di quell’individuo, e farsi coinvolgere da essa.
Girando per la rete e per i social network, la domanda non cambia, è sempre la medesima: «Come relazionarsi con la persona disabile?». Mi sono imbattuto più di una volta in genitori che hanno figli con disabilità. Genitori che mi contattano, chiedendomi il mio pensiero riguardo la loro relazione con il figlio o la figlia disabile. Posso capire questi genitori che farebbero di tutto per i loro figli, darebbero anche l’anima per vederli felici, contenti, o addirittura “normodotati”. Ma trovo un fortissimo pericolo, un’incrinatura, in quella loro relazione genitori-figli. Sono pronti a qualsiasi cosa per dar loro un momento di gioia, ma questo “qualsiasi cosa” diventa molto pericoloso, perché il più delle volte il dono che vogliono offrire ai figli nasce da un loro senso di colpa, o da un loro bisogno di protagonismo. Non nasce mai da una relazione binaria, ma da un senso di colpa unilaterale.
Se questo figlio o figlia sono fratelli o sorelle di “normodotati”, quanti danni creano i genitori ai figli che non sono disabili? Quei genitori stanno già creando la differenza, la disabilità; stanno creando l’esclusione in quella loro famiglia, tra il figlio non disabile e quello disabile. Per il figlio disabile sono pronti a fare qualsiasi cosa, per il “normodotato”, invece, c’è l’attesa, o la solita frase: «Tu devi capire…».
Per tentare ancora di rispondere alla nostra domanda iniziale, inviterei quei genitori a trattare con la stessa modalità tutti i loro due figli, per non far sentire ad uno la mancanza di affetto, e all’altro l’eccessiva protezione. Dovrebbero educare “quel figlio”, piuttosto al “no!”, a quel no della società che lui sarà costretto a subire. E a quei genitori risponderei così: il “no!” che sapranno dire al figlio che vive una disabilità, lo aiuterà ad elidere il suo sentirsi “menomato”, “diverso”.
Quel loro figlio, del resto, avrà già mille lotte da combattere: il diritto alla scuola, che la scuola non gli offre, talora non consentendogli nemmeno di stare in classe. Se poi un bambino con disabilità ha bisogno di andare in bagno, si deve arrangiare, perché non ci sono assistenti che lo accompagnino; e questo lo trovo vergognoso, negli Anni 2000, che i genitori debbano lasciare il proprio lavoro, per portare il figlio in bagno. O altri professori che non portano in gita scolastica l’alunna perché è disabile. O ancora, fenomeni come quel gruppo di mamme sudamericane che esultano su Whats App perché un bimbo con autismo è stato espulso dalla classe dei propri figli, ciò per cui da mesi avevano fatto pressioni sulla scuola, al punto da minacciare di non portare più i propri figli in classe. O anche quel preside che ha dovuto chiedere ai genitori dei ragazzi con disabilità di organizzare dei turni per i loro figli: il suo istituto, infatti, non poteva accoglierli tutti insieme, perché mancavano ancora quaranta insegnanti di cui trenta di sostegno, nonostante le lezioni fossero iniziate da giorni…
Tutto ciò sì che mi indigna e mi scandalizza fortemente. Dobbiamo “alzarci in piedi dalla nostra carrozzina” e gridare “NO!”, per non arrivare ad agire come quel padre che uccide il figlio con disabilità e la moglie.
E qui mi interrogo ancora una volta sulla cosiddetta Legge del “Dopo di Noi” [Legge 112/16, N.d.R.]. Come ho già avuto modo di scrivere in altre occasioni, ci vorrebbe un pensiero anche al “Durante Noi”, piuttosto che al solo “Dopo di Noi”, per non lasciare sola la famiglia con disabilità, e aiutare i genitori a cercare la loro risposta a quella “domanda”, educandoli a una nuova cultura della disabilità.
Sono ben cosciente che fino ad ora mi sono riferito solo ad un certo tipo di persone, costrette a vivere una situazione fisicamente disabilizzante, ma sono altrettanto cosciente dell’esistenza di altre realtà ancora più complesse di un deficit motorio. Penso infatti a tutte quelle persone in situazione di deficit cognitivo, con le quali è più difficile vivere una relazione, e a tutte quelle famiglie forzate a vivere situazioni complicate: con un bimbo sordo, una persona non vedente, un autistico grave, una patologia che porta con sé lesioni cerebrali, una persona con Asperger… Tutte queste realtà vivono difficoltà diverse.
Fino alla loro maggiore età, questi ragazzi possono usufruire di una serie di servizi: terapie, nuoto, logopedia e altro; dopo “quell’età”, però, i servizi sociali non li seguono più, non sono più considerati disabili e vengono lasciati a carico soltanto delle loro famiglie, che si trovano a vivere situazioni più grandi di loro. Ma quel figlio, o figlia, arriva all’adolescenza, ha il desiderio di innamorarsi, la necessità di sentire l’amore proprio, come l’amore dell’altro sulla sua pelle. E i genitori sono abbandonati soli a se stessi a vivere questa sofferenza.
Che cosa possono fare? Come possono rispondere a quelle domande dei loro figli, se manca il “concetto di relazione”?
Qualche giorno fa, una madre mi ha scritto che fa la doccia insieme al figlio autistico di 22 anni e che «lo masturba per tranquillizzarlo». Ecco, in spaccati di vita quotidiana come questi ben si nota come si intesse il problema. Come si diceva all’inizio, esiste la disabilità che una persona è costretta a vivere, con il proprio corpo e la propria psiche obbligati, e non la disabilità come puro dato di fatto; esiste altresì un contesto disabilizzante che rende l’individuo incapace di rendersi autonomo anche nel vivere la propria sessualità.
E qui si apre tutt’altro scenario e di nuovo faccio appello a quella “nuova pedagogia della disabilità”, di cui ho già avuto modo di scrivere anche su queste pagine, per formulare un nuovo pensiero della persona e non pensarla sempre disabile e sempre diversa dagli altri, o da educare a proprio piacimento alla sessualità o all’affettività, perché queste due sfere così intime della persona umana si affinano soltanto attraverso una relatio.
A questo proposito riporto il pensiero espresso in un articolo pubblicato dall’ANSA da parte di una figura autorevole come quella del professor Fabio Veglia, ordinario di Psicologia Clinica all’Università di Torino, uno dei massimi esperti internazionali di sessualità e disabilità.
Il pensiero del professor Veglia verte sul fatto che l’“assistenza sessuale” non può essere considerata un auspicio per far vivere alla persona con disabilità la sessualità che le è negata. Essa non può in alcun modo sostituirsi all’atto d’amore che verrebbe spontaneamente da una persona normodotata verso un disabile; al massimo questo potrebbe essere considerato solo come un atto di «amorevolezza» (citando un termine usato da Veglia), che non si può sostituire a quel desiderio di accettazione e di “relazione”, cui la persona con disabilità aspira.