I protocolli operativi: uno strumento di cooperazione e dialogo ai fini della piena realizzazione dei principi sanciti con la legge 30 maggio 2014 n. 81 dettata in tema di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari
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1. Con la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari disposta in forza di diversi interventi normativi (legge 9/2012, legge 57/2013 e legge 81/2014) si è introdotta la nuova figura delle “Residenze esterne per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS)”, strutture destinate all’accoglienza e alla cura degli autori di reato affetti da disturbi mentali ritenuti socialmente pericolosi alla luce dei criteri delineati dall’art. 133 c.p. (ad eccezione di quanto previsto alla lettera d) del citato articolo) e connotate da una esclusiva gestione sanitaria e da un minore numero di posti letto.
La previsione di questa nuova tipologia di strutture in luogo degli ormai anacronistici ospedali psichiatrici giudiziari è stata accompagnata dalla previsione di una serie di importanti principi, tutti orientati, tra l’altro, a scongiurare il rischio che le nuove strutture potessero in qualche modo ricalcare e riproporre le problematiche proprie degli OPG, in particolare il fenomeno degli ergastoli bianchi, che per lungo tempo ha afflitto il sistema sanitario e penale italiano.
Si sono sanciti i principi della priorità della cura necessaria, di territorialità delle medesime cure (in base al quale la presa in carico dei servizi di salute mentale deve essere effettuata presso il territorio di residenza o comunque di provenienza dell’interessato, onde evitare un eccessivo e inutile sdradicamento del malato psichico dal proprio territorio, con conseguenti enormi difficoltà nella ricollocazione del medesimo una volta terminate le cure o comunque la fase di acuzia patologica), la centralità del progetto terapeutico individualizzato (la cui assenza è stata espressamente ritenuta elemento sulla base del quale non può fondarsi un perdurante giudizio di pericolosità sociale) e, infine, il principio più significativo della residualità e transitorietà della misura di sicurezza detentiva, dovendosi ritenere il ricovero in Rems uno strumento di extrema ratio, utilizzabile soltanto laddove le misure di sicurezza non detentive non siano assolutamente praticabili.
Ne è derivato un maggiore e più incisivo ruolo dei Dipartimenti per la Salute Mentale, servizi territoriali ai quali deve essere affidata la cura dei malati psichici autori di reato, così privilegiando l’inclusione sociale e la scelta di misure non detentive. I dipartimenti di Salute Mentale sono divenuti a pieno titolo i titolari dei programmi terapeutici e riabilitativi allo scopo di attuare, di norma, i trattamenti in contesti territoriali e residenziali.
2. Sebbene, in linea teorica, si fosse apprezzata sin da subito la portata innovativa e garantista dei summenzionati principi, in pratica la loro applicazione non risultava affatto agevole, in particolare sul piano organizzativo, posto tra l’altro che non si era provveduto a stanziare ulteriori fondi che potessero consentire un potenziamento organico dei servizi territoriali e che in molte Regioni gran parte delle risorse erano state inizialmente destinate alla costruzione di strutture a discapito del rafforzamento dei servizi territoriali.
Preso atto delle criticità registratesi nonché dei problemi applicativi e organizzativi propri di una così importante riforma, il Consiglio Superiore della Magistratura ha ritenuto di “delineare un quadro di buone pratiche e di schemi procedimentali, volti a valorizzare le acquisizioni scientifiche e dottrinali emerse nell’ultimo decennio, nonché a garantire un effettivo sviluppo ai principi insiti nelle novelle legislative innanzi citate”, adottando con Delibera consiliare del 19 aprile 2017 “Direttive interpretative ed applicative in materia di superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari (OPG) e di istituzione delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS) di cui alla legge n. 81 del 2014”[1].
2.1. Tra le indicazioni di maggior rilievo sul piano organizzativo, quella delibera aveva in particolare posto l’accento sulla necessità di ‘una costante integrazione funzionale’ tra gli Uffici di Sorveglianza, quali organi giudiziari preposti alla vigilanza sulla esecuzione delle misure di sicurezza, i Dipartimenti di Salute Mentale e le sue unità operative complesse nonché le Direzioni delle Rems, quali organi deputati alla diagnosi e cura delle malattie psichiche, e gli uffici UEPE, aventi una funzione di controllo e supporto sociale alle persone affette da malattia psichica collocate sul territorio.
D’altronde, la necessità che, al fine di una piena realizzazione degli obiettivi perseguiti dalla riforma e dei principi ivi delineati, tutti i soggetti istituzionali coinvolti collaborassero e dialogassero tra loro, era stata recepita già dalla Conferenza Unificata Stato-Regioni, che nella seduta del 26 febbraio 2015 sanciva un “Accordo, ai sensi del DM 1° ottobre 2012, Allegato A, concernente disposizioni per il definitivo superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari in attuazione al D.M. 1 ottobre 2012, emanato in applicazione dell’art. 3-ter, comma 2, del decreto legge 22 dicembre 2011, n. 211 convertito, con modificazioni, dalla legge 17 febbraio 2012, n. 9 e modificato dal decreto legge 31 marzo 2014 n. 52, convertito in legge 30 maggio 20152014 n. 2014, n. 81”[2].
In particolare, l’art. 7 statuiva che “alla data di chiusura degli OPG, le Regioni e le Province Autonome, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e la Magistratura […] definiscono, mediante specifici accordi, le modalità di collaborazione, ai fini dell’attuazione delle disposizioni di cui alla legge 30 maggio 2014 n. 81, inerenti l’applicazione delle misure di sicurezza detentive, la loro trasformazione e l’eventuale applicazione di misure di sicurezza, anche in via provvisoria, non detentive”.
Ai sensi di tale disposizione, siffatti accordi “al fine di ridurre il rischio di nuove forme di istituzionalizzazione, prevedono altresì modalità operative che assicurino: il costante coinvolgimento degli Uffici Esecuzione Penale Esterna territorialmente competenti; la definizione di modalità e procedure di collaborazione interistituzionale per la contemporanea gestione sia del percorso terapeutico-riabilitativo individuale interno alla struttura, che di quello di reinserimento esterno; la predisposizione e invio all’Autorità competente – nonché nel rispetto del decreto legislativo 30 giugno 2003 n. 196, anche al Ministero della Salute – dei progetti terapeutico-riabilitativi individuali finalizzati all’adozione di soluzioni diverse dalla REMS (per tutte le persone entro 45 giorni dal loro ingresso) da parte del Servizio delle predette strutture, con il concorso dell’Azienda Sanitaria competente per la presa in carico territoriale esterna e dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna, come già previsto per tutti i presenti in OPG alla data di entrata in vigore della legge 30 maggio 2014 n. 81”.
2.2. Il Consiglio aveva, inoltre, ribadito il carattere residuale attribuito alla misura di sicurezza detentiva del ricovero in OPG o in casa di cura e di custodia, come declinato dalla disposizione di cui all’art 3-ter in base al quale “il giudice dispone nei confronti dell’infermo di mente e del semi infermo di mente l’applicazione di una misura di sicurezza , anche in via provvisoria, diversa dal ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario o in una casa di cura e custodia, salvo quando sono acquisiti elementi dai quali risulta che ogni misura diversa non è idonea ad assicurare cure adeguate ed a fare fronte alla sua pericolosità sociale, il cui accertamento è effettuato sulla base delle qualità soggettive della persona e senza tenere conto delle condizioni di cui all’articolo 133 secondo comma n. 4 c.p. (…) Non costituisce elemento idoneo a supportare il giudizio di pericolosità sociale la sola mancanza di programmi terapeutici individuali”.
È, questa, una norma centrale che deve necessariamente condurre ad un approccio del magistrato del tutto diverso da quello anteriore alla sua emanazione. La nuova disciplina richiede che, sin dall’inizio del procedimento penale, l’Autorità Giudiziaria ponga particolare attenzione ad alcuni aspetti assolutamente centrali.
Già nella fase delle indagini sarà necessario, ove autore del reato risulti essere soggetto con ipotizzabile prognosi di non imputabilità o semimputabilità, non solo acquisire tutta la documentazione clinica rilevante, ma anche affidare ad un consulente l’incarico di eseguire un accertamento sulle condizioni di salute mentale dell’indagato e sulla sua eventuale pericolosità secondo i criteri indicati dalla normativa vigente.
Sarà dunque indispensabile chiedere al consulente di coordinarsi con i servizi territoriali che hanno già (o che dovranno avere) in cura il soggetto e di individuare – collaborando con i servizi – le soluzioni di cura praticabili sul territorio o con inserimento comunitario, con onere specifico, nel caso di indicazione di Rems, di specificare gli elementi in base ai quali ogni alternativa risulti non praticabile.
Il CSM, già nel 2017, indicava infatti come necessario che “gli uffici giudicanti mantengano un rapporto di costante collaborazione, scambio di informazioni e conoscenza capillare della rete dei servizi di salute mentale che fanno capo al DSM cui la legge n. 833 del 1978 assegna la responsabilità di prevenzione cura e riabilitazione dei problemi di salute psichica”. Ed è questo che potrà consentire all’autorità giudiziaria di “indirizzare il non imputabile ad un programma terapeutico adeguato al caso singolo, di plasmare le misure di sicurezza sin dal momento della pronuncia nel processo penale, di rispettare il fondamentale collegamento tra il tessuto territoriale di provenienza e l’esecuzione della misura”.
È di tutta evidenza che al magistrato viene dunque richiesto un approccio alla materia che presuppone particolari conoscenze, anche non strettamente “giuridiche”, e che in questa prospettiva giustizia e sanità debbano ‘parlarsi sempre’: in buona sostanza, quando viene aperto un fascicolo per un paziente o presunto paziente autore di reato, in quello stesso momento il magistrato deve attivare il servizio di salute mentale.
Immediatamente si deve pertanto costruire un gruppo di lavoro che dovrà elaborare un progetto terapeutico, immaginando percorsi di cura e non luoghi dove alloggiare le persone.
3. Con la recente risoluzione del 24 settembre 2018 il Consiglio Superiore della Magistratura è di nuovo intervenuto “in continuità con la delibera del 19 aprile 2017” sottolineando ancora l’assoluta necessità che “i rapporti di conoscenza dell’offerta terapeutica e riabilitativa sul territorio […] siano saldi e costantemente aggiornati”.
Con tale delibera, preso atto del non ancora completo, effettivo e soddisfacente grado di realizzazione del sistema delineato con la legge n. 81 del 2014 e dei principi ivi sanciti, il Consiglio Superiore della Magistratura ha inteso approfondire l’aspetto relativo alla formalizzazione di intese mediante la sottoscrizione di protocolli tra i soggetti istituzionali coinvolti nella gestione delle misure di sicurezza per il non imputabile, “al fine di conferire alla già auspicata collaborazione tra gli organismi pubblici e privati coinvolti carattere stabile e forma strutturata”.
È infatti consequenziale al rispetto dei principi summenzionati, in particolare quello di residualità della misura di sicurezza detentiva, l’importanza di una “piena integrazione tra i servizi di salute mentale sul territorio e l’ordine giudiziario” e, in particolare, la conoscibilità da parte degli organi giudiziari dell’offerta terapeutica e riabilitativa sul territorio: ciò al fine di consentire all’organo giudiziario, sin dal primo momento di contatto con il malato psichico autore di reato, una scelta utile e consapevole delle misure adottabili in concreto per far fronte alla pericolosità sociale dando prioritaria rilevanza alle esigenze di cura e di inclusione sociale dello stesso, visti gli effetti indesiderati e di scompenso complessivo per la tenuta del sistema propri della mera custodia neutralizzante.
In quest’ottica, i Protocolli Operativi costituiscono un prezioso strumento di lavoro, di integrazione del procedimento giudiziario in ciascuna delle sue fasi, anche quelle connotate da maggiore criticità (dalla scelta della misura in concreto applicabile alla gestione delle acuzie dell’autore di reato e alla esecuzione della misura in corso), che potrebbe contribuire ad evitare il ricorso all’applicazione dell’art. 88 c.p. ai c.d. ‘cripto-imputabili’, ossia un ‘accesso massivo e indiscriminato alle Rems per via dell’assenza di alternative concrete’.
4. Sulla scorta dunque del lavoro effettuato dalla Settima Commissione e sulla base delle esperienze già maturate in realtà virtuose (si pensi, ad esempio, all’importante lavoro compiuto con riferimento al territorio bresciano poi sfociato nell’adozione del Protocollo di Brescia), si è provveduto ad elaborare un contenuto minimo costante dei Protocolli Operativi, riguardante i soggetti coinvolti, il tipo di soluzioni, l’efficacia tempestiva e le fasi dei procedimenti cui riferirsi, i principi residuali cui i protocolli devono ispirarsi e l’aspetto della formazione congiunta e del monitoraggio della fase esecutiva.
Quanto al primo aspetto, si raccomanda la sottoscrizione del Protocollo da parte del Presidente e del Procuratore Generale della Corte d’Appello, dal Presidente del Tribunale di Sorveglianza, dal Presidente del Tribunale e dal Procuratore capo dell’Ufficio, oltre che dal Direttore dei D.S.M. competenti per territorio e dall’Uepe, con un coinvolgimento altresì dei servizi di salute mentale operanti nel carcere. In tal modo, tutti gli operatori a vario titolo coinvolti nella cura e gestione nonché controllo dei malati psichici autori di reato sarebbero posti nella condizione di conoscere a monte le soluzioni applicabili al singolo caso concreto, in un costante e vivace dialogo e scambio di informazioni che assicuri le migliori cure possibili al paziente, garantendo al contempo il soddisfacimento delle istanze di difesa e sicurezza sociale.
Prendendo spunto, poi, dall’esperienza milanese, viene valorizzato il ruolo dell’avvocatura, che deve fungere da collante sul piano procedurale e da soggetto attivo nella ricerca di soluzione eque per le esigenze di cura dei folli rei.
Spesso, infatti, il difensore può svolgere un’attività decisiva a favore delle istanze di cura del proprio assistito, sia al momento della scelta della misura da applicare e del collocamento effettivo del paziente, dialogando con i servizi territoriali e individuando le strutture disponibili all’accoglienza, sia al momento dell’esecuzione della misura, rapportandosi e sollecitando i servizi di salute mentale territoriali e l’UEPE al fine di un reinserimento graduato ma effettivo del paziente sul territorio.
Trattasi di riconoscimento importante di un ruolo, quello dell’avvocato, da esplicare in modo funzionale alla costruzione di un progetto, anche alla luce delle utili conoscenze allargate di cui i legali possono essere portatori. Ruolo da portare avanti con la consapevolezza della delicatezza della funzione, volta, soprattutto, alla cura delle persone e che impone di occuparsi dei pazienti e non delle richieste, spesso contrastanti, dei familiari degli stessi.
Al fine di facilitare i contatti tra i diversi soggetti coinvolti, si raccomanda infine di allegare ai protocolli l’elenco dei responsabili delle articolazioni territoriali del DSM e delle strutture psichiatriche, diurne, residenziali e semiresidenziali, nella disponibilità del servizio, nonché l’elenco delle Comunità terapeutiche convenzionate con l’Azienda Sanitaria Locale.
Altro aspetto di precipua importanza è quello relativo alle tempistiche di applicazione dei protocolli: non di rado accade che l’accertamento delle patologie psichiatriche e, di conseguenza, l’elaborazione del progetto terapeutico riabilitativo individuale (PTRI) subiscano dei ritardi, con conseguente grave pregiudizio per la cura dei pazienti. Per evitare tali situazioni, la risoluzione ha proceduto ad individuare alcuni ‘momenti di contatto’, al verificarsi dei quali l’applicazione immediata e tempestiva dei Protocolli può consentire una immediata presa in carico, in via prioritaria territoriale e solo residualmente istituzionale, risolvendo in radice le problematiche di competenza territoriale dei servizi e gli eventuali aspetti collegati alla possibile ‘doppia diagnosi’.
Esempi di tali ‘momenti di contatto’ sono la richiesta di misura di sicurezza provvisoria, la celebrazione dell’udienza in caso di riti speciali, l’eventuale disposizione di perizia psichiatrica, la celebrazione di un’udienza per un reato ascrivibile a soggetto recidivo al quale sia già stata applicata in precedenza altra misura di sicurezza per il non imputabile socialmente pericoloso.
La risoluzione del CSM evidenzia che nei casi in cui all’Autorità Giudiziaria è richiesta una valutazione che riguardi soggetti affetti da patologia psichiatrica, l’applicazione tempestiva dei protocolli e, di conseguenza, l’immediato coinvolgimento dei servizi territoriali, potrebbe consentire una maggiore efficacia delle cure e un minor ricorso alla misura detentiva. Tale assunto importa la necessità che vengano delineate tecniche, tempi e quesiti di massima per lo svolgimento degli incarichi peritali, con particolare riferimento alla opportunità di prevedere periodi di osservazione che non comportino, peraltro, una dilatazione irragionevole dei tempi di decisione e adozione della soluzione adeguata.
5. È evidente che nel variegato contesto nazionale, connotato da molteplici realtà assistenziali in tema di cure psichiatriche, i protocolli operativi devono essere informati al principio di differenziazione, di modo che essi possano adattarsi alle diverse realtà territoriali.
Resta ferma, peraltro, la necessità che essi tengano in debita considerazione da un lato il numero assoluto di posti letto in Rems presenti sul territorio di competenza dell’Ufficio Giudiziario di riferimento e, dall’altro, il bacino di utenza di ciascuna Asl e singola unità dipartimentale, onde poter evitare la formazione di lunghe liste di attesa per l’accesso alle diverse strutture, dando priorità ai casi di maggiore gravità e assicurando le cure a quei soggetti che, invece, si palesano come gestibili a livello territoriale.
Ne deriva l’importanza di una netta distinzione tra le fasi di accertamento, di diagnosi e di cura del disturbo mentale, con chiara indicazione di articolazioni e risorse utili utilizzabili nelle diverse fasi.
È importante che venga così assicurata la continuità terapeutica, in un quadro caratterizzato da una pluralità di soluzioni offerte, che siano note a tutti i soggetti coinvolti.
Nella circolare sono infine enfatizzati i momenti formativi e di monitoraggio: i primi, assumerebbero un ruolo importantissimo al fine di garantire l’effettività del contatto e confronto tra operatori del settore psichiatrico e del settore giudiziario e consentano, dunque, ai primi di comprendere come il percorso terapeutico possa adattarsi ai tempi propri del procedimento penale e ai secondi le basi del ragionamento e, dunque, delle scelte propri della materia psichiatrica; i secondi, da affidare a un tavolo tecnico costituito dalle stesse istituzioni che sottoscrivono i protocolli, consentirebbero di verificare puntualmente l’esito delle prassi operative delineate e, in caso di necessità, di adottare i necessari correttivi.
6. L’ulteriore intervento del Consiglio superiore della Magistratura non può che essere accolto con favore. È segno della necessità, ancora una volta, di richiamare l’attenzione dell’Autorità Giudiziaria, dell’Avvocatura e degli Operatori Sanitari sull’importanza di una riforma che impone una ‘presa in carico’ e la realizzazione di un progetto per l’autore di reato che deve essere organizzato sin dal principio del procedimento penale.
Nel corso della loro audizione avanti il CSM i medici psichiatri hanno evidenziato quanto sia diverso e più stimolante “immaginare e costruire percorsi” e non individuare solo “luoghi dove alloggiare le persone con problematiche”.
Di fronte a questo imprescindibile punto di partenza, che rappresenta il nucleo della riforma anche sulla scia del principio fondamentale espresso dalla Corte Costituzionale con la sentenza 253/2003[3] secondo cui “le esigenze di tutela della collettività non potrebbero mai giustificare misure tali da recare danno anziché vantaggio alla salute del paziente”, il lavoro di tutti gli operatori facenti parte del percorso giudiziario di un indagato/imputato parzialmente o totalmente incapace dovrà necessariamente essere coordinato e finalizzato all’obiettivo indicato.
Sarebbe dunque auspicabile che sin dall’inizio del procedimento penale il Pubblico Ministero si relazioni con il Dipartimento di salute mentale territorialmente competente anche al fine di acquisire tutta la documentazione disponibile; nonché, che vengano disposte sin dalla fase delle indagini consulenze tecniche, o eventualmente perizie in sede di incidente probatorio, con il coinvolgimento necessario ed imprescindibile dei Servizi di salute mentale che hanno in carico l’indagato, al fine di accertare la capacità di intendere e volere e, in caso di pericolosità sociale, di acquisire il progetto di cura che dovrà costituire il nucleo della misura di sicurezza.
Fondamentale in questa fase sarà la predisposizione di un quesito da sottoporre al perito che tenga conto dei criteri utilizzabili secondo le previsioni di legge (esclusione del criterio di cui all’art. 133 lettera comma 2 n. 4 c.p. e impossibilità di supportare il giudizio di pericolosità sociale per la sola mancanza di progetti terapeutici individuali) e del divieto legislativo di utilizzare la misura di sicurezza detentiva, se non nei casi in cui, sulla base di specifici elementi puntualmente indicati, il consulente motivi chiaramente la necessità del ricovero in Rems.
Un simile modo di procedere dovrebbe scongiurare richieste di misure di sicurezza provvisorie detentive basate sulle note “segnalazioni urgenti di pericolosità sociale” provenienti spesso dai medici curanti a fronte di comportamenti espressivi di una condizione psicopatologica di scompenso che dovrebbe poter essere affrontate in sede clinica, superata la quale molto spesso vi è spazio per un progetto territoriale inclusivo.
Analogamente dovrebbe orientare il proprio modus operandi il Giudice della cognizione nel caso in cui a lui venga indirizzata per la prima volta la richiesta di misura di sicurezza provvisoria.
Inutile sottolineare, inoltre, l’importanza, evidenziata dagli operatori medici della Rems, di poter dare avvio ad un percorso trattamentale e terapeutico su pazienti la cui situazione processuale e la posizione giuridica sia ormai definita.
Se dovesse realizzarsi, anche grazie alla formulazione degli auspicati protocolli, una reale collaborazione tra autorità giudiziaria, avvocatura e dipartimenti di salute mentale, potrà sicuramente essere risolto il problema delle liste di attesa delle Rems, che dovranno essere utilizzate esclusivamente per le persone che necessitano di interventi contenitivi. Così superando l’enorme problematica in atto in molte Regioni delle detenzioni in carcere, in violazione dell’art. 13 della Costituzione[4], delle persone assolte per vizio totale di mente e destinatarie di misure di sicurezza detentive e del permanere in libertà di soggetti giudicati socialmente pericolosi nei cui confronti è stata emessa misura di sicurezza detentiva.
D’altra parte la gestione esclusivamente sanitaria della Rems e la rigorosa indicazione dei criteri cui esse si devono attenere (decreto ministeriale 1° ottobre 2012) esclude categoricamente che possano legalmente ospitare persone oltre le soglie prestabilite.
7. Non ultimo, appare molto apprezzabile nella risoluzione del CSM il richiamo alla necessità di un’offerta sistematica di tutela della salute mentale in carcere da parte dei servizi dipartimentali, soprattutto in un sistema rimasto invariato non essendo stato portato a termine l’iter legislativo che avrebbe dovuto sfociare nella riformulazione dell’art. 147 c.p. e nell’abrogazione dell’art. 148 c.p.
Appare indispensabile – in attesa dell’auspicato intervento della Corte Costituzionale, cui sono stati inviati gli atti dalla sezione I penale della Corte Suprema di Cassazione con l’importantissima ordinanza 13382/2018[5] – la massima attenzione dei servizi psichiatrici delle carceri e dei Dipartimenti di salute mentali verso persone, con problematiche psichiatriche sopravvenute, cui non viene garantita, in assenza di soluzione codicistica e logistica, alcuna fuoriuscita di cura dal carcere.
Ciò in netta contrapposizione con quanto previsto per i detenuti colpiti da infermità fisica.
[1] Per un’ampia disamina della delibera, v. P. Di Nicola, Vademecum per tentare di affrontare (e risolvere) il problema dell’assenza di posti nelle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS), in questa Rivista, 13 dicembre 2017.
[2] Documento consultabile, nella sua integrità, a questo link.
[3] La Corte Costituzionale, con la nota sentenza n. 253 del 18 luglio 2003, dichiarava l’illegittimità costituzionale dell’art. 222 c.p. “nella parte in cui non consente al giudice, nei casi ivi previsti, di adottare, in luogo del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, una diversa misura di sicurezza prevista dalla legge, idonea ad assicurare adeguate cure dell’infermo di mente e a far fronte alla sua pericolosità sociale”.
Si tratta di una delle più importanti pronunce della Consulta sul tema, con la quale si è intrapreso quel processo – culminato con il definitivo superamento degli O.P.G. – di rimozione di tutti quegli automatismi che, in tema di misure di sicurezza per non imputabili, non tenevano in debita considerazione la necessità di cura dei folli rei.
[4] L’art. 13 Costituzione sancisce che “La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge. In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge l’autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto. È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà. La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva”.
[5] Cass., Sez. I, ord. 23 novembre 2017 (dep. 22 marzo 2018), n. 13382, Pres. Bonito, Est. Magi, ric. Montenero, con nota redazionale in questa Rivista, 4 aprile 2018. Con la citata ordinanza, la Suprema Corte ha sollevato questione di costituzionalità con riferimento all’art. 47-ter co.1-ter ord. pen. nella parte in cui tale norma non prevede come possibile l’applicazione della detenzione domiciliare (in deroga agli ordinari limiti di pena e di tipologia di reato) nelle ipotesi di ricorrenza di patologia psichica sopravvenuta alla condanna. Per una disamina del provvedimento citato.
Fonte: Diritto Penale Contemporaneo