Qualche nuova idea per chi ha a cuore il servizio sanitario nazionale. di Elena Granaglia

Secondo gli ultimi dati forniti dall’Ocse, nel 2017, in Italia, la spesa sanitaria pubblica a parità di potere d’acquisto era 2622 dollari pro capite; in Germania 4986; in Francia 4068 e in Svezia 4606. Seppure di poco, la spesa pubblica italiana era inferiore anche alla spesa media dei paesi Ocse, pari a 2972 euro. I paesi Ocse, vale la pena ricordare, includono paesi decisamente più poveri del nostro quali la Turchia, il Cile e la Corea. È indubbio che questo gap contribuisce a spiegare le crescenti difficoltà del nostro Servizio Sanitario Nazionale delle quali fornisce un quadro preoccupante l’ultimo Rapporto di coordinamento di Finanza pubblica 2018 della Corte dei Conti: contrazione della spesa per investimenti tecnologici e di riqualificazione degli immobili; calo dei ricoveri (che, sebbene abbia interessato i ricoveri meno complessi, spesso inappropriati, non è stato accompagnato da risposte coerenti a livello territoriale); aumento della mobilità passiva e delle liste d’attesa e persistente inadeguatezza delle risposte ai problemi della non auto-sufficienza.

Aumentare le risorse, per quanto necessario, anche a fronte di una popolazione che invecchia e che presenta bisogni di cura sempre più cronici (soffre di bisogni cronici il 39% della popolazione e il 20,5% ha più di una patologia), non è però sufficiente. Non lo è perché, come spesso sentiamo dire, i soldi potrebbero essere spesi in modo inefficiente. Non lo è in aggiunta, per una ragione, sostanzialmente ignorata nel dibattito pubblico, ma sottolineata con passione e rigore da Victor Montori nel suo ultimo libro, Perché ci ribelliamo. Una rivoluzione per una cura attenta e premurosa (Il Pensiero Scientifico Editore, Roma, 2018): i soldi potrebbero non bastare rispetto all’esigenza di una medicina dalla parte dei pazienti.

Per Montori, infatti, staremmo sempre di più assistendo a una vera e propria corruzione della missione originale della medicina. La scelta del termine corruzione non è senza significato: diversi autori riconducono l’etimologia alla contrazione di due parole latine, cor e ruptus. Il cuore della medicina sarebbe, dunque, frantumato. Serve, allora, riportare la medicina a “pratica profondamente umana capace di erogare una cura attenta e gentile a tutti”. Anche per questo, i soldi, certamente, servono: è difficile avere il tempo e la disposizione a relazionarsi con i pazienti, sentirne le esigenze e assolvere alle domande di ascolto se si è sommersi e provati dagli impegni più tecnici di assistenza. I soldi non sono, però, tutto.

Il libro di Montori ha come riferimento gli Stati Uniti, dove la sanità è dominata da grandi attori privati, siano esse le catene ospedaliere, le imprese farmaceutiche e le assicurazioni sanitarie, ormai trasformate in imprese, come le altre, trascinate dalla finanziarizzazione dell’economia a garantire il massimo rendimento ai propri azionisti. Negli Usa, in altri termini, saremmo di fronte non soltanto a un mercato caratterizzato dalle tipiche inefficienze dovute alle carenze informative (dall’incompletezza assicurativa dovuta alla presenza di eventi incerti, non assicurabili, alle asimmetrie informative che caratterizzano la relazione d’agenzia fra medico e paziente…), ma anche a un complesso sanitario oligopolistico, dove “giganti” privati considerano l’investimento in medicina come qualsiasi altro investimento economico, esercitando sia potere di mercato sia potere sulla politica in modo da preservare e, se possibile, aumentare il proprio potere economico.

In questo contesto, scrive Montori, i pazienti sono standardizzati come in un processo industriale: procedure inflessibili e omogenee sono introdotte per i diversi tipi di paziente, nella totale sottovalutazione dei singoli pazienti. Le condizioni di salute “unglamorous” che, come nel caso di molte malattie croniche, richiedono un’intensità di lavoro relativamente elevata e generano un basso tasso di profitto sono trascurate a favore degli interventi “glamorous”, ad alto tasso tecnologico, anche quando il rapporto efficacia-costi è nullo. Al contempo, le grandi imprese farmaceutiche non solo riescono a praticare prezzi elevatissimi, inaccessibili a molti cittadini, grazie a diritti di proprietà intellettuale che conferiscono rendite ben superiori a quelle che potrebbero essere necessarie per stimolare l’innovazione. Forti degli elevati profitti, esse riescono anche a medicalizzare sempre più condizioni di disagio (da quelle degli adolescenti a scuola con difficoltà di apprendimento a quelle di adulti con problemi di depressione) che hanno ben poco a vedere con la medicina e ad abbassare sempre più le soglie di attivazione dell’intervento medico (come nel caso dei livelli di colesterolo o della pressione sanguigna a cui incominciare il trattamento farmacologico).

Ora, non tutti gli interessi del complesso sanitario privato vanno nella medesima direzione. Per le assicurazioni, massimizzare i profitti significa minimizzare la spesa sanitaria, mentre per le imprese farmaceutiche e per gli ospedali così non è. Ciò nondimeno, la ricerca del profitto accomuna tutti i comportamenti.

Cosa bisognerebbe fare? Montori sollecita un ripensamento profondo nelle modalità della cura. La presa in carico della persona deve rispettare le sue aspettative, le sue fragilità e forse soprattutto i tempi: “per prendersi cura delle persone i clinici devono permettersi di rallentare” resistendo alle pressioni di chi li vorrebbe più efficienti perché capaci di svolgere un più alto volume di attività remunerative. Al contrario, mettere al centro dell’assistenza la redditività si traduce in meno tempo dedicato al malato, in minore attenzione, nella rinuncia a quelle “piccole gentilezze” che qualificano e rendono prezioso un rapporto.

In questa prospettiva, la via dovrebbe essere quella di una medicina a minimo impatto (minimally disruptive medicine), che dia il minor fastidio possibile al malato, non aggiungendo alcun carico non necessario agli oneri che già comporta la malattia. Alcuni cambiamenti sono semplici: ad esempio, è proprio necessario svegliare così presto i malati ricoverati come ancora avviene in molti ospedali, anche se certamente non tutti? Non ci vorrebbe un po’ più di riflessione prima di continuare a prescrivere così tanti farmaci negli ultimi anni di vita dei grandi anziani? Altri sono più complessi. Contro la frammentazione dell’assistenza in tanti luoghi/orari diversi, spesso mal collegati fra loro, occorrerebbero coordinamento e unitarietà, anche grazie alla valorizzazione di una figura che accompagni il malato nel percorso di cura. La tendenza alla medicalizzazione (sovradiagnosi, extradiagnosi e conseguente sovratrattamento) va, altresì, contrastata a favore dello sviluppo di una medicina che sappia giudicare quando fermarsi, trovando un punto di equilibrio tra le aspettative di benessere delle persone e le ragionevoli possibilità di soddisfarle.

Come sopra indicato, l’analisi di Montori concerne la situazione statunitense, caratterizzata da un sistema differente da quello italiano, dove la sanità è principalmente in mano al SSN. Ma le sue riflessioni sono rilevanti anche per il nostro SSN.

Diverse tendenze riscontrate negli Usa si manifestano, infatti, anche da noi. La gran parte del (pur limitato) incremento della spesa sanitaria pubblica registrato in questi ultimi anni è andato in modo prevalente alla spesa farmaceutica: è difficile non sospettare l’influenza dell’industria farmaceutica. Gli anni passati hanno visto, anche da noi, il diffondersi del cosiddetto New Public Management, un modello di gestione basato sull’introduzione, anche nel settore pubblico, di regole che mimano il mercato:in primis, la standardizzazione dei processi produttivi e la diffusione di una logica di incentivi e disincentivi centrata su obiettivi aziendalistici di efficienza produttiva (massimizzazione di output dati gli input). Un problema serio è che, anche qualora si scegliessero output appropriati (e spesso non lo si fa, come nel caso della massimizzazione delle visite in un dato arco temporale), gli aspetti della cura e della gentilezza mal si prestano alla quantificazione e alla standardizzazione. Dunque, essi risultano largamente trascurati da quel modello. Il SSN non sfugge neppure alla più complessiva medicalizzazione, allo scaricamento sui pazienti di costi ben superiori a quelli accettabili per una minimally disruptive medicine e ai rischi di un trattamento “non gentile”, rischi ulteriormente accentuati dall’austerità sanitaria che ha reso sempre più difficile occuparsi di ciò che non rientra negli aspetti più tecnici della cura.

Si consideri l’esperienza che tocca a molti pazienti, ricoverati in ospedale. Al momento delle visite, i medici corrono da un letto all’altro, poi scompaiono e i pazienti non hanno quasi modo di parlare con loro, mentre gli infermieri spesso neppure hanno tempo per un sorriso. Quando poi un paziente fortunatamente esce dall’ospedale, ma deve controllare periodicamente le proprie condizioni, ad esempio, contro i rischi di recidive di un tumore, i controlli troppo spesso richiedono di muoversi da una parte all’altra dell’ospedale per pagare i ticket, fare file sia per questi ultimi sia per gli esami da fare, comunque programmati in giorni diversi, affrontare tempi di attesa non indifferenti, nonostante si sia già inseriti in un percorso di cura, qualora esami addizionali si rendano necessari. Certo, come sopra riconosciuto, medici e infermieri sono sempre più condannati a turni doppi faticosi, spesso le retribuzioni sono del tutto inadeguate rispetto allo sforzo profuso ed esistono anche esperienze di buona integrazione fra le diverse cure. È, però, diffusa una tendenza a trattare il paziente come un soggetto di seconda classe, cui non è dovuta l’uguaglianza di considerazione e rispetto, il diritto di essere informato e di essere parte attiva nel protocollo di cura.

Il libro di Montori parla, dunque, anche al SSN. Una visione sempre più industriale della medicina come risposta tecnica a un numero crescente di malattie, dovrebbe essere sostituita da una visione che privilegia l’aspetto della cura gentile del paziente. In questa prospettiva, le tecniche vanno certamente, utilizzate, ma solo quando servono e il focus primario è minimizzare l’onere complessivo della cura per chi è in difficoltà.

Fonte: eticaeconomia

Elena Granaglia

 

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