40 anni dalle grandi riforme sanitarie. Legge Basaglia e istituzione del Ssn: una riflessione comune (PRIMA parte). di Filippo Palumbo

La eccezionalità di quanto è accaduto nell’anno 1978 può essere meglio compresa facendo riferimento ad un modello di processo decisionale definito da J. Kingdom (2010) e richiamato da K. Buse et al, (2012). In base a tale modello si può assumere che nella realizzazione delle politiche pubbliche per passare dalla consapevolezza di un  “problema” alla “decisione” di metterne in “agenda” la soluzione occorre tener conto della apertura (e della chiusura) di “finestre di opportunità”

Premessa
Questo secondo semestre 2018 vede aggiungersi alla scadenza dei 40 anni dall’approvazione della legge 13 maggio 1978 n,180 (la cosiddetta legge Basaglia) anche quella dei 40 anni dall’approvazione della legge 23 dicembre 1978 n. 833 ( la legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale).

Le due scadenze sono oggetto di eventi, contributi e articoli di carattere storico, valutativo  o celebrativo che hanno riguardato l’una o l’altra scadenza ovvero le hanno associate in una riflessione congiunta sul significato delle due leggi.

In questa riflessione congiunta una delle ipotesi è la seguente:
– Non avremmo avuto la legge 833  sul finire del 1978 senza Basaglia e senza la legge 180.
– Non avremmo avuto nel corso del 1978 la legge 180 senza il contesto (straordinariamente peculiare) del processo di decentramento/regionalizzazione che negli anni 70 aveva interessato ampi settori dell’ambito sanitario e sociale del nostro Paese.

Seguendo questa ipotesi – facendo seguito ad un intervento sul tema Legge Basaglia e istituzione del SSN: cosa succedeva nel 1978 svolto a Torino il 10 ottobre 2018 nell’ambito di un convegno organizzato dalla locale ASL su Legge Basaglia 1978-2018: una storia lunga 40 anni – sono qui di seguito sviluppati una serie di punti che si soffermano su aspetti non solo di ricostruzione storica ma anche di inquadramento nella più generale vicenda dell’assistenza sanitaria e socio sanitaria in Italia, con la finalità di contribuire ad un suo miglioramento ed adeguamento.

1. La dimensione socio sanitaria
L’assistenza alle persone con disturbi mentali rappresenta un primario esempio di integrazione socio sanitaria in cui sono erogate in maniera coordinata un ampio spettro di prestazioni, che, in coerenza con quanto disposto dall’articolo 3-septies del decreto legislativo 229/1999, possono essere:
1. sanitarie
2. sanitarie a rilevanza sociale
3. sociali a rilevanza sanitaria
4. sociali

Nel loro complesso le prestazioni di cui ai punti b) e c) (prestazioni sociosanitarie) garantiscono tutte le attività atte a soddisfare, mediante percorsi assistenziali integrati, bisogni di salute della persona che richiedono unitariamente prestazioni sanitarie e azioni di protezione sociale in grado di garantire, anche nel lungo periodo, la continuità tra le azioni di cura e quelle di riabilitazione. Definizione questa che si adatta alla missione dei servizi per la salute mentale.

D’altra parte, è utile ricordare che l’Ospedale Psichiatrico (OP) prima della legge Basaglia, era stato ed era rimasto attribuito alla competenza dell’Amministrazione Provinciale titolare di funzioni rilevanti in materia di strutture e servizi sociali. L’OP poteva quindi considerarsi struttura dell’area sociale, mentre il Direttore (medico) era sanitario, configurando una sorta di dimensione socio-sanitaria, seppur impropria, anzi regressiva.  Con Basaglia, si “sanitarizza” la psichiatria, che entra a pieno titolo nella sanità. Attenzione: si sanitarizza, nonsi medicalizza.

2. Salute mentale e salute
Il concetto di salute mentale che sottende l’insieme delle diposizioni recate dalla legge 180/1978 ed integrate dalla legge 833/1978 (in particolare dagli articoli 1, 2, 34 e 35)  è perfettamente coerente con il concetto di salute che, formulato nel 1948 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità,  è stato via via adeguato dallo stesso OMS:
1. la prima storica formulazione  :“La salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non consiste soltanto in un’assenza di malattia di infermità”;

2. la Dichiarazione di Alma Ata /1978) con la quale si concentra l’attenzione sull’importanza della prevenzione all’interno dei sistemi sanitari nazionali e nell’ambito internazionale;

3. la definizione della  promozione della salute (1984): “La promozione della salute è il processo che permette alle persone di aumentare il controllo su di sé e migliorare la propria salute” ;

4. la ulteriore definizione contenuta nella Carta di Ottawa (1986): “La promozione della salute é il processo che conferisce alle popolazioni i mezzi per assicurare un maggior controllo sul loro livello di salute e migliorarlo. Questo modo di procedere deriva da un concetto che definisce la salute come la misura in cui un gruppo un individuo possono, da un lato, realizzare le proprie ambizioni  e soddisfare i propri bisogni e dall’altro, evolversi con l’ambiente adattarsi a questo. La salute è dunque percepita come risorsa della vita quotidiana e non come il fine  della  vita: è un concetto positivo che mette in valore le risorse sociali e individua/i, come le capacità  fisiche.  Cosi, la promozione  della salute non è legata soltanto al settore sanitario: supera gli stili di vita per mirare al benessere”.

3. 1978: Non per caso, in buona parte per necessità, ma molto grazie anche a un’opportunità.
La eccezionalità di quanto è accaduto nell’anno 1978 può essere meglio compresa facendo riferimento ad un modello di processo decisionale definito da J. KINGDOM (2010) e richiamato da K.. BUSE et al, (2012). In base a tale modello si può assumere che nella realizzazione delle politiche pubbliche per passare dalla consapevolezza di un  “problema” alla “decisione” di metterne in “agenda” la soluzione occorre tener conto della apertura (e della chiusura) di “finestre di opportunità”.

Tali finestre vengono a determinarsi quando, nel loro svilupparsi nel tempo, vengono a incrociarsi le linee evolutive di tre fattori:
– una problematica
– la disponibilità di una soluzione di tale problematica
– la volontà politica di applicare la soluzione alla problematica

Ciò che accadde nel 1978 fu appunto il determinarsi di una finestra di opportunità per l’incrociarsi in quell’anno delle linee evolutive dei tre seguenti fattori:
– esistenza di un problema (forti carenze e inefficienze nel settore sanitario e insopportabilità dell’esperienza manicomiale)
– disponibilità di una soluzione tecnico-giuridico-economica per entrambe le tematiche
– il formarsi, per i due settori, di una volontà politica di farsi carico del problema e di adottare e realizzare la soluzione disponibile (approvazione di un nuovo quadro normativo e sua implementazione).

DAL PROBLEMA ALLA DECISIONE

4. Dai manicomi ai dipartimenti di salute mentale 
In materia di strutture e organizzazione manicomiale, psichiatrica e di servizi per la salute mentale, per quanto attiene alla ricostruzione della storia e del percorso che ha portato alla legge 180/1978 è utile ricordare quanto segue:

– XV secolo: a partire dal 1400 si ha la realizzazione di strutture di ricovero con le caratteristiche e le finalità di quelli che poi saranno definiti “manicomi” e poi ancora “ospedali psichiatrici”. Nella realtà italiana tali strutture hanno continuato ad operare negli stati preunitari e poi nel Regno d’Italia.

– 1874: viene proposto dal ministro dell’Interno Girolamo Cantelli un “progetto di regolamento”, che rimane senza attuazione.

– 1891: viene svolta una “ispezione sui manicomi del Regno” voluta dal ministro dell’Interno Giovanni Nicotera.

– 1891: l’espressione MANICOMIO GIUDIZIARIO è introdotta dall’art. 469 del Regio Decreto n. 260 per definire la struttura alla quale avviare i condannati a pena superiore ad un anno, impazziti in carcere ed altre categorie di rei colpiti  da alienazione mentale o in fase di osservazione, configurando un circuito custodialistico separato per il l reo-folle.

– 1902: viene presentato da Giolitti al Senato un disegno di legge “Disposizioni intorno agli alienati e ai manicomi”.

– 1904: viene approvata la legge 36 basata su un   criterio di internamento legato ai criteri di  pericolosità sociale e pubblico scandalo..La legge Giolitti è pienamente applicata con il regolamento di attuazione – R.D. 16 Agosto 1909 n. 615  che disciplina  tutti gli aspetti fondamentali. dell’organizzazione e gestione dei manicomi

– 1924: viene costituita la Lega Italiana di Igiene e Profilassi Mentale;. Vengono poi previsti i Dispensari per una cura precoce della malattia mentale.

– 1930: il codice di procedura penale all’art. 604  prevede che il ricovero in manicomio sia accompagnato dall’iscrizione al casellario giudiziario, configurando una forma di  stigmatizzazione accentuata dal codice civile con la previsione dell’interdizione e dell’inabilitazione che limitano la capacità di agire del soggetto sul piano civilistico (MELANI 2014).

– 1937: si completa l’attivazione di una parte cospicua della rete nazionale delle strutture manicomiali.

– 1946-1978: per molti anni l’avvento della Repubblica non comporta significativi cambiamenti, la rete assistenziale psichiatrica resta quella precedentemente citata come rete delle strutture manicomiali,, poi evolutesi in ospedali psichiatrici, salvo le innovazioni parziali prodottesi negli anni sessanta come primo effetto di quello che può essere definito il fattore Basaglia e del movimento antimanicomiale (vedi punto 6.1) Si arriva al 1978 con una situazione per cui  nel 55% delle province italiane vi era un ospedale psichiatrico pubblico, mentre nel resto del paese ci si avvaleva di strutture private (18%) o delle strutture di altre province (27%) (BERTINO 2018).

5. Dalla sanità delle prefetture e poi delle mutue e degli ospedali alle unità sanitarie locali
In materia di complessiva organizzazione sanitaria (rispetto alla quale l’organizzazione manicomiale era stata per molti aspetti tenuta rigidamente separata), per quanto attiene alla  ricostruzionedella storia e del percorso che ha portato alla legge 833/1978 è utile richiamare alcuni sintetici elementi, funzionali all’obiettivo di operare una valutazione congiunta delle due riforme approvate nel 1978.

La Repubblica Italiana, al suo nascere eredita un articolato ma non unitario assetto organizzativo e strutturale in campo sanitario che a partire dal Regno d’Italia si era strutturato in due macroaggregati:
– Strutture e servizi di sanità pubblicadall’anno 1865 (Legge n. 2248 – Allegato C )  al 1934  (Testo unico delle leggi sanitarie, emanato con R.D. 27 luglio 1934,  n. 1265)

– Strutture e servizi di assistenza e ricovero dal periodo 1862 – 1890 (Legge 753/1862 e altre successive  sulle strutture e servizi di ricovero e di assistenza) al  periodo 1933 -1944  (nascita di enti nazionali a carattere previdenziale e sanitario quali INPS, INAIL, INAM).

Per molti anni nella Repubblica Italiana la rete dei servizi sanitari resta disegnata da quanto si era delineato negli ultimi decenni del Regno d’Italia, nonostante la presenza nella Costituzione dell’articolo 32 (La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti…………) . Il prevalente riferimento costituzionale è in realtà l’articolo 38 (………I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria…………).

Quindi la rete sanitaria rimane operante fino al 1978 come sommatoria di reti funzionalmente e istituzionalmente separate:
a) rete di sanità pubblica
b) rete degli enti sanitari nazionali (comprensiva della medicina di base e della specialistica ambulatoriale territoriale)
c) rete ospedaliera comprensiva della specialistica ambulatoriale ospedaliera
d) rete delle strutture di assistenza socio sanitaria

Filippo Palumbo
Già Direttore generale e Capo Dipartimento della Programmazione sanitaria del Ministero della Salute dal 2003 al 2013

Fonte: Quotidiano Sanità 

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