I medici e il razzismo in medicina. di Mattia Quargnolo

Molti professionisti, sinceramente devoti all’equità e alla giustizia, troveranno spiacevole e incredibile l’idea che loro stessi possano contribuire a sistematiche disparità di trattamento su base razziale. Ma la difficoltà ad accettare questi argomenti riflette una mancanza di conoscenza su come funzionino questi ubiqui processi cognitivi e a maggior ragione la questione dovrebbe essere affrontata con decisione.  La letteratura suggerisce che i bias razziali siano molto diffusi e che possano coesistere con dichiarazioni esplicite antirazziste e comportamenti di tolleranza e quindi influenzare il comportamento in una varietà di modi molto sottile e problematica.


La percezione pubblica è che la pratica medica si basi quasi esclusivamente sulla scienza, lontana da razzismo e pregiudizi. E lo stesso sembra pensare la classe medica. La medicina invece non è affatto invulnerabile a questi fenomeni e averne una scarsa consapevolezza può fare molti danni in termini di salute. È noto e ben documentato che le minoranze etniche godano di una salute peggiore rispetto ai gruppi in maggioranza, anche controllando per fattori sociali ed economici.[1,2] Negli USA, ad esempio, le persone afroamericane hanno un esordio più precoce di multimorbosità, maggiore gravità e più rapida progressione delle malattie, più alti livelli di comorbosità e disabilità durante la vita e più alti tassi di mortalità rispetto alle persone bianche.[3] Nonostante questa disparità, paradossalmente queste stesse minoranze talvolta ricevono una minore qualità delle cure. Questo è esattamente quello che De-Shalit e Wolff chiamano “corrosive disadvantage”, ossia quella condizione di svantaggio che rende più probabile uno svantaggio ulteriore.[4]Ad esempio, i pazienti afro-americani, a parità di dolore riferito, ricevono meno antidolorifici e, a parità di sintomi, i pazienti con dolore toracico sono meno spesso sottoposti a cure specialistiche cardiologiche.[5,6]

Le fonti di questo gap di cura sono complesse e radicate in una lunga storia di disuguaglianze, coinvolgendo numerosi attori a diversi livelli: i sistemi sanitari, i processi burocratico-amministrativi, i professionisti della salute e i pazienti stessi. Tra questi fattori l’incontro clinico, la relazione col paziente, potrebbe essere uno dei momenti chiave. Una delle modalità con cui queste disparità possono essere acuite è il manifestarsi di bias, siano essi espliciti o impliciti. bias razziali in particolare sembrano avere un ruolo in contesti culturali con una particolare storia di razzismo e integrazione.[7,8] Il termine “bias impliciti” comprende sia gli stereotipi che i pregiudizi inconsci ed è spesso definito in questo contesto come “la valutazione negativa di un gruppo nei confronti di un altro gruppo”.[9] Non c’è però l’intenzione cosciente di un trattamento differente: i bias impliciti sono connaturati alla struttura cognitiva di ognuno e anche se certamente possono essere modulati dalle influenze culturali e ambientali, difficilmente possono essere estirpati del tutto. Questo è particolarmente evidente notando che i bias si manifestano maggiormente in contesti ad alto livello di stress o di multitasking, di cui un esempio lampante è l’ambiente di cura. La letteratura suggerisce che i bias razziali siano molto diffusi e che possano coesistere con dichiarazioni esplicite antirazziste e comportamenti di tolleranza e quindi influenzare il comportamento in una varietà di modi molto sottile e problematica.[10]

I bias impliciti sono presenti nei medici e nel personale sanitario a livelli paragonabili a quelli della popolazione generale. [11] Questi bias influenzano il giudizio clinico e il comportamento sanitario e vi è una correlazione negativa tra il livello di bias e il livello di qualità delle cure. Ai pazienti afro-americani vengono proposti meno frequentemente trattamenti oncologici avanzati[12-14], ricevono antibiotici con minore appropriatezza[15] o ricevono meno attenzione in Pronto Soccorso per sintomi cardiaci.[16] In particolare, i bias impliciti sembrano predire peggiori outcome in termini di comunicazione e interazione coi clinici.[17] In letteratura ci si è chiesti se è possibile che esistano associazioni implicite giustificate dai dati epidemiologici. Alcuni studi statunitensi mostrano come in realtà patologie e condizioni associate in modo stereotipato agli afro-americani, come ad esempio l’abuso di sostanze e le abitudini sul fumo, non corrispondano ai dati di prevalenza e non giustifichino pertanto l’associazione implicita.[18]

Un recente articolo di una studentessa della University of Chicago, Natalia Khosla, tenta di andare oltre e cogliere i meccanismi alla base dei bias razziali impliciti.[19] Sono stati intervistati professionisti sanitari – medici, infermieri e studenti di medicina – in un ospedale di Chicago e in uno di Nizza, a cui è stato chiesto di leggere dei referti riguardanti un ipotetico paziente iperteso: le storie cliniche sono identiche, eccezion fatta per l’etnia. In seguito sono state poste le seguenti domande: “Quanto è probabile che questo pazienti migliori?” e “Quanto è probabile che il paziente segua le raccomandazioni di trattamento?”. I risultati mostrano che gli intervistati americani valutavano i pazienti bianchi significativamente più responsabili per la propria salute rispetto agli afro-americani e più inclini ad aderire alla terapia proposta. Secondo un modello di mediazione, si è potuto vedere inoltre che meno i pazienti venivano reputati responsabili, meno ci si aspettava che seguissero la terapia e che potessero migliorare in termini di salute. La responsabilità personale è stata quindi proposta come un potenziale meccanismo di funzionamento dei bias impliciti.

Tradizionalmente la responsabilità personale ha un’accezione negativa: un gruppo svantaggiato negativamente stereotipato viene ritenuto responsabile per le proprie condizioni avverse e quindi meritevole di condanna.[20] In questo contesto invece è possibile ipotizzare che la responsabilità personale sia vista dai professionisti americani come un tratto positivo che si focalizza più sulla capacità futura di agire sulla propria salute e meno sulle cause che l’hanno determinata. Questo sarebbe coerente col modello proposto da Ryn e Fu sul contributo dei clinici alle disparità razziali in salute.[21] La ricerca poi propone il confronto tra paesi: la Francia è un paese con una simile composizione etnica e distribuzione del reddito rispetto agli USA ma con una differente storia di relazioni razziali e una differente concettualizzazione della responsabilità personale.[22] Dallo studio emerge infatti come i meccanismi esposti per i clinici statunitensi non siano validi invece per quelli francesi, che non mostrano livelli di bias significativi. Viene quindi ipotizzato che i bias razziali possano essere specifici per paese e quindi radicati in qualche modo nella cultura e nella storia di integrazione di quel paese. Nonostante la categorizzazione sociale sia una strategia base di processazione delle informazioni, alcune soluzioni possibili sono state messe in campo: alcune scuole di medicina formano gli studenti e i professionisti sanitari a riconoscere i propri bias e pregiudizi. In alcune Università lezioni e workshop sui bias impliciti sono previste nei curriculum. L’approccio formativo dei decenni scorsi puntava però il dito direttamente contro l’atto discriminatorio. In alcuni casi dopo i corsi alcuni partecipanti sembrano essere ancora più rafforzati nelle loro convinzioni e nei loro bias. Uno studio del 2007 ha esaminato i programmi di formazione sulla diversità di più di 800 aziende per 30 anni e ha rilevato che in quasi nessun programma c’è stato un miglioramento nel livello di pregiudizio dei partecipanti e, anzi, in alcuni casi questo è peggiorato.[23]

Un nuovo approccio prevede invece di partire dal principio che siamo tutti soggetti a questo meccanismo cognitivo e sicuramente abbiamo delle convinzioni e dei giudizi inconsci su gruppi etnici o sociali di cui non siamo nemmeno a conoscenza. La formazione è indirizzata a conoscere i propri bias e cercare di modificare i propri comportamenti grazie a questa accettazione e consapevolezza. Un’importante area di lavoro individuata è quella dell’empowerment del paziente: la disparità di trattamento infatti passa in buona parte dal coinvolgimento nella relazione di cura.[24] Identificare strategie di formazione efficaci e incorporarle stabilmente nei curricula dei professionisti sanitari sembra essere un intervento fondamentale per evitare che uno dei pilastri dei sistemi sanitari, l’imparzialità nella cura, non risulti compromesso e per arginare le influenze culturali e sociali che possono alimentare un’imperdonabile disuguaglianza su base etnica da parte di una classe che, per suo esplicito mandato deontologico, questa disuguaglianza sarebbe deputata a eliminarla. Le evidenze ci dicono però anche che la consapevolezza e la motivazione sono condizioni necessarie ma non sufficienti: abbiamo bisogno di una riorganizzazione dei servizi che permetta ai professionisti di avere tempo e risorse cognitive adeguate al controllo e al superamento dei loro bias. Molti professionisti, sinceramente devoti all’equità e alla giustizia, troveranno spiacevole e incredibile l’idea che loro stessi possano contribuire a sistematiche disparità di trattamento. Ma la difficoltà ad accettare questi argomenti riflette una mancanza di conoscenza su come funzionino questi ubiqui processi cognitivi e a maggior ragione la questione dovrebbe essere affrontata con decisione.

Rapporto. I bianchi ricevono una migliore assistenza sanitaria. Finalmente ho capito perché Michael Jackson si sbiancava…

Mattia Quargnolo, Scuola di Specializzazione in Igiene e Medicina preventiva. Università di Bologna

Bibliografia

  1. Priest N, Williams DR. Racial discrimination and racial disparities in health. In: Major B et al. The Oxford Handbook of Stigma and Health, 2018, pp. 163-182
  2. Richman LS et al. Interpersonal discrimination and health. In: Major B et al. The Oxford Handbook of Stigma and Health, 2018, pp. 203-218
  3. Williams DR, Wyatt R. Racial Bias in Health Care and Health – Challenges and Opportunities. JAMA 2015; 314(6):555–556
  4. Wolff J, De-Shalit A. Disadvantage. Oxford University Press, 2007
  5. Todd KH, Samaroo N, Hoffman JR. Ethnicity as a risk factor for inadequate emergency department analgesia. JAMA 1993; 269:1537–1539
  6. Schulman KA et al. The Effect of Race and Sex on Physicians’ Recommendations for Cardiac Catheterization. N Engl J Med 1999; 340:618-626
  7. Cooper LA et al. The associations of clinicians’ implicit attitudes about race with medical visit communication and patient ratings of interpersonal care. Am J Public Health 2012; 102(5):979-87
  8. Zestcott CA et al. Examining the Presence, Consequences, and Reduction of Implicit Bias in Health Care: A Narrative Review. Group Process Intergroup Relat 2016;19(4):528-542
  9. Holroyd J, Sweetman J. The Heterogeneity of Implicit Bias. In: Brownstein M, Saul J (eds.), Implicit Bias and Philosophy. Oxford University Press 2016
  10. Kelly D, Roedder E. Racial Cognition and the Ethics of Implicit Bias. Philosophy Compass. 2008. 522–540
  11. Nosek BA, Smyth FL, Hansen JJ et al. Pervasiveness and correlates of implicit attitudes and stereotypes. Eur Rev Soc Psychol 2007; 18(1):36–88
  12. Penner LA, Hagiwara N, Eggly S, Gaertner SL, Albrecht TL, Dovidio JF. Racial Healthcare Disparities: A Social Psychological Analysis. Eur Rev Soc Psychol 2013; 24(1):70-122
  13. Van Ryn M, Burgess DJ, Dovidio JF et al. The impact of racism on clinician cognition, behavior, and clinical decision making. Du Bois review : social science research on race 2011; 8(1):199-218
  14. Morris AM, Billingsley KG, Hayanga AJ, Matthews B, Baldwin LM, Birkmeyer JD. Residual treatment disparities after oncology referral for rectal cancer. J Natl Cancer Inst 2008; 100(10):738-44
  15. Gerber J et al. Racial Differences in Antibiotic Prescribing by Primary Care Pediatricians. Pediatrics 2013; 131(4):677-84. doi: 10.1542/peds.2012-2500
  16. Pope JH et al. Missed diagnoses of acute cardiac ischemia in the emergency department. N Engl J Med 2000;342(16):1163-70.
  17. Penner LA et al. Patient stigma, medical interactions, and healthcare disparities: a selective review. In: B. Major, J.F. Dovidio, B.G. Link (Eds.), The Oxford Handbook of Stigma and Health, 2018
  18. Maserejian NN, Lutfey KE, McKinlay JB. Do physicians attend to base rates? Prevalence data and statistical discrimination in the diagnosis of coronary heart disease. Health services research 2009; 44(6):1933-1949
  19. Khosla NN, Perry SP, Moss-Racusin CA, Burke SE, Dovidio JF. A comparison of
    clinicians’ racial biases in the United States and France. Soc Sci Med 2018; 206:31-37
  20. Crandall C. et al. An Attribution-Value Model of Prejudice: Anti-Fat Attitudes in Six Nations. Personality and Social Psychology Bulletin 2001; 27(1):30-1
  21. Van Ryn M, Fu SS. Paved With Good Intentions: Do Public Health and Human Service Providers Contribute to Racial/Ethnic Disparities in Health? American Journal of Public Health 2003; 93(2):248-255
  22. Fysh P, Wolfreys J. The Politics of Racism in France. New York, NY: Palgrave MacMillan, 2003.
  23. Dobbin, F, A Kalev, and E Kelly. Diversity Management in Corporate America 2007. Contexts 2007;6 (4):21-28
  24. Penner L et al. Patient Stigma, Medical Interactions, and Health Care Disparities: A Selective Review. In: Major B et al., The Oxford Handbook of Stigma and Health, 2018
Print Friendly, PDF & Email