«Esprimiamo tutta la nostra solidarietà a Paula Morandi, per quanto sta subendo a causa di questa ignobile condanna. E rinnoviamo la nostra solidarietà anche verso le molte persone che, come Paula, si sono trovate a dover “dimostrare” la loro disabilità visiva»: così Assia Andrao, presidente di Retina Italia, commenta la vicenda di Paula Morandi Treu, persona con accertata e grave disabilità visiva, condannata, a quanto pare, per “normalità”, come da noi segnalato nei giorni scorsi e alla quale va anche il pieno appoggio di Giulio Nardone, presidente dell’ADV (Associazione Disabili Visivi)
Sulla vicenda di Paola (“Paula”) Morandi Treu, persona con accertata e grave disabilità visiva, condannata, a quanto pare, per “normalità”, come abbiamo segnalato nei giorni scorsi su queste pagine, riceviamo e ben volentieri pubblichiamo le riflessioni di Assia Andrao, presidente dell’Associazione Retina Italia, segnalando anche di avere ricevuto pure da Giulio Nardone, presidente dell’ADV (Associazione Disabili Visivi), un messaggio in cui «esprime con tutte le sue forze e con totale convincimento, l’appoggio pieno e incondizionato a Paola Morandi Treu».
Vogliamo esprimere tutta la nostra solidarietà a Paula Morandi, per quanto sta subendo a causa di questa ignobile condanna. E rinnoviamo la nostra solidarietà anche verso le molte persone che, come Paula, si sono trovate a dover “dimostrare” la loro disabilità visiva. Dimostrazione che dopo molte lotte e umiliazioni viene espressa, e non lascia ai Giudici altra decisione se non quella di assoluzione, perché il fatto non sussiste.
È una situazione alla quale occorre veramente dire basta! Sono già diversi anni che tentiamo di sradicare questo fenomeno. Il tema dei “falsi ciechi” è di una vastità e complessità veramente particolare, che investe, oltre a quello scientifico, anche gli aspetti sociali, etici, morali, politici e giudiziari, e che non si può certo esaurire in poche righe.
Dopo molte battaglie da parte delle Associazioni di pazienti, e al fine di adeguarci alle normative europee, si è arrivati alla Legge 138/01 sulla Classificazione e quantificazione delle minorazioni visive e norme in materia di accertamenti oculistici. Tale classificazione divide le minorazioni visive in: ciechi totali; ciechi parziali; ipovedenti gravi; ipovedenti medio-gravi; ipovedenti lievi, e ad ognuna di queste categorie corrisponde un diverso contributo pensionistico.
I parametri adottati con tale Legge, inoltre, prevedono per la prima volta, ai fini della classificazione, anche il residuo visivo perimetrico binoculare. Le distrofie retiniche, in particolare, e altre patologie come la LHON [neuropatia ottica ereditaria di Leber: la malattia di Paula Morandi Treu, N.d.R.], e forme sindromiche, sono patologie degenerative progressive, rare e senza terapia, e coloro che ne sono affetti, aggravandosi, si troveranno a far parte di volta in volta di tutte quelle categorie, da ipovedenti lievi a ciechi totali. Perché, allora, nonostante quella Legge sia stata approvata diciassette anni fa, l’ipovisione è ancora incompresa?
Perché “non è visibile”, perché ancora viviamo di stereotipi, perché si ha il bisogno di individuare, di “vedere” la disabilità, di collocarla in un luogo a parte, di sapere che è altro, che l’ipovedente non esiste, mentre il cieco è, e, perché no, deve rimanere il “povero cieco”, bisognoso solo di assistenza.
In altre parole, tutto ciò che non è capito non è scusato, giustificato, non è accolto e per comodità deve restare invisibile, ignoto. Quindi basta che in una trasmissione sulle reti nazionali e private si decida di fare uno scoop sui “falsi ciechi”, partendo da fatti di cronaca reali, ma trattati in maniera superficiale e oltremodo offensiva, senza dare una pur minima spiegazione sulle patologie afferenti il problema, né sulla normativa esistente, per creare nell’opinione generale l’idea che molti ciechi e gli ipovedenti siano dei “furbi” e dei “falsi ciechi”. E con loro i medici che hanno diagnosticato la malattia, aggiungendo un ulteriore stigma alle persone con disabilità visiva.
Così, però, vanno in fumo anni di lavoro, di sacrifici, e di battaglie! E anche di successi, se è vero che oggi esistono ad esempio i Centri di Ipovisione e di Riabilitazione Visiva, Associazioni di istruttori per disabili visivi, dove si insegna alle persone a sfruttare ogni possibilità del proprio residuo visivo, a usare il bastone bianco, a utilizzare gli altri sensi, cosiddetti “vicari”, affinché quelle stesse persone possano acquisire una pur minima autonomia, che è quello a cui aspirano.
Ed è un cammino non facile, che comporta anche un impegno economico per gli ausili e gli strumenti, e che soprattutto richiede costanza, pazienza e volontà, anche se a volte si incontrano ostacoli difficili da superare, con la consapevolezza che comunque la progressione della malattia non viene meno e l’esito finale sarà quello diagnosticato. Prima però di arrivare a questa consapevolezza, c’è stato un percorso che ha superato tutte le fasi di quello che viene definito come “elaborazione del lutto”.
Non voglio qui fare un trattato di psicologia, ma credo valga la pena dare un breve accenno al percorso che compie una persona, dopo la diagnosi di una patologia rara, degenerativa, progressiva della vista: choc – negazione – patteggiamento – rabbia – depressione – accettazione – Rassegnazione. E comunque resti in attesa di una notizia dalla ricerca scientifica, che ti possa fare sperare almeno in un rallentamento della malattia. Aspettativa troppo spesso delusa anche qui da notizie con titoli eclatanti, che poi si rivelano solo tentativi ancora in fase di sperimentazione. E solo dopo avere superato tutte quelle fasi, quando reputi che non puoi più aspettare, pensi a chiedere la pensione di invalidità e l’indennità di accompagnamento.
Quindi, tornando al tema dei “falsi ciechi”, che falsi non sono, come Associazione dei pazienti abbiamo capito che dobbiamo lavorare in un altro modo, dobbiamo cercare di fare informazione corretta sulla disabilità visiva, sull’ipovisione, fare “cultura” sulla disabilità ai fini di una vera inclusione sociale delle persone, far sì che venga eliminato quello stigma per cui la persona con disabilità è comunque inferiore e quindi non può o non deve avere le stesse possibilità di tutti.
La Società, le Istituzioni devono capire e imparare che non si è “falsi ciechi” se si reagisce alla malattia con mille difficoltà per avere una pur minima autonomia, Perché quell’autonomia significa dignità, perché essere un cittadino attivo vuol dire avere la possibilità di fare le proprie scelte, di partecipare alla vita sociale. In una parola, significa libertà.
Perché, citando lo scrittore Giuseppe Pontiggia, le persone con disabilità «lottano non per diventare normali ma se stesse».