Le microaree di Trieste come modello di assistenza socio sanitaria territoriale. di Camilla Benedetti, Martina Belluto, Nicola Pecora 

L’esperienza triestina si è conclusa con la consapevolezza che un cambiamento reale è possibile attraverso una profonda trasformazione culturale dei professionisti. Ad oggi, la formazione pre-post laurea non offre la possibilità di sviluppare le competenze necessarie a questo radicale cambio di paradigma. Per queste ragioni i prossimi step della campagna 2018 PHC Now or Never verteranno su attività di formazione, auto-formazione e divulgazione: l’impegno, aperto a tutti coloro che desiderano aderire, è quello di acquisire le competenze per lavorare con un nuovo approccio, cogliendo la necessità di affrontare una sfida che riteniamo debba essere interesse di tutti.


Come futuri professionisti delle Cure Primarie e promotori della Campagna 2018 Primary Health Care Now or Never abbiamo deciso di approfondire il modello delle Microaree di Trieste come momento di ricerca e di autoformazione. Dopo una site-visit alla Microarea di Ponziana, il 14-15 giugno abbiamo partecipato al convegno La Comunità che fa salute. Le Microaree di Trieste per l’equità, promosso da ASUITs (Azienda Sanitaria Universitaria Integrata di Trieste) in collaborazione con il Comune di Trieste, ATER (Agenzia per l’Edilizia Territoriale) e il Comune di Muggia[1]. La visita si è conclusa con due giorni di workshop presso l’Ordine dei Medici di Trieste rivolto ai partecipanti alla campagna.

A Ponziana, la mattina del nostro arrivo, si respira un clima familiare e si percepisce un gran fermento: uomini e donne di diverse età alternano giochi da tavolo ad animate discussioni, mentre viene imbandita una grande tavola che ci ospiterà per il pranzo. Monica Ghiretti, sociologa e referente della Microarea di Ponziana, e Carlo Federico Rotelli, medico del Distretto, ci accolgono calorosamente e dopo una breve visita della struttura ci raccontano cos’è una Microarea e le diverse fasi della sua realizzazione.

Il progetto delle Microaree di Trieste nasce nel 2005 per sviluppare un approccio proattivo ai problemi della comunità e coinvolge piccole aree del territorio dove ASUITs, Comune e ATER collaborano allo sviluppo di comunità che generano Salute. Nate dalla volontà di Franco Rotelli, ex Direttore Generale dell’Azienda per i Servizi Sanitari di Trieste, le Microaree hanno come obiettivo quello di sviluppare una medicina radicata nei luoghi, nelle case, negli habitat sociali della città”[2], con particolare attenzione alle zone con un’alta prevalenza di edilizia pubblica e famiglie a basso reddito. Ogni Microarea ha un’estensione geografica propria, che varia a seconda del contesto socio-territoriale, e presenta una sede centrale, punto di riferimento del quartiere, a cui fa capo un referente (non necessariamente sanitario).

L’esperienza delle Microaree di Trieste, che interessa ad oggi 16 piccole frazioni di dimensione compresa tra i 500 e i 2500 abitanti, si basa sulla creazione di una rete di operatori sanitari presenti in modo continuo nei caseggiati popolari con maggiori problemi di reddito e integrazione sociale. L’intervento è volto a garantire aiuti diretti in ambito sanitario, a sviluppare relazioni di aiuto tra i cittadini e una sinergia tra i servizi[3].

Come ci racconta Monica, organizzare una Microarea non è stato un compito facile: realizzare una mappatura di risorse e bisogni vuol dire andare casa per casa, taccuino in mano, a parlare con gli abitanti, conquistare la loro fiducia e identificare le reali necessità delle persone. Significa mettere in campo una medicina del reale che dipenda dalla capacità di osservare i bisogni sociali, culturali e sanitari della popolazione, rilevando i determinanti di salute [4].

Il referente d’area diventa una persona prossima che accoglie i problemi, media con le istituzioni e indirizza al corretto uso dei servizi. Quando poi questi ultimi mancano o risultano inaccessibili, ci si affida alle risorse presenti sul territorio (associazioni di cittadini, gruppi di auto mutuo-aiuto, gruppi di quartiere) ricreando una rete di supporto locale. Monica e Federico collaborano proprio in questi termini: il portierato sociale di Ponziana, dove ha sede la Microarea, diventa un punto di ritrovo per spazzare via la solitudine e l’isolamento. Si gioca a carte, si cucina insieme, e si alleggeriscono le giornate. In questo modo si crea salute. Sviluppare “capitale sociale” e incentivare il corretto uso dei servizi diventa la ricetta contro l’emarginazione, riducendo il rischio di esposizione a determinanti di malattia. Le Microaree mostrano un senso della cura che si basa sul contesto: il principio è quello di sviluppare un approccio proattivo ai problemi della comunità, che metta la persona e il suo ambiente di vita al centro, in modo continuativo.

Nei due giorni seguenti si è tenuto il convegno La Comunità che fa salute. Le Microaree di Trieste per l’equità, a cui partecipano diverse figure che hanno contribuito alla crescita e alla conformazione attuale delle Microaree. Si ripercorre il contesto culturale in cui si inserisce il progetto, la Dichiarazione di Alma Ata[5] e la Carta di Ottawa[6] come fondanti un nuovo modello di Cure Primarie.

Il fine dell’incontro è quello di analizzare, a distanza di dieci anni, l’impatto delle Microaree sulla qualità di vita della popolazione coinvolta e il miglioramento delle condizioni di salute degli abitanti. Dopo un lungo periodo sul campo è stato necessario leggere i risultati ottenuti anche in chiave scientifica: l’attività di monitoraggio e analisi di dati sono state pertanto affidate alle Università di Udine e Torino.

Giuseppe Costa, professore ordinario di Igiene all’Università di Torino, ha esposto gli esiti di una ricerca svolta con Roberto di Monaco e Silvia Pilutti riguardo l’impatto delle Microaree sulla riduzione delle disuguaglianze in salute. Diversi studi rilevano come tali disuguaglianze siano il risultato di una stratificazione sociale – l’influenza che i determinanti distali e prossimali di salute hanno sulla vita di un individuo (reddito, genere, etnia, legami familiari, stili di vita insalubri, fattori di rischio psicosociali), quanto, allo stesso tempo, frutto del contesto socio-culturale in cui si vive (il quartiere, la scuola, il posto di lavoro)[7]. Nel caso triestino, le Microaree sono diventate “contesti capacitanti”: il lavoro d’équipe multiprofessionale (laddove possibile) e la mediazione con le istituzioni hanno migliorato le condizioni di vita degli abitanti, aumentando l’empowerment dei soggetti coinvolti.

Fabio Barbone e Luigi Castriotta, docenti dell’Università di Udine, hanno invece condotto uno studio retrospettivo, concentrandosi sugli elementi quantificabili necessari a valutare l’efficacia delle Microaree dall’avvio del progetto ad oggi: il numero degli accessi al pronto soccorso, i ricoveri ospedalieri, l’utilizzo di procedure diagnostiche, il ricorso ad esami di laboratorio, la prescrizione di farmaci e l’incidenza di alcune patologie. Sebbene valutare la salute della popolazione in base a parametri esclusivamente quantitativi possa riportare dati solo in parte esaustivi, lo studio mostra risultati incoraggianti: si riscontra una notevole riduzione di ricoveri e accessi in pronto soccorso, soprattutto per quanto riguarda le patologie psichiatriche, respiratorie e cardiovascolari[8].

Il secondo giorno si apre con la lectio magistralis “Social justice, health equity, and community action” del professor Michael Marmot (Institute of Health Equity UCL). Riprendendo il suo libro La Salute Disuguale [9], Marmot spiega quanto povertà e salute risultino strettamente connesse: il calo dell’aspettativa di vita registrato dal 2011 al 2015 nei paesi europei coincide con le misure di austerità adottate dalle diverse politiche nazionali durante la crisi finanziaria. Come già indicato in Fair society Healthy Life (2010), Marmot si concentra sulle strategie più efficaci ed evidence-based per ridurre le diseguaglianze in salute, cambiamento che può avvenire solo attraverso un’azione locale, sociale e politica.

Nel corso della mattinata vengono raccontate altre esperienze nazionali ed internazionali: il piano di Prevención y Promoción de la Salud di Madrid (presentato da Mercedes Martínez Cortés), il programma Well Communities di Londra (Gail Findlay) e il progetto europeo COmmunity Nurse Supporting Elderly in a Changing Society (CO.N.S.E.N.SO, esposto da Giuseppe Salamina).

Il convegno si chiude infine con la presentazione di La città che cura. Microaree e periferie della salutedi Giovanna Gallio e Maria Grazia Cogliati Dezza[2], volume ricco di testimonianze raccolte in prima persona dagli operatori attivi nelle Microaree attraverso la voce di chi ha costruito i progetti e li vive quotidianamente.

I due giorni successivi al convegno sono stati utili per riassumere quanto appreso dall’esperienza triestina. La riflessione sulle Microaree dei partecipanti della campagna 2018 PHC Now or Never,condotta attraverso workshop e gruppi tematici, ha evidenziato come il caso di Trieste rappresenti uno dei modelli positivi presenti in Italia e quello che probabilmente più si avvicina alla Primary Health Care di tipo Comprehensive: collaborazione tra diverse figure professionali (infermieri, assistenti sociali, medici del distretto e medici di medicina generale, personale ATER, cooperative sociali), coinvolgimento attivo degli abitanti, promozione di un’azione globale continuativa e risolutiva, applicazione di una medicina proattiva e di prossimità. L’analisi delle criticità riporta però una carenza nel lavoro strutturato in equipe e confronto multidisciplinare integrato delegati spesso alla libera iniziativa dei singoli. Anche il medico di famiglia, che dovrebbe essere uno dei referenti principali delle Microaree, si trova solo indirettamente coinvolto nell’organizzazione degli interventi. Una maggior collaborazione fra i diversi professionisti permetterebbe non solo una migliore gestione dei casi complessi, ma anche una medicina d’iniziativa per la popolazione sana o che non accede direttamente al servizio[10].

Workshop formativi e gruppi tematici

Siamo ormai prossimi al dover fronteggiare un’emergenza socio-sanitaria a livello globale. L’invecchiamento della popolazione, l’aumento delle patologie croniche, e delle disuguaglianze sociali ed economiche, uniti ad un sistema ospedalo-centrico con servizi sociali frammentati, hanno generato una complessiva insostenibilità dei sistemi sanitari nazionali. Risulta quindi essenziale un cambiamento culturale per rispondere alle criticità emergenti e superare i limiti formativi, professionali e settoriali delle figure coinvolte nel sistema salute [11].

L’esperienza triestina si è conclusa con la consapevolezza che un cambiamento reale è possibileattraverso una profonda trasformazione culturale dei professionisti. Ad oggi, la formazione pre-post laurea non offre la possibilità di sviluppare le competenze necessarie a questo radicale cambio di paradigma. Per queste ragioni i prossimi step della campagna 2018 PHC Now or Never verteranno su attività di formazione, auto-formazione e divulgazione: l’impegno, aperto a tutti coloro che desiderano aderire, è quello di acquisire le competenze per lavorare con un nuovo approccio, cogliendo la necessità di affrontare una sfida che riteniamo debba essere interesse di tutti.

Per restare aggiornati sulle attività della campagna 2018 PHC Now or Never e aderire: 2018phc.wordpress.com e 2018phc@gmail.com, oppure su Facebook: 2018phc

Professionally, the most satisfying and exciting things have been the events that have not happened: no strokes, no coronary heart attacks, no complications or diabetes, no kidney failure with dialysis or transplant. This is the real stuff of primary medical care.

Julian Tudor Hart


Camilla Benedetti, Medico in Corso di Formazione Specifica in Medicina Generale, Regione Emilia-Romagna

Martina Belluto, antropologa, dottoranda in Scienze Umane all’Universitá di Ferrara

Nicola Pecora, Medico, Diploma di Formazione Specifica in Medicina Generale, Firenze

Bibliografia

  1. Gilardi L. I materiali e le interviste ai protagonisti. La comunità che fa salute. Le microaree di Trieste per l’equità. 2018.
  2. Gallio G, Cogliati Dezza MG. La città che cura Microaree e periferie della salute. Alpha & Beta. 2018. 314 p.
  3. Mirisola C, Ricciardi G, Bevere F, Melazzini M. L’Italia per l’equità nella salute . 2017.
  4. Whitehead M, Dahlgren G. Concepts and principles for tackling social inequities in health: Levelling up Part 1. 2006; www.euro.who.int
  5. International Conference on Primary Health Care. Dichiarazione di Alma-Ata. 1978.
  6. WHO. The Ottawa Charter for Health Promotion. World Health Organization; 1986;
  7. Rasulo D, Spadea T, Onorati R, Costa G. Conta di più da chi nasci o dove arrivi? Determinanti di salute nel corso di vita. 40 anni di salute a Torino Spunti per leggere i bisogni e i risultati delle politiche. Inferenze ; 2017. pag. 252–5.
  8. ASUITs – Ufficio Stampa SS/PC. La comunità che fa salute le microaree di Trieste per l’equità. 15 giugno 2018.
  9. Marmot M. La Salute diseguale La sfida di un mondo ingiusto. Il Pensiero Scientifico Editore; 2016.
  10. Maciocco G. Assistere le persone con condizioni croniche. Saluteinternazionale.info 23.06.2011
  11. Ferla AA, Stefanini A, Martino A. Salute Globale in una prospettiva comparata tra Brasile e Italia. Rede Unida, CSI-Unibo. Porto Alegre, Bologna: Salute Collettiva e Cooperazione Internazionale; 2016.

Fonte: Saluteinternazionale.info

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