Il nostro Paese si colloca perfettamente all’interno di questo orientamento. Basti al riguardo pensare a quell’insieme di provvedimenti che va sotto il nome di Jobs Act e alla grande differenza tra questo e il Jobs Act americano, emesso qualche anno prima e dal quale il nostro prende il nome. Quest’ultimo si fondava anche e soprattutto su massicci investimenti pubblici, dal finanziamento di opere infrastrutturali a quello del sistema scolastico, tematiche che sono assolutamente ignorate nella legge italiana, che punta tutto sulla flessibilità.
Nel provvedimento americano si trovano voci quali “investimenti urgenti, per strade, ferrovie e aeroporti” o misure destinate a “evitare licenziamenti di insegnanti, modernizzando oltre 55 mila scuole pubbliche”. Al contrario il Jobs Act italiano riguarda il diritto del lavoro e intende incidere sulle relazioni sindacali: tematiche che nella legge americana non sono proprio trattate. Naturalmente, non si può attribuire al Jabs Act la causa della grave situazione occupazionale italiana, soprattutto nel Mezzogiorno, così come non esiste una base documentaria che permetta di vantare miracolosi risultati sul piano dell’occupazione, sul piano qualitativo o sullo stesso piano quantitativo.
Cominciamo dal primo aspetto, che presenta le implicazioni sociali più serie per la condizione dei giovani e per la crescita, assolutamente squilibrata tra occupazione precaria (in particolare a tempo determinato) e occupazione a tempo indeterminato. La crescita occupazionale registrata è infatti basata su rapporti di lavoro del primo tipo. D’altronde, rapporti di lavoro del secondo tipo – così come li abbiamo conosciuti non solo a partire dallo Statuto dei lavoratori, ma a partire dal Codice civile del 1942 – non sono più contemplati nel nostro Paese da quando è in vigore il Jobs Act.
Ciò perché il licenziamento senza giusta causa non prevede, se non in casi estremamente eccezionali, la reintegra sul posto di lavoro, ma solo un indennizzo proporzionato al periodo di lavoro trascorso in azienda: misera compensazione per una tragedia esistenziale quale la perdita del posto di lavoro, soprattutto per un ultracinquantenne, che dimostra la totale insensibilità per le implicazioni umane e sociali degli interventi nelle attuali linee di politiche del lavoro prevalenti in Europa, non solo in quelle italiane. Il che, per quel che riguarda i giovani, si riflette in un diffuso disagio legato alla loro persistente esclusione.
Il mercato del lavoro italiano ed europeo è stato negli ultimi decenni largamente destrutturato, con una generalizzata riduzione dei diritti effettivamente fruibili dei lavoratori, senza vantaggi per alcuna categoria. In passato, dominava la tesi basata sulla contraddizione tra insiders (lavoratori centrali e protetti) e outsiders (gli altri: giovani, precari e quant’altro). E secondo questa tesi, il costo delle protezioni e dei vantaggi dei primi sarebbe stato all’origine delle scarse opportunità e protezioni dei secondi (nonché di un disincentivo agli investimenti e alIa crescita). Ora che i lavoratori centrali, i core workers (come si dice in gergo) sono in situazioni di difficoltà, la tesi ha perso credibilità. Non a caso si parla di midsiders (garantiti a metà).
La flessibilità è stata richiesta o imposta negli ultimi decenni, e con imposizione più decisa negli ultimi anni, alle organizzazioni dei lavoratori in cambio di occupazione e sviluppo, o meglio della promessa di occupazione e sviluppo. Ma il quadro che abbiamo davanti ora in Paesi come l’Italia si caratterizza con una crescita economica più modesta di quella media europea (sui cui dati pesa peraltro il ruolo dei Paesi dell’Europa mediterranea), accompagnata da una parimenti modesta crescita occupazionale. Non solo. Va anche ricordato che in Italia all’elevato numero di nuovi occupati non corrisponde affatto un’analoga crescita delle ore lavorate. E questo fatto, dato che il lavoro è, o almeno dovrebbe essere, retribuito su base oraria, spiega anche la persistente ineguale distribuzione del reddito dovuta alla scarsa crescita dei salari.
Comunque, per quel che riguarda l‘occupazione, non si può negare un incremento, sia pure con tutti i limiti indicati. E certamente un buon segno è la ripresa occupazionale nel Mezzogiorno degli ultimissimi anni, durante i quali l’occupazione, dopo aver toccato il fondo, è aumentata in misura più che proporzionale rispetto al resto del Paese.
Ma continuano a essere preoccupanti i dati relativi ai tassi di disoccupazione e alla scarsa partecipazione al mercato del lavoro in quelle regioni, ma anche gli altri indicatori del mercato del lavoro ben analizzati. Insomma, dopo tanti interventi di politiche del mercato del lavoro – e di assenza di politica economica e di investimenti –, la situazione del Mezzogiorno presenta, aggravati, gli stessi problemi di sempre.
Due sono infatti le aree di maggior svantaggio: quella territoriale (il Mezzogiorno) e quella demografica (i giovani) e dunque particolarmente svantaggiati restano i giovani del Mezzogiorno. Nel Sud lo svantaggio giovanile è aumentato proprio negli ultimi anni, durante i quali le politiche del lavoro sono state sempre accompagnate dalla perentoria affermazione che esse erano orientate a vantaggio dei giovani. E al riguardo è opportuno ricordare che l’incremento occupazionale realizzatosi negli ultimi anni nel Paese – collegato o meno al Jobs Act – si è concentrato per l’80% sugli ultracinquantenni.
Probabilmente buone intenzioni non sono mancate alla base delle iniziative che volta per volta sono state prese: penso al programma europeo “Garanzia Giovani”. Ma quel che conta sono i risultati ed essi – soprattutto per il Mezzogiorno – sono stati magrissimi. In realtà, dove il mercato del lavoro era più dinamico al periodo di formazione ha fatto seguito una qualche opportunità occupazionale, dove la disoccupazione era più grave, e dove c’era maggior necessità di intervento, queste opportunità non si sono registrate.
La lezione generale che si può trarre da questo, come da molteplici altri casi, è che gli interventi volti a sviluppare l’occupazione non possono limitarsi al mercato del lavoro e all’azione sull’offerta, cioè sulle sue caratteristiche e i suoi comportamenti. In effetti, nel Paese continuano a mancare scelte di politica economica capaci di attivare la domanda di lavoro in settori strategici, ma anche in attività a carattere maggiormente labour intensive, capaci di assorbire un’ancora insoddisfatta offerta di lavoro.
La stessa problematica del mismatch è sicuramente di rilievo ovunquenel nostro Paese, ma nel Mezzogiorno presenta un’aggravante consistente nel fatto che le possibilità di occupazione per i giovani titolari di qualifiche e credenziali elevate esistono altrove. E questo spiega l’accelerata tendenza all’emigrazione all’estero e soprattutto all’interno dei giovani meridionali. Essi sono spesso destinati a cattiva occupazione anche nelle aree di immigrazione, ma fuggono da una situazione peggiore a casa loro.
Si parIa al riguardo anche di overeducation o di overskill, come segnali delle discrasie tra domanda e offerta di lavoro, ma anche queste – e a maggior ragione – difficilmente possono essere affrontate operando sull’offerta. Quanto poi ai termini che usiamo, forse è il caso di rendersi conto della loro inadeguatezza. Con un’incidenza dei laureati sul totale dell’offerta di lavoro che non ci colloca affatto bene nelle graduatorie europee, ritenere che il livello di scolarizzazione sia troppo elevato – perché questo significa overeducation – appare davvero fuori luogo. E lo stesso vale per quel che riguarda il discorso sui Neet (“Not in employment, education or training”): giovani che si trovano fuori dal lavoro, dalla scuola e da strutture di formazione professionale. Questa etichetta viene loro attribuita quasi che fossero essi stessi responsabili della situazione in cui versano. Ciò senza considerare il fatto che alcuni di loro sono fuori dalla scuola (perciò “not in education”) per avere terminato, magari anche con successo, il loro ciclo scolastico.
Le politiche del lavoro sono uno degli ambiti nei quali si manifesta anche l’efficacia di un sistema di welfare nazionale. Nelle quattro aree canoniche nelle quali si esprime un moderno sistema di welfare – casa, lavoro, scuola e sanità – quella del lavoro è importante e complessa. Essa riguarda non solo il sostegno delle forze di lavoro che non possono essere occupate per difficoltà oggettive o soggettive (sussidi di disoccupazione, pensioni di vario genere), ma anche la forza lavoro effettivamente disponibile, valorizzandola e valorizzandone l’impiego.
A questo contribuiscono le misure riguardanti le politiche del lavoro, compresi i servizi per l’impiego nella misura in cui concorrono a dare sbocco adeguato ai titolari di capacità lavorativa, impedendo che queste si disperdano. Ma proprio per questo il welfare dal punto di vista del lavoro può essere considerato anche un’importante area occupazionale, non perché vi si possa collocare – magari clientelarmente – un’offerta di lavoro non collocabile altrove, ma perché serve alla valorizzazione della forza lavoro, cui la scuola, la formazione, la stessa protezione della salute concorrono in maniera determinante. E ciò è foriero di sviluppo. In questo modo va letta la frase – che altrimenti può apparire un vuoto slogan – “il welfare crea lavoro”.
Enrico Pugliese insegna Sociologia del lavoro presso l’Università di Roma La Sapienza
L’articolo è un’ampia sintesi, curata da Rassegna Sindacale, della prefazione di Enrico Pugliese al libro Il welfare del lavoro. Il ruolo dei servizi per l’impiego di L. Rossotti, P. Rella, A. Fasano e P. Di Nicola (Franco Angeli, pp. 157, euro 19)
Fonte: Rassegna