Diminuiscono i reati comuni, ma aumentano quelli contro le donne: lo dicono i dati diffusi nei giorni scorsi dal Ministero degli Interni. «Eppure – scrive Simona Lancioni – i servizi antiviolenza sono ancora largamente inaccessibili alle donne con disabilità, pur essendo queste esposte a violenza in misura maggiore delle altre donne. “I servizi antiviolenza – si dice – sono rivolti a tutte le donne, e le donne con disabilità, non essendo escluse, possono fruirne”. Ma si tratta di una spiegazione accettabile?»
Un’affermazione, questa, confermata dai pochi dati ISTAT disponibili, secondo i quali le donne con disabilità corrono un rischio doppio, rispetto alle altre donne, di subire stupri o tentati stupri (10% contro il 4,7% delle donne senza problemi). Una considerazione, inoltre, alla quale si potrebbe aggiungere che le donne con disabilità sono esposte anche a forme di violenza peculiari– come, ad esempio, la sterilizzazione forzata [se ne legga su queste stesse pagine, N.d.R.] – che solitamente non colpiscono le altre donne.
Ciò nonostante, esaminando i vari snodi dei servizi antiviolenza, è difficile trovare cenni di attenzione alla particolare condizione delle donne con disabilità vittime di violenza, con l’unica eccezione delle Linee guida nazionali per le Aziende sanitarie e le Aziende ospedaliere in tema di soccorso e assistenza socio-sanitaria alle donne vittime di violenza (le quali, sia pure con qualche lacuna, prevedono interventi specifici).
I servizi di primo soccorso – la cui effettiva accessibilità andrebbe comunque verificata – sono fondamentali, ma costituiscono solo uno snodo della rete antiviolenza. È pertanto necessario considerare che molte donne vittime di violenza non accedono alla rete antiviolenza attraverso essi, e che anche la donna con disabilità che dovesse ricevere un primo soccorso sanitario adeguato, qualora la situazione sconsigliasse la sua permanenza nel proprio domicilio (come talvolta accade), potrebbe avere serie difficoltà a trovare ospitalità nelle case rifugio per mancanza di accessibilità e di servizi di supporto specifici (quali, ad esempio, servizi di assistenza personale, servizi di interpretariato per donne sorde ecc.), o per ignoranza: abbiamo notizia, ad esempio, di diversi casi di donne cieche alle quali è stata rifiutata ospitalità nelle case rifugio perché accompagnate dal cane guida.Il numero di pubblica utilità 1522, attivato dal Dipartimento per le Pari Opportunità nel 2006, costituisce il principale canale di accesso ai servizi antiviolenza. Esso fornisce una prima risposta ai bisogni delle vittime di violenza di genere e stalking, offrendo informazioni utili e un orientamento verso i servizi sociosanitari pubblici e privati presenti sul territorio nazionale. Il numero è attivo tutti i giorni dell’anno, 24 ore su 24, è gratuito, è accessibile dall’intero territorio nazionale, sia da rete fissa che mobile, ed è utilizzabile anche attraverso chat. La pagina dedicata all’illustrazione del servizio specifica che esso è disponibile in lingue diverse (italiano, inglese, francese, spagnolo e arabo), ma nulla dice su eventuali competenze delle operatrici nell’uso di un linguaggio semplificato, quello comunemente utilizzato per comunicare con persone con disabilità intellettive.
Delle tante campagne di sensibilizzazione al fenomeno della violenza di genere prodotte non ne abbiamo trovato una che trattasse anche di disabilità. Forse ci è sfuggita (ce lo auguriamo) o, più semplicemente, non c’è.
Come si è potuta creare una situazione del genere?I servizi antiviolenza sono rivolti a tutte le donne, e le donne con disabilità, non essendo escluse, possono fruirne: è questa, in estrema sintesi, la spiegazione comunemente addotta da chi gestisce i servizi per spiegare l’attuale assetto organizzativo. Ma è una spiegazione accettabile?
Se il riconoscimento formale di un diritto lo rendesse concretamente esigibile da chiunque, dopo la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani – approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1948 – non avremmo avuto bisogno di ulteriori atti volti a contrastare specifiche violazioni di tali diritti. Non avremmo avuto la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna (CEDAW, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1979, e ratificata dall’Italia con la Legge 132/85), né la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità (approvata, com’è noto, dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2006, e ratificata dal nostro Paese con la Legge 18/09), e neppure ci sarebbe stata la Convenzione di Istanbul(Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica del 2011, ratificata dall’Italia con la Legge 77/13).
In particolare la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità riconosce che le donne con disabilità sono soggette a discriminazione multipla, in quanto donne e in quanto disabili (articolo 6), e impegna gli Stati Parti «a contrastare ogni forma di sfruttamento, violenza e maltrattamenti nei confronti delle persone con disabilità tenendo conto dell’età, del genere e del tipo di disabilità» (articolo 16). Essa è inoltre esplicitamente richiamata nel Preambolo della Convenzione di Istanbul. L’articolo 4 di quest’ultima chiarisce infatti che l’attuazione delle disposizioni indicate, e «in particolare le misure destinate a tutelare i diritti delle vittime, deve essere garantita senza alcuna discriminazione»; segue un lungo elenco di possibili cause di discriminazione espressamente vietate, tra le quali figura anche la disabilità.
La stessa Convenzione di Istanbul prescrive in più punti il soddisfacimento dei bisogni specifici delle persone vulnerabili (articoli 12, 18 e 46), e l’accessibilità delle misure antiviolenza adottate (articoli 18, 23 e 25).
La convinzione che bastasse attivare dei servizi perché questi fossero automaticamente fruibili da chiunque è stata l’alibi che ha permesso che la discriminazione nei confronti delle donne con disabilità nell’accesso ai servizi antiviolenza si protraesse sino ad oggi. Questo non è più accettabile, soprattutto alla luce dei richiami espressi dal Comitato ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità nelle Osservazioni Conclusive al primo rapporto dell’Italia sull’attuazione dei princìpi e delle disposizioni contenute nella suddetta Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità.
Le inadempienze sulle tematiche del “genere e disabilità” rilevate da Comitato nel nostro Paese sono molteplici, e sono sia di carattere generale (la mancanza di una sistematica integrazione delle donne e delle ragazze con disabilità nelle iniziative per la parità di genere, così come in quelle riguardanti la condizione di disabilità, contenuta nei punti 13 e 14), sia su specifici aspetti, tra i quali, appunto, il contrasto alla violenza. A quest’ultimo proposito il Comitato ha espresso la raccomandazione «di porre in atto una normativa, compresi gli strumenti di monitoraggio, per individuare, prevenire e combattere la violenza contro le persone con disabilità sia all’interno, sia all’esterno dell’ambiente domestico, in particolar modo quella contro le donne e i minori con disabilità, nonché di produrre un piano di azione per l’attuazione della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza sulle donne e la violenza domestica – Convenzione di Istanbul – che riguarda specificamente le donne e le ragazze con disabilità. Inoltre, devono essere resi disponibili la formazione del personale della polizia, della magistratura, dei servizi sanitari e sociali, in connessione con la messa a disposizione di servizi di sostegno accessibili ed inclusivi per coloro che subiscono violenza, compresi i rapporti della polizia, gli strumenti di reclamo, le case protette e ogni altra misura di supporto» (punto 44, nel documento originale il testo è interamente in grassetto).
I richiami del Comitato ONU risalgono al mese di agosto del 2016 e sono rimasti pressoché disattesi. Sono invece di pochi giorni fa i dati del Viminale che registrano un calo, anche significativo, dei reati comuni, ma un’impennata preoccupante di quellicontro le donne, dallo stalking al femminicidio (fonte: Marco Boscolo ed Elisabetta Tola, Il vero allarme sicurezza in Italia sono le violenze sulle donne. Lo dicono i dati del Viminale, in «AGI Datajournalism», 25 agosto 2018). Cosa stiamo aspettando?
Anche a fronte di questi dati, è necessario iniziare subito a lavorare affinché tutti gli snodi dei servizi antiviolenza siano resi accessibili a donne con diverse disabilità (fisiche, sensoriali, intellettive e psichiatriche, multiple), e gli accorgimenti adottati siano espliciti e adeguatamente pubblicizzati. Questo non solo perché essi possano essere facilmente conosciuti e individuati dalle donne con disabilità interessate, ma anche per fare in modo che chi opera in questo settore diventi consapevole che l’accessibilità non è un dato di fatto, ma una caratteristica che va progettata e realizzata.
Non è infine superfluo sottolineare che tutti questi interventi vanno definiti in collaborazione con le stesse donne con disabilità, giacché nessuno/a meglio di loro conosce le esigenze delle donne con disabilità.
Per approfondire sul tema qui trattato, oltreché fare riferimento al lungo elenco di testi da noi pubblicati, presente a questo link, nella colonnina a destra dell’articolo intitolato Voci di donne ancora sovrastate, se non zittite, si può accedere al sito di Informare un’h, alle Sezioni dedicate rispettivamente ai temi: La violenza nei confronti delle donne con disabilità e Donne con disabilità.
Fonte: Superando