The good doctor l’hanno guardata persino i giovani, che le serie le guardano altrove. Il medical drama che ha come protagonista un giovane medico con un disturbo dello spettro autistico ha catturato l’attenzione di un pubblico vastissimo. Molti giornalisti e non si sono impegnati a tirarne fuori le ragioni. Sarei portato a farlo anch’io, che il mio mestiere è curarmi di disabilità, ma mi trattengo e butto giù qualche considerazione di testa mia. Magari a qualcuno interessa il mio punto di vista alternativo.
Belli i pezzi per questo giornale di Renato Franco (cliccare qui sopra per leggere cosa ha scritto) e Aldo Grasso (cliccare qui per il suo pezzo) che offrono una fornita analisi tecnica della serie e del suo pubblico. Il prodotto, in cui questo geniale dottorino si presenta dotato di abilità straordinarie nel suo campo ma placidamente carente nella finezza delle relazioni, ricorda un po’ Dr. House, col suo misto di acume, fascino estetico e ruvidezza nei rapporti interpersonali. E infatti entrambi hanno fra i padri un medesimo ideatore, ci ricorda il summenzionato Franco nel suo pezzo. Hanno anche un’altra cosa in comune: sono entrambi persone disabili. Se la disabilità di questo giovane senza troppi freni inibitori è lampante, quella del suo acre predecessore è più sottile ed è racchiusa nel suo inseparabile bastone. Il Dr. House è una persona disabile. Quando si dice che la personalità adombra le imperfezioni.
Ma The good doctor ricorda anche Rain man, la strepitosa pellicola del 1989 che forse per la prima volta mise il grande pubblico di fronte all’autismo. Punti di contatto? Oltre alla presenza di un protagonista con disabilità e all’interpretazione di un attore figo e di fama (perché se la stella di Dustin Hoffman all’epoca già brillava magnifica nel firmamento hollywoodiano quella di Freddie Highmore già spicca nel medesimo firmamento) in entrambi i casi ci troviamo di fronte all’inatteso genio contrapposto alla difficoltà di stare fra gli altri.
Guai a pensare che l’autismo sia questo, però. Guai ad assorbire l’idea che viste queste puntate poi si conosca tutto sull’autismo. Il disturbo dello spettro autistico qui rappresentato, che riprende una precedente produzione sudcoreana, fornisce informazioni su una delle tante varietà di autismo e se si crede che questo sia il tutto si sbaglia. Come si sbagliava di fronte a Dustin Hoffman a pensare che tutte le persone autistiche fossero geni dei numeri.
The good doctor punta i riflettori su una disabilità di cui oggi si parla sempre più spesso ma il cui approfondimento non si può affidare a una serie televisiva. L’effetto E.R. – medici in prima linea e compagnia bella, con il risultato che siamo tutti pronti a fare una tracheotomia con una biro, è a pochi centimetri dal baratro. Il baratro dell’ignoranza che si traveste da onniscienza. Ottima la serie, bene che si parli di autismo, ma occhio a non cadere nella convinzione di sapere tutto sulla questione.
Non oso credere che una disposizione di una persona autistica verso quello che la circonda possa essere rettificata da due parole o poco più dette al momento giusto. Il sarcasmo, di cui il protagonista non comprende il senso né l’uso nella prima tornata di episodi trasmessi, nella vita reale non si acquisisce per magia nel breve volgere di qualche dritta assestata al momento opportuno.
Ma questo è il cliché della televisione. È lo stile delle storie narrate che devono avere un protagonista allettante. Se si persevera con il realismo si può danneggiare il confezionamento dell’opera, che richiede la sua rapidità espositiva. In un romanzo sarebbe stato diverso. In un film drammatico probabilmente pure. Ma questo è un prodotto destinato al pubblico popolare. Racconto si, approfondimento sino a un certo punto, altrimenti la struttura si appesantisce e potrebbe venire giù.
Ma va bene così. La storia in questo modo gira. Si può tacere persino del buonismo con cui l’abilità degli sceneggiatori ci conduce ad affrontare certe situazioni, come quando il dottorino animoso sveglia il padrone di casa nel cuore della notte per fargli presente che il rubinetto perde acqua.
Il protagonista con disabilità erige la disabilità a elemento portante della narrazione senza impegnare le meningi di chi guarda. Peraltro è ottima l’intuizione di non concentrare la narrazione su di lui, tanto che in certi momenti la storia si fissa su altri protagonisti creando una coralità che alleggerisce la sua responsabilità. Ci sta. La disabilità si vede. È esposta con cognizione e non c’è bisogno che sia io a dirlo. Il monito: la vita è un po’ diversa.