«Le toppe, o i rattoppi, servono a poco. Chiediamo al governo un piano complessivo sulla giustizia, una visione lungimirante, non micro-interventi settoriali». Francesco Minisci è presidente dell’Associazione nazionale magistrati, alla quale aderiscono 8.500 delle 9mila toghe italiane. Ponderato per carattere e formazione, non ama le polemiche, ma va dritto al sodo. Insieme a molte proposte, manifesta «perplessità», e in qualche caso l’esplicita «contrarietà» dell’Anm su diverse ipotesi di riforma al vaglio del Parlamento: «Attenzione», osserva, potrebbero causare in futuro «danni gravissimi». A partire dall’allargamento delle maglie della legittima difesa, cavallo di battaglia del ministro dell’Interno, Matteo Salvini: «Il disegno di legge 652, se approvato, rischierebbe addirittura di legittimare reati gravissimi, fino all’omicidio». *
Teme che le città italiane si trasformino in un far west?
Non si può prescindere dal principio della proporzionalità fra offesa e difesa e dalla valutazione, caso per caso, del giudice: se, da fuori casa, vedo un tizio che si arrampica sul balcone, non posso essere autorizzato a sparargli. Serve una norma per difendersi dai ladri in casa? Nel 2006 è già stata approvata: è il secondo comma dell’art. 52 del codice penale, che presume la legittima difesa in caso di reazione a chi si introduce nella propria abitazione e minaccia il proprietario o il furto dei suoi beni. E ci allarma una eventuale “liberalizzazione” della vendita di armi: siamo contrari alla vendita nei supermercati.
Le forti tensioni con la Lega per l’inchiesta di Genova sui fondi del partito si sono sopite?
Auspichiamo che siano rientrate. E non saremo noi ad alimentare uno scontro. Ma i magistrati di Genova debbono poter lavorare serenamente. Evocare un intervento del capo dello Stato è stato un tentativo di interferenza fuori dal perimetro costituzionale e abbiamo reagito. E reagiremo ancora, se pressioni analoghe dovessero ripresentarsi. In quei giorni abbiamo sentito parlare di «giustizia a orologeria». Lo rigettiamo con forza: le lancette della giustizia corrono sempre. E noi non esercitiamo la giurisdizione per fini politici, ma in nome del popolo italiano, attraverso provvedimenti e sentenze che motivano il percorso logico e giuridico dei nostri atti. Punto.
M5s ipotizza di contrastare la corruzione anche attraverso la figura dell’agente provocatore o sotto copertura. Sarebbe utile?
Intendiamoci: uno dei mali più gravi del Paese è la corruzione. E vanno studiate tutte le misure in grado di rendere penetranti e rapide le indagini. Tuttavia, estendere questa figura alle indagini anticorruzione ci lascia molto perplessi. Esiste già nelle indagini antidroga, ma i pm la usano con parsimonia e comunque si inserisce in un contesto criminale già in corso: un carico di cocaina in viaggio dalla Colombia all’Italia, ad esempio. Per la corruzione, la questione è scivolosa: interverrà solo se c’è già un reato, o rischierà di “favorirne” la commissione finendo per farsi parte di una catena di eventi che porta a un crimine? Questa seconda eventualità ci pare assolutamente da evitare.
Al suo predecessore, Pier Camillo Davigo, l’ipotesi piaceva.
È vero. Tuttavia le nostre perplessità rimangono.
L’annosa durata dei processi, che facilita la prescrizione, è il peggior vulnus del sistema. Le proposte del governo la convincono?
A giugno, ci siamo confrontati col Guardasigilli. Per noi non c’è un solo intervento-panacea: proponiamo una serie di norme, quasi tutte a costo zero. Intanto, quando si è celebrato un processo di primo grado, è giusto che la prescrizione si interrompa. Ma ciò non risolve il problema, lo sposta solo in avanti. E non si può tenere un processo aperto “a vita”. Perciò, oltre al tema della prescrizione, occorre un insieme di interventi che riducano i tempi. Noi proponiamo la rimozione del divieto di reformatio in pejus: oggi pure il reo confesso fa ricorso in appello, il tempo passa e quel reato si prescrive. Molte corti d’Appello sono intasate: solo in quella di Roma pendono 60mila processi e il 40% si prescriverà. È un dato allarmante. Rivedendo il divieto di reformatio in pejus, la pena potrebbe anche essere aumentata e dunque le impugnazioni sarebbero più ponderate e di conseguenza diminuirebbero. Inoltre, va riformato il sistema delle notifiche: nell’era di Internet, ancora viaggiano nella borsa di un ufficiale giudiziario, col “camminamento”. Se un imputato non viene reperito, passano mesi e anni, quando basterebbe prevedere l’elezione di domicilio automatica presso il suo avvocato. E ancora: se oggi uno dei giudici che ha avviato il dibattimento va in pensione o viene trasferito, si deve rifare tutto, comprese le deposizioni del testimoni. Se lo si vietasse nei casi di corruzione o in altri reati di allarme sociale, si potrebbe andare avanti semplicemente sostituendo il giudice impedito, come accade già per mafia o pedopornografia.
Intercettazioni: la riforma Orlando, da voi criticata, è stata congelata.
Il nostro grido d’allarme è stato ascoltato. Il governo l’ha sospesa fino al 31 marzo 2019. Ma quella riforma non andrà bene neppure fra 7 mesi, è dannosa per le indagini e pregiudizievole per il diritto di difesa, deve essere accantonata o ripensata radicalmente.
Come valuta l’ipotesi di eliminare il ricorso al rito abbreviato per i reati di criminalità organizzata?
Attenzione a lanciare temi che possono generare danni gravissimi. Nei processi ai mafiosi il rito abbreviato ha funzionato bene, consentendo sentenze rapide e – nonostante lo sconto di pena – condanne pesanti, fino a 20 anni. Se si elimina quella possibilità, si rischiano numerose scarcerazioni di mafiosi: perché se un processo dura a lungo, scadono i termini di custodia cautelare. E questo non lo possiamo permettere, sarebbe un favore alle mafie.
E le risorse? La giustizia non ne ha bisogno?
È chiaro che servono. Anche qui, abbiamo delle proposte: per via del carente turn over, mancano 8mila addetti amministrativi. Nell’ultimo concorso ci sono 1.862 giovani laureati già idonei: perché non partire da loro? Al ministro Bonafede chiediamo di far scorrere quelle graduatorie prima che, trascorso un anno, scadano. Invece, del programma di governo non ci convince affatto la proposta del ritorno ai piccoli tribunali: sarebbe un errore, dispendioso e inefficace. Meglio rafforzare quelli esistenti, anche attraverso una redistribuzione delle piante organiche dei magistrati.
Dopo anni di carenze, il numero dei magistrati in servizio è tornato sufficiente?
Quando, nel 2014, c’è stato l’abbassamento dell’età pensionabile, da 75 a 70 anni, abbiamo avuto serie difficoltà. Ora il colpo è stato assorbito: sono stati fatti i concorsi, anche due all’anno, e la scopertura è scesa al 10%, quella fisiologica. Lo dico a chi immagina di far salire di nuovo l’età pensionabile a 72 anni: non serve, sarebbe un ritorno al passato di cui la magistratura non ha bisogno. È invece importante continuare a bandire i concorsi. E riportare quello in magistratura a concorso di primo grado, per permettere ai giovani laureati di partecipare da subito, non a 30-35 anni.
Il caso del Palagiustizia di Bari è simbolico del degrado degli edifici giudiziari. Non la ferisce?
Molto. Abbiamo chiesto al ministro della Giustizia un piano straordinario per la sicurezza degli uffici e per l’edilizia. Non c’è solo Bari. In pochi mesi a Roma ci sono stati tre guasti agli ascensori, che hanno causato infortuni a tre persone, ed è crollato un soffitto. Troppi uffici sono vetusti, vanno messi in sicurezza. Senza contare le aggressioni subite da magistrati.
Nel governo, c’è chi attacca le “correnti” delle toghe e propone una riforma dei meccanismi del Csm. Qual è la sua opinione?
Le cosiddette correnti all’interno della magistratura non sono partiti, come maligna qualcuno, ma sinonimo di pluralismo culturale e democrazia interna. Chi pensa di vietarle, aspira a un “pensiero unico” o ha confuso il pluralismo culturale con l’imparzialità nell’applicare la legge. Non ammettiamo che si continui a fare questa confusione.
E i magistrati che entrano in politica?
È una questione diversa e limitata a pochi casi. Non sono cittadini di serie B e ne hanno diritto, ma servono norme chiare sul ritorno in magistratura. Non dovrebbero ricoprire più funzioni giurisdizionali, ma solo amministrative, perché il cittadino non abbia alcun dubbio che il magistrato che lo giudica indossi ancora, sotto la toga, una casacca di partito.
Il Guardasigilli annuncia un monitoraggio ispettivo sul lavoro dei magistrati, per stanare «le mele marce». L’Anm è favorevole?
No, siamo decisamente contrari. Anzi, ci preoccupa molto. A quale fine? E con quali modalità? Secondo la Commissione Europea, i magistrati italiani sono fra i più produttivi d’Europa: nel civile, settore in forte sofferenza, ci sono colleghi che emettono fino a 500 sentenze l’anno, sgobbando pure a Ferragosto. E l’operato di ciascuno di noi è sottoposto a valutazioni di professionalità, ogni 4 anni, dagli unici organi deputati a farlo: i consigli giudiziari e il Csm. Per di più, il potere di ispettorato ministeriale è previsto solo in presenza di fatti singoli, specifici e ben circoscritti, generalizzarlo finirebbe per introdurre forme di controllo non previste dal sistema. Il vaglio della professionalità dei magistrati spetta esclusivamente agli organi di autogoverno, non al potere politico. Auspichiamo che il ministro non proceda su questa strada: costituirebbe davvero un “fuor d’opera”.
Fonte: Avvenire
*Intervista di Vincenzo R. Spagnolo