Si può realizzare per la persona con disturbi mentali e autrice di reato, un sistema unitario e coerente con la legge 180? Le dichiarazioni di esponenti delle forze politiche oggi di governo, sembrano allontanare nel tempo la creazione delle condizioni volte a rendere effettivo il diritto alla salute a prescindere dallo stato giuridico.
Infatti, sarebbero necessari interventi che al momento la nuova maggioranza di governo, dopo avere bloccato il primo decreto attuativo della legge 103/2017, non pare avere nel “Contratto di governo”. Teoricamente per i decreti vi è ancora un po’ di tempo visto che la scadenza è il 3 agosto 2018 ma è assai difficile che vi siano novità.
In questo quadro anche l’attuazione della legge 81/2014 che pure ha portato alla chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG) richiederebbe azioni legislative in merito ad imputabilità, pericolosità sociale, misure di sicurezza e un piano per la salute mentale.
In assenza, almeno per ora di una politica nazionale, si è determinata una fase di limbo, dove i diversi soggetti chiamati ad applicare la legge, devono di necessità dare risposte e trovare soluzioni. Ancora una volta riforme importanti, vengono lasciate a sé, e dal basso, localmente si realizzano le nuove prassi. Questa non favorevole situazione che ricorda a chi ha un certa età quella dei primi anni dopo l’approvazione della 180, può tuttavia permettere la sperimentazione, la ricerca di un nuovo punto di incontro tra psichiatria e magistratura con lo sviluppo di buone pratiche di collaborazione come per altro auspicato dal Consiglio Superiore della Magistratura.[1] Pressoché in tutte le Regioni sono in atto incontri, tavoli e protocolli tra magistratura e psichiatria per tentare di dare funzionalità all’intero sistema di cura e giudiziario incentrato sulla persona nella comunità.
Per quanto attiene i dipartimenti di salute mentale seppure con molte difficoltà e forti diversità regionali sono stati affrontati i problemi posti dalla chiusura degli OPG ma la questione dei mandati e delle risorse necessarie va affrontata con determinazione mancando al momento risposte specifiche.
La riforma pare finita nell’ombra, senza paternità politica garante del “patto sociale” e il peso psicologico per la sua attuazione grava in primis sui professionisti della salute mentale e mentre giudici e forze dell’ordine hanno una posizione più defilata, almeno per quanto attiene l’opinione pubblica che sembra risentire fortemente di un clima giustizialista e di una paura della diversità con conseguente minore tolleranza. Su tutto questo sarebbe assai utile l’esplicitazione delle linee del governo ed in particolare dei ministeri della Salute e della Giustizia.
In questo contributo vedremo lo stato di applicazione della legge e come con questo si possono determinare variazioni nella concezione della cura in psichiatria.
Lo stato di applicazione della legge
La legge 81 non solo ha chiuso gli OPG ma si sta realizzando, come previsto, nella comunità. Purtroppo non vi sono dati a livello nazionale ma dai dati parziali il numero di persone con disturbi mentali alle quali vengono applicate misure di sicurezza non detentive (libertà vigilata) o altri provvedimenti giudiziari come ad esempio gli arresti domiciliari, nel territorio è in forte crescita. Nella Regione Emilia Romagna a giugno 2017 a fronte di 24 persone in REMS vi erano 203 persone nel territorio (rapporto 1:8) delle quali larga parte, circa il 70%, in strutture residenziali. A giugno 2018 in Emilia Romagna, il numero delle persone nel territorio si stima intorno ai 400 (con un rapporto tra soggetti in REMS e quelli nel territorio di 1/15). Questo dato, da verificare, se proiettato a livello nazionale porta ad una stima di circa 9mila persone seguite dai centri di salute mentale che si associa al vissuto di molti operatori dei DSM di essere “invasi” dalle questioni giudiziarie. Tutto questo se da un lato preoccupa per l’impatto sui servizi e la necessità di adeguare il modello tecnico operativo e le relative risorse dall’altro sembra indicare, nonostante le difficoltà, una buona realizzazione della riforma.
Un successo che trova le proprie basi nel modello di psichiatria di comunità italiana basata e su alcune norme poste alla base del nuovo sistema: regionalizzazione, numero chiuso, assenza di contenzione e orientamento alla recovery, nonché dal crescere di prassi collaborative e preventive tra giustizia e psichiatria affinchè le misure di sicurezza di tipo detentivo siano davvero una misura residuale.
La collocazione delle persone con misure giudiziarie nel territorio oltre a richiedere ulteriori risorse ai DSM evidenzia la necessità di adeguati interventi sociali per tutti le persone e non solo per gli autori di reato, altrimenti rischia di crearsi anche in questo ambito un conflitto fra poveri. In altre parole la legge non può realizzarsi nell’ambito di un quadro di disinvestimento o abbandonico ma solo in un sistema di welfare pubblico universalistico.
In assenza di un sistema informativo nazionale, e a tal proposito è molto utile l’iniziativa di Stopopg di costituire uno specifico Osservatorio, gli ultimi dati sono quelli forniti da Corleone[2], a settembre 2017. Le persone in REMS erano 604 di cui 335 con misure di sicurezza definitive mentre quelle con misure provvisorie[3] erano 265 (44% del totale). Nella lista di attesa al 6 settembre 2016 risultavano 219 persone di cui 150 con misure provvisorie (68%) del totale.
Dati più recenti del 13° Rapporto di Antigone confermano una crescita netta delle misure provvisorie. “Secondo il Dap sono 313 le misure di sicurezza richieste e non eseguite in Italia, di cui 218 provvisorie”[4] pari a circa il 72% del totale. Andando ad analizzare la lista di attesa molte persone (in Emilia Romagna circa i 2/3) sono già ben curate in contesti adeguati e ciò rappresenta nella pratica come sia applicabile la legge 81/2014 e in questi casi la misura di sicurezza detentiva dovrebbe essere revocata.
Vi sono anche persone che attendono in carcere e questo interroga su un punto molto delicato della riforma che è tutela della salute mentale negli istituti di pena che la legge 103/2017 intendeva affrontare.
L’incremento significativo delle misure provvisorie pone diversi interrogativi. Infatti, a differenza della misura di sicurezza definitiva che viene applicata al termine di un complesso iter giudiziario nel quale la valutazione psichiatrica è di solito ben definita, la misura di sicurezza provvisoria è applicata “in qualunque stato e grado del procedimento” sulla base di un giudizio di pericolosità sociale dell’imputato che non sempre è fondato sulla perizia psichiatrica[5] la quale può essere ordinata dal giudice nell’ambito della sua discrezionalità (Cassazione penale 37573/2014). Infatti, per applicare la misura di sicurezza provvisoria (art 206 c.p.) ai sensi dell’art.312 del c.p.p. è sufficiente la sussistenza di gravi indizi di commissione del fatto. Secondo la Corte costituzionale, sentenza 367/2004 “proprio alla luce della non definitività degli accertamenti sul fatto, assume particolare rilievo, in relazione alle condizioni di salute dell’indagato infermo di mente, l’esigenza di predisporre cure e cautele adeguate e proporzionate al caso concreto (..)”.
Ci si muove quindi in un contesto che seppur caratterizzato da gravi indizi sia in merito alla commissione del reato sia alla infermità psichica, dovrebbe essere improntato ad assicurare “cure e cautele adeguate” dando priorità ai sensi della legge 81/2014 la misura di sicurezza della libertà vigilata.
Pertanto sul piano giuridico si procede sulla base di indizi di colpevolezza a fronte di persone che possono rivendicare la loro innocenza e comunque una definizione del fatto reato nelle sedi proprie della giustizia e non in un contesto di cura. Non solo ma spesso la cura adeguata può effettuarsi in un contesto diverso. Infatti, nella pratica si è constatato che spesso la collocazione in REMS avviene non tanto per ragioni di cura ma come una misura cautelare. Questa potrà anche essere necessaria alla prassi giustiziaria ma non può esserlo affatto per la cura.
Qui si apre un grosso problema perché se lo scopo della misura di sicurezza è assicurare la cura in relazione alle particolari condizioni di salute dell’indagato infermo di mente queste dovranno essere definite da psichiatri nelle sedi, forme e nei modi più appropriati secondo le attuali conoscenza della disciplina.
Se in OPG si rischiava “l’ergastolo bianco”, in REMS si rischia di avere una detenzione preventiva kafkiana senza garanzie di tempi e di procedura, tanto maggiore in relazione alle carenze della difesa spesso correlata con le condizioni di povertà, emarginazione, assenza di riferimenti.
Nella provvisorietà i passaggi giudiziari principali riguardano la definizione dell’imputabilità, della pericolosità sociale ma anche la determinazione ai sensi dell’art. 70 del c.p.p. della capacità di partecipare coscientemente al processo. In questi passaggi è cruciale la definzione dei tempi ed è essenziale il lavoro dei periti, il loro raccordo con i Centri di salute mentale e la partecipazione e la qualità della difesa.
I nuovi ammessi con misure provvisorie si trovano ad essere inseriti in REMS con persone che hanno programmi abilitativi ed equilibri già definiti. Nelle REMS per altro si sta determinando un “effetto accumulo” di pazienti con misure giudiziarie di lunga durata magari in relazione al reato o con problemi sociali assai rilevanti (senza fissa dimora, clandestini, irregolari, persone sole povertà estreme ecc.) che in relazione al quadro normativo e alla difficoltà del sistema sociosanitario si trovano senza prospettive. Una tendenza che va contrastata con forza. Una situazione che contrasta gravemente con il percorso diagnostico e terapeutico in quanto non determina una condizione di chiarezza, fiducia, certezza dei tempi, responsabilizzazione reciproca. Non solo il mandato custodiale è improprio ma rischia di stravolgere il ruolo dei sanitari e di essere del tutto inattuabile nell’attuale assetto organizzativo dei DSM.
L’associazione nelle REMS di persone con misure di sicurezza provvisorie e definitive condiziona fortemente anche le attività di cura: mentre nelle prime il quadro clinico va accertato, e quindi prevale la fase di accoglienza-valutazione e diagnosi, nelle persone con misure definitive invece prevalgono le misure terapeutico-abilitative. Due funzioni che con difficoltà possono realizzarsi in una struttura che è una Residenza.
Questo porta ad evidenziare la contraddizione insita nella creazione delle REMS: da un lato ancora legate a prassi degli OPG dei quali ereditano tutte le funzioni sanitarie, concentrate in un solo luogo di fatto isolato dall’altro REMS strutturalmente inserite nei DSM e quindi fortemente connesse con la comunità e con una precisa definizione della tipologia degli interventi e dell’intensità di cura.
Una contraddizione che si esprime anche nei diversi modelli di REMS e sui quali occorre riflettere in riferimento al tipo di mandato e alle possibili evoluzioni del sistema.
Questo rimanda alla concezione della cura, o ancor meglio delle modalità del prendersi cura della persona con disturbi mentali autrice di reato e come ciò implichi un’evoluzione dei modelli di relazione con essa.
La concezione della cura
Se per la psichiatria l’unico mandato esercitabile è quello della cura, ogni altra impostazione pone in crisi il sistema, lo spinge verso forme di vigilanza/custodia/coercizione che aprono interrogativi sulla loro liceità, fattibilità e soprattutto sulla loro efficacia clinica. Appare evidente una contraddizione: si è affidato il sistema ai sanitari perché attuino la cura e al contempo si creano condizioni per la sua non applicazione?
Se una prolungata limitazione della libertà non è una condizione della cura, ancor meno può essere considerata una competenza dei sanitari.
Se per motivi giuridici una persona si trova in un percorso sanitario da lei non richiesto in forza di un provvedimento giudiziario, è necessario un processo di chiarificazione e di definizione delle condizioni minime per l’intervento diagnostico terapeutico. Una situazione clinica assai difficile in quanto si tratta di prendersi cura in modo proattivo di chi non esprime domande e per farlo occorre ascoltare, capire, motivare, iniziare a definire una base comune, le norme di rispetto reciproco, assicurare il “minimo vitale” con il sostegno ai bisogni di base. Questo per attivare la responsabilità e la cooperazione anche attraverso l’investimento sulle potenzialità della persona dando vita fin da subito ad un processo di “capacitazione”.
La cura può avvenire solo attraverso lo sviluppo della relazione intesa come un processo non lineare ma costituito da un insieme di movimenti che con pazienza, lentamente portano ad una condizione di fiducia e sicurezza come costruzione condivisa e potenzialmente evolutiva in grado di produrre una possibile riduzione della sofferenza, un cambiamento di prospettive. In questo la relazione diviene unica e creativa, capace cioè di ridefinire e costruire in termini nuovi, differenti modalità di funzionamento mentale, affettivo e relazionale. Le menti funzionano attraverso connessioni e questo processo in parte empatico e profondo non è codificabile solo in termini cognitivi, né è ben prevedibile.
Per questo non può esservi una Linea Guida ma solo un insieme di Buone pratiche nelle quali va riconosciuta l’unicità e l’alta personalizzazione degli interventi di cura. In questi è essenziale il punto di vista dell’utente il quale è portatore di una sua lettura, una teoria del disturbo, del reato ed ha idee sulla cura, sulla pena e sulla vita. L’incontro inizia con l’avvicinamento, l’accoglienza, l’ascolto e la comprensione della difformità di vedute, delle scelte alternative e ciò significa gestire i conflitti e le violazioni fissando i riferimenti minimi per l’incontro mantenendo aperta la relazione di cura e cercando di attenuare i danni, favorire la maturazione e la resilienza nell’ambito della umana pietas. Questo consente le narrazioni congiunte, le nuove rappresentazioni del dolore, della sofferenza e avvicinano a quei dilemmi esistenziali e filosofici, vita/morte, essere/non essere, forme di vita che spesso i pazienti gravi portano all’attenzione di chi si prende cura di loro.
Perché questo lavoro profondo possa realizzarsi, occorre che lo psichiatra (e tutto il gruppo di lavoro) si senta libero, in grado di entrare nel mondo del possibile cambiamento dell’altro e di sé; se questa trasformazione creativa, transizionale è parte della cura, o è la cura, occorre tenere conto delle condizioni per la sua difficile e incerta realizzazione. In questo quadro di riferimento va collocata la questione delicata della responsabilità spesso utilizzata o vissuta come riferimento per atteggiamenti difensivi, remissivi, di disinvestimento, fatalisti, sottilmente custodiali, tutti quanti anti-terapeutici.
Va ricordato con forza che la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari tramite percorsi di comunità (e non tramite le REMS) richiede una revisione del concetto di responsabilità tenendo conto dell’estrema difficoltà e complessità del lavoro di cura, del rapporto rischi/benefici, dell’efficacia reale nelle pratiche e i limiti degli interventi terapeutici. Ma anche di considerare che ai fini del risultato, degli esiti positivi in medicina è indispensabile la responsabilizzazione e la partecipazione attiva della persona e del suo contesto. Senza responsabilizzazione non vi è riabilitazione in psichiatria ma nemmeno sicurezza sociale.
Il sistema di REMS che si è realizzato, nonostante la magistratura abbia auspicato un aumento dei posti letto, difficilmente potrà essere ampliato. D’altra parte il sistema delle REMS ha una funzionalità che dipende in larga misura dalla magistratura oltre che dal DSM. Se la magistratura tenderà ad utilizzarle così intensamente per le misure provvisorie la funzione abilitativa potrebbe essere gravemente compromessa. Rischiano di essere dei contenitori inquietanti e senza senso di persone alla ricerca di un destino. Porti per poveri naufraghi della modernità, figli della povertà e della carenza delle tante forme del prendersi cura, accolti provvisoriamente in un sistema che spesso non comprendono. Persone con le quali andrebbero predisposti interventi, anche creativi, diversi dalla mera e spesso del tutto inutile privazione della libertà.
Ma se il sistema di welfare e i DSM non hanno risorse di personale, capacità creative e strutture sufficienti per realizzare PTRI è inevitabile il blocco del turnover delle REMS e un vissuto di impotenza, di assenza di speranza e di nichilismo rischia diffondersi.
Verso nuovi concetti
A fronte di questi pericoli di collasso e ingolfamento del sistema, la collaborazione tra giustizia e psichiatria è essenziale per gestire al meglio i percorsi, definire nuovi scenari, elaborare idee e prassi innovative.
In questa situazione sul piano organizzativo, a mio avviso la REMS deve evolvere e diventare sempre più parte integrante del DSM e della comunità, idealmente superare se stessa, se vuole evitare il rischio immanente di una regressione ed una involuzione l’istituzionalizzazione, verso i “miniOPG”.
Per questo è utile intraprendere la via della normalizzazione delle REMS, abbattendo muri e sistemi custodiali, ereditati dall’OPG per sviluppare la territorialità, superando la logica del posto-letto, del “dove lo metto” in favore di una concezione nuova orientata ai percorsi, alla responsabilizzazione, ad una concezione più evoluta della misura giudiziaria e della cura. Credo siano evidenti gli scarsi risultati delle logiche custodiali, la loro sostanziale inefficacia, se non la dannosità, della mera limitazione della libertà.
Una parte dei professionisti sensibili al tema, vede nelle REMS un’occasione per un nuovo sistema di psichiatria forense italiano. Se da un lato vi è certamente la necessità di adeguare e collegare la psichiatria forense con la psichiatria di comunità, migliorando al contempo le competenze dei DSM anche tramite UO o incarichi specifici, sul piano della programmazione organizzativa va molto ben valutato come si intende delineare il sistema. A mio avviso, questo va visto in una logica unitaria e di esso fa parte anche la questione della salute mentale negli istituti di pena, una grande questione aperta dopo il blocco dei decreti previsti dalla legge 103/2017.
Sotto il profilo delle prassi l’applicazione della legge 81/2014, prevedendo la cura e al contempo azioni per fare fronte alla pericolosità sociale quindi per la sicurezza-prevenzione dei reati, ha reso evidente come si debba passare da una visione lineare ad una binaria.
Semplificando al massimo secondo la precedente prassi consolidata, il giudice, sentito il perito, dispone, la psichiatria esegue la cura e il paziente obbedisce e in un qualche modo vi si sottomette. Una cura di norma fondata sulla psichiatria biologica e quindi prevalentemente farmacologica e al più psico-educativa comportamentale e adattativa. Una cura applicata dall’esterno, ad una persona che passivamente la subisce, nella presunzione che vi siano psicofarmaci in grado di curare il disturbo mentale (i dati scientifici indicano che le forme di schizofrenia resistente ai trattamenti è del 25-30%).
Questo schema, lo stesso applicato in OPG, funziona molto poco.
Oggi è necessario comprendere come per l’autore di reato vi sia una competenza specifica e autonoma della giustizia, possibilmente coordinata con la cura, in grado di sviluppare una propria relazione con la persona tale da dare un senso alla misura adottata, alle azioni necessarie alla rieducazione e per prevenire nuovi reati. Questo a maggior ragione se viene applicata la libertà vigilata, o altre misure come gli arresti domiciliari, che realizzate nella comunità sociale implicano una forte responsabilizzazione della persona. E’ lei che ne deve rispondere e non lo psichiatra.
In altre parole, la giustizia deve sviluppare un “suo” patto con la persona in relazione al reato e alle misure conseguenti. In questo è fondamentale il coinvolgimento della persona anche se con disturbi mentali, che seppure prosciolta, e a maggior ragione se l’imputabilità è ancora da definire, può comprendere le ragioni di realtà e impegnarsi per adempiere ad impegni specifici volti a prevenire reati, quindi sviluppare e costruire un “patto con la giustizia”. L’impostazione derivante dalla legge 309/90 art. 94 è quella che si può applicare anche nella salute mentale.
“Il patto di cura” ha un’altra base giuridica, resa ancora più complessa dalla legge 219/2017 sul consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento, e deve fondarsi sulla volontarietà.
Si tratta di due patti, di due percorsi autonomi e specifici ma con possibili punti di contatto e convergenza, specie negli obiettivi. Nessuno dei due percorsi può sostituire e nemmeno parzialmente vicariare l’altro.
E’ interesse di entrambi i sistemi che la persona si curi e non commetta altri reati, si attenga alle prescrizioni. Quindi la persona nella comunità si trova al centro di un percorso che vede due polarità, quella giudiziaria e quella psichiatrica.
In questo impianto viene ad evidenziarsi la necessità di rivedere la relazione fra reato e disturbo mentale. Nella misura in cui si passa da relazioni lineari fondate su categorie rigide e dicotomiche (sano/malato, imputabile/non imputabile) a processi basati su dimensioni interagenti nella complessità (modello biopsicosociale) la risposta dovrà essere sempre più articolata. Non più un doppio binario che separa sani e malati dando vita a percorsi alternativi e mutuamente escludentesi, ma un doppio patto con al centro la persona nella comunità che dà luogo a ad un insieme di interventi incentrati sulla persona e il suo contesto e tiene conto non solo delle specifiche competenze psichiatriche ma anche dei diversi bisogni, a partire da quelli di base, per un programma di cura e il progetto di vita della persona.
Se nella prima impostazione, in caso di non imputabilità l’infermità contiene il reato e questa ne è la espressione, nella seconda l’interazione tra i due diviene più articolata, discreta e riconosce sempre ambiti di autonomia al reato e al disturbo che potranno vedere ambiti di sovrapposizione ma solo eccezionalmente sono pienamente coincidenti.
Questa impostazione trova riferimento anche nelle più recenti concezioni sulla determinazione degli agiti autoconservativi[6] e eterolesivi[7]. E per quanto da oltre un secolo Durkeim[8] avesse evidenziato la complessità e la variabilità del suicidio, l’idea di considerarli come tutti ascrivibili al disturbo mentale ha resistito a lungo. Solo grazie a Shneidman[9] si è passati ad un visione che pone al centro una condizione psicologica, un dolore mentale insopportabile che viene a determinare un vissuto di perdita di speranza e futuro ed un assetto cognitivo molto ristretto che vede nell’atto lesivo la sola soluzione. Questa condizione mentale, si articola con altri vissuti, condizioni psicopatologiche, relazionali, sociali, di vita che vengono ad assumere a seconda dei casi il ruolo di fattori di rischio, protezione, precipitazione.
Come è noto “esistono (negli schizofrenici) anche motivazioni all’omicidio del tutto indipendenti da qualsiasi delirio e, in questo senso, del tutto sovrapponibili a quelle degli omicidi compiuti da un soggetto non dichiarato poi infermo di mente, (omicidio nel corso di una rapina, nel corso di una violenza carnale, per conflitti di interessi economici, per gelosia, per litigi banali in corso di ebbrezza alcolica, etc. ).” (Nivoli[10])
Quindi si ha un continuum di vissuti dal normale al patologico, uno spettro sul quale operare. E trattandosi di un vissuto con una componente cognitiva importante, diviene fondamentale agire perché la persona possa sperimentare la capacità di modulare, articolare, controllare la propria attività mentale e ancor più il proprio comportamento. Numerosi studi hanno dimostrato che ciò è possibile.
Questa azione di responsabilizzazione è essenziale sul piano clinico-riabilitativo prima ancora che giuridico dove sarebbe molto più utile al paziente una pena chiara che un ambiguo e talora incomprensibile del proscioglimento seguito dalle misure di sicurezza.
Un cambio di paradigma, a maggior ragione, è necessario per fronteggiare le condizioni oggi più preoccupanti. Ad esempio i femminicidi che in larga parte sono preceduti da un lungo periodo di relazione fra vittima e autore di reato.
Posto che la maggior parte di questi è imputabile, la questione del loro inquadramento e soprattutto di quale debba essere la lettura psicologica, psicopatologica, relazionale, educativa, sociale, economica è cruciale ai fini della prevenzione e del possibile trattamento in un sistema di comunità.
A fronte delle dimensioni del fenomeno (nella sola regione Veneto in un anno più di 5000 donne si sono rivolte ai Centri Antiviolenza) non si può pensare come possibile la sola custodia cautelare per i soggetti responsabili di condotte di stalking. Quindi, ai fini del nostro discorso, le misure preventive, dissuasive previste nella comunità non possono realizzarsi senza la collaborazione di chi vi è sottoposto. E se questi accede ad un servizio che cerca di aiutarlo e per quanto possibile curarlo, possiamo pensare che questo improbo compito possa essere tentato da un professionista che domani debba rispondere della posizione di garanzia?
L’affidamento del paziente al sistema di cura di comunità implica la necessità di procedere secondo le regole proprie di questo proteggendo i professionisti, in altre parole riconoscendo loro la complessità e l’estrema difficoltà del compito senza prevedere la posizione di garanzia di controllo, in quanto impossibile.
Una cura che deve vedere un orientamento verso la recovery e deve prendere in considerazione fin da subito dei determinanti sociali della salute, a partire dal reddito, alloggio, formazione lavoro. Affrontare le povertà è fondamentale. A questo va aggiunta l’attenzione ai fattori culturali, religiosi e spirituali della persona in quanto fondamentali per la diagnosi e la cura ma anche per la comprensione del reato e della espiazione. Un impianto nel quale sempre maggiore rilevanza ha l’elaborazione del reato commesso.
Per quanto attiene alla diagnosi e cura del disturbo mentale va attuato nel consenso e nel sistema di comunità con la partecipazione attiva della persona. Questa specie nel suo primo contatto con i servizi della salute mentale ha bisogno di tempo, di comprendere ed essere compresa nell’ambito di relazioni di fiducia, sempre difficili da costruire, strutturalmente fragili, labili, molto esposte al rischio di fallimento. Una condizione operativa molto delicata, dove occorre chiarezza, sensibilità, attenzione ai dettagli, dove la parte patologica è nell’ambito di un funzionamento mentale e relazionale di insieme, dove il reato e la violazione sono presenti nel mondo interiore, ingombranti, inquietanti, corpi che cercano spazio, parole, senso. Un male che cerca di definirsi, ferite lancinanti in attesa di medicazione, buchi non colmabili, devastazioni e terremoti che aspettano i primi soccorsi, l’accoglienza, l’incontro, il riconoscimento per come sono e aperture di un dialogo. E in tutto questo i tempi dell’azione giudiziaria segnano le esistenze delle persone (e anche degli operatori) a volte in modo molto ansiogeno, in certi casi confuso e talora kafkiano.
Come andare avanti?
L’attuale stato di limbo, di silenzio e incertezza interroga sul futuro possibile. Si può tornare all’OPG? O il passo epocale di chiuderli seppure con tutte le difficoltà è un dato acquisito, comune a tutti? Se questo è il punto dal quale andare avanti bisogna vedere come procedere facendo tesoro delle esperienze maturate in questi tre anni, prendendo atto che un sistema giudiziario e di salute mentale di comunità va adeguatamente sostenuto.
Occorre applicare la legge 81 e rendere le misure detentive davvero residuali questo anche per quanto attiene le misure di sicurezza provvisorie e credo vada definito un iter preciso con la magistratura che preveda sempre una valutazione psichiatrica, una perizia o una doppia perizia/perizia di equipe, ed un doppio patto con la persona, concertato tra psichiatria e giustizia, uno per la cura e l’altro per la sicurezza.
Questo è tanto più rilevante nella misura in cui vengono ad essere applicate le misure provvisorie a persone che utilizzano sostanze psicoattive, con sospetti disturbi della personalità, alti livelli di psicopatia.
Un lavoro molto impegnativo che deve trovare ugualmente partecipi e responsabili articolazioni giudiziarie e dei servizi sanitari e sociali con impegni convergenti ma autonomamente sottoscritti dalla persona non più considerata incapace e irresponsabile. Impegni che vedano la giustizia anche per tramite delle forze dell’ordine, i servizi sociali in una posizione attiva, di primo piano e non di delega in toto alla psichiatria. La persona con disturbi mentali non va trattata diversamente, come cittadino di serie B, con meno doveri, meno diritti e garanzie degli altri, persona da mettere sempre sotto tutela di qualcuno, lo psichiatra in particolare.
Il rapporto misura di sicurezza come estrema ratio e REMS non ha ancora trovato un’autorevole soluzione. Molti pensano che l’OPG sia sostituito dalla REMS e non dal sistema di welfare di comunità, di cui fa parte il DSM nell’ambito del quale opera la REMS. Una visione quest’ultima che implica anche la necessità di costruire in modo altamente personalizzato, misura giudiziaria e percorso di cura, secondo una logica che metta al centro la persona nella comunità e non gli automatismi giudiziari o le cure standard.
La definizione di buone pratiche secondo le indicazioni del Consiglio Superiore della Magistratura deve trovare, magari attraverso una Consensus Conference nazionale, puntuale applicazione in tutte le regioni.
Questo implica anche passare ad una diversa concezione della posizione di garanzia dello psichiatra al quale non solo va riconosciuto l’umana impossibilità di prevedere e prevenire le condotte di altre persone ma al quale va attribuito “il privilegio terapeutico”, garantito forme di responsabilità istituzionali, in relazione alla grave difficoltà del compito assegnatogli.
Sarebbe un grande passo avanti riportare il medico in un alveo di cura abolendo larga parte degli obblighi di referto (eccetto i minori ecc.) che non solo appaiono del tutto superati ma poco efficaci sia per la cura che per la sicurezza. Se un controllo sanitario deve esservi questo va reso esplicito, chiaro al cittadino che potrà vedere come affrontarlo, ma non deve essere fondato sul sospetto, su un’idea di tutela dell’ordine pubblico degli anni 30 del secolo scorso.
Se sul piano legislativo l’obiettivo resta il superamento della non imputabilità, pericolosità sociale e misure di sicurezza, altri cambiamenti magari minori possono essere molto utili. Mi riferisco all’abolizione delle norme del codice penale e di procedura penale e legali che permettono di adottare le misure di sicurezza provvisorie in REMS.
Scenari immaginari? Può darsi. Se nella realtà e nel clima politico attuale dovesse avanzare la richiesta anche implicita di fare diventare le REMS strutture chiuse e fortemente custodiali o si dovesse pensare a ridare vita ad OPG o di cambiare la 180 nell’erronea convinzione recentemente propagandata che vi siano in giro malati mentali pericolosi, saremmo di fronte ad un inaccettabile tentativo del potere di asservire ai suoi scopi la psichiatria!
[1] “Disposizioni urgenti in materia di superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari (OPG) e di istituzione delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS), di cui alla legge n. 81 del 2014. Questioni interpretative e problemi applicativi”. 19 aprile 2017
[2] Corleone F. (a cura di) “Manicomi criminali. La rivoluzione aspetta la riforma” QCR 1/2018, Pacini Ed.
[3] Art 312 c.p.p “Nei casi previsti dalla legge, l’applicazione provvisoria delle misure di sicurezza è disposta dal giudice, su richiesta del pubblico ministero, in qualunque stato e grado del procedimento, quando sussistono gravi indizi di commissione del fatto e non ricorrono le condizioni previste dall’articolo 273 comma 2”.
[4] Belardetti A.,”Pazzi criminali liberi”. Nelle Rems non c’è posto La Nazione, 11 giugno 2017 http://www.ristretti.org/Le-Notizie-di-Ristretti/qpazzi-criminali-liberiq-nelle-rems-non-ce-posto
[5] La perizia può essere esperita in fase preliminare come accertamento tecnico di parte disposto dal PM (artt. 359-360 c.p.p.) oppure come incidente probatorio per accertare lo stato mentale della persona che può essere soggetto a modificazione non evitabile (artt. 392-398 c.p.p).
[6] Pompili (2008) La prevenzione del suicidio Fioriti Ed., Roma
[7] Ceretti A. Natali L. (2009) Cosmologie violente. Percorsi di vite criminali, Raffaello Cortina Ed. Milano
[8] Durkheim E. (1897), Il suicidio. Uno studio di sociologia, BUR
[9] Shneidman E., Autopsia di una mente suicida Giovanni Fioriti Ed. 2016
[10] Nivoli G.F. (2005) Il perito e il consulente di parte in psichiatria forense, Centro Scientifico Ed., Torino
Pietro Pellegrini: Direttore Dipartimento Assistenziale Integrato Salute Mentale Dipendenze Patologiche Ausl di Parma Largo Natale Palli 1/B, 43126 Parma, tel. 0521-396624/8, fax 0521-396633, E-Mail <ppellegrini@ausl.pr.it>.