40 anni da Alma Ata. Cure primarie: ora o mai più. di Gavino Maciocco

Nella ricorrenza dei 40 anni della Dichiarazione di Alma-Ata, è giusto e anche doveroso ricordare due medici – Julian Tudor Hart e Barbara Starfield (entrambi recentemente scomparsi) – che da diverse prospettive, differenti ruoli, e anche differenti continenti, hanno contribuito allo sviluppo delle cure primarie e a documentarne i risultati: più salute, più equità, meno costi. E come titolava un Rapporto dell’OMS del 2008, oggi dovremmo ripetere: “Le cure primarie. Oggi più che mai”. (O meglio ancora: “Cure primarie: ora o mai più”.)

Gavino Maciocco

Quando iniziammo le pubblicazioni di questo blog (NDR: www.saluteinternazionale.it), il 26 gennaio 2009, uno dei primi post, scritto da Enrico Materia, fu dedicato a un Rapporto dell’OMS del 2008[1] che – prendendo spunto dai 30  anni trascorsi dalla Dichiarazione di Alma-Ata[2] – s’intitolava: “Le cure primarie. Oggi più che mai” (vedi Primary Health Care: ora più che mai). Di questo post riportiamo di seguito alcuni principali brani:

Tre decenni orsono, sullo sfondo della guerra fredda, 134 Stati membri dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), 67 agenzie internazionali e diverse organizzazioni non governative, riuniti nella conferenza tenutasi ad Alma-Ata, raggiunsero un accordo epocale: adottare la primary health care come prospettiva di riferimento per raggiungere “la salute per tutti” nell’anno 2000.

La strategia di politica sanitaria enunciata ad Alma-Ata coniugava la salute ai diritti umani e alla giustizia sociale per rendere universalmente accessibili i servizi sanitari essenziali. Ampliava il modello medico riconoscendo l’importanza per la salute dei fattori socioeconomici. Dava spazio a soluzioni a livello locale onorando la resilienza, le capacità e il senso d’appartenenza delle comunità. Soprattutto, la primary health care offriva una piattaforma per organizzare l’intero ventaglio dei servizi sanitari, dalle famiglie agli ospedali, dalla prevenzione alla cura, con risorse distribuite con efficienza nei diversi livelli assistenziali.

Le cose poi andarono diversamente. La prospettiva di Alma-Ata fu duramente contrastata dalle istituzioni tecnocratiche internazionali (in primis la Banca Mondiale) e dal soft-power dell’establishment medico, svalutata come utopica, mentre gli approcci selettivi e verticali per il controllo di singole malattie prendevano il sopravvento.

Oggi, dopo anni d’oblio, la primary health care è risorta e il Rapporto 2008 dell’OMS esplicita perché, ora più che mai, vi è bisogno di tornare ad Alma-Ata.

A fronte del miglioramento complessivo dello stato di salute conseguito nelle ultime decadi, le diseguaglianze nella salute sono cresciute sia tra i paesi sia al loro interno. I sistemi sanitari, soprattutto nei paesi poveri, sottofinanziati e costretti a orientarsi verso la privatizzazione e forme deregolamentate di commercializzazione della salute, hanno perso di vista la protezione sociale e l’equità: si stima che più di cento milioni di persone cadano ogni anno in povertà a causa delle spese mediche. L’offerta assistenziale è poi incentrata sugli ospedali e sulle cure specialistiche, frammentata in una miriade di programmi per il controllo di singole malattie, quando la promozione della salute e la prevenzione primaria potrebbero prevenire fino al 70% del carico di malattia.

L’appello “Le cure primarie. Oggi più che mai” lo potremmo rinnovare ai nostri giorni ripensando non solo a Alma-Ata e alla sua dimensione globale, ma anche a ciò che precedette Alma-Ata, ovvero allo sviluppo, subito dopo la seconda guerra mondiale, di sistemi universalistici dotati di una forte componente di cure primarie.

Julian Tudor Hart era ancora studente di medicina quando nel luglio 1948 entrò in funzione il National Health Service; si laureò nel 1952 e nove anni dopo iniziò la sua attività di medico di famiglia (General Practitioner) a Glyncorrwg, un villaggio di minatori nel sud del Galles. J. Tudor Hart di cui recentemente abbiamo parlato a seguito della sua scomparsa (vedi Julian Tudor Hart. Ricerca clinica e passione politica) a buona ragione può essere considerato il paladino e il simbolo delle cure primarie per la passione e la generosità con cui praticava la professione, per il rigore scientifico con cui descriveva i risultati del suo lavoro, per la visione quasi profetica del ruolo delle cure primarie all’interno di un sistema sanitario.

Passione, rigore e visione che ritroviamo per intero in un paper pubblicato su Lancet a firma di Tudor Hart e altri 7 autori, “Twenty five years of case finding and audit in a socially deprived community”[3].

Questa l’introduzione dell’articolo (pubblicato nel 1991, nel pieno delle riforme liberiste del governo Thatcher che interessarono anche la sanità).

Per la salute come per la produzione di beni di consumo la crescita assoluta nasconde il declino relativo. Dal 1980 il Regno Unito occupa il gradino più alto tra i paesi della Comunità europea e della Scandinavia per la mortalità per tutte le cause negli uomini e le donne di età 45-64 anni.

La relazione stretta e causale tra la mortalità, la morbosità e la classe sociale è la principale spiegazione della eccezionalmente elevata mortalità e morbosità nella Scozia, nell’Irlanda del Nord e in parte dell’Inghilterra settentrionale e del Galles meridionale, per tutte le cause, e in particolare per le malattie coronariche. Le diseguaglianze socio-economiche si sono dilatate di pari passo con le diseguaglianze nelle malattie e nella mortalità. Queste differenze sono aggravate dalle crescenti diseguaglianze nelle risorse cliniche disponibili per affrontarle: alimentata dal mercato, prospera la legge sull’assistenza inversa[4]. Come previsto da economisti attenti, il nuovo contratto dei medici di famiglia sta accelerando i precedenti trends, favorendo gli investimenti dei gruppi di medici di famiglia che operano nelle aree più ricche, dove l’assistenza è più facile, e scoraggiando gli investimenti dei gruppi di medici di famiglia i cui guadagni sono più bassi, i cui pazienti sono più poveri e malati, i cui costi sono più alti, e il cui lavoro clinico e più difficile. Come dimostrano gli studi di Cardiff e Ipswich sul diabete non insulino-dipendente, la gestione routinaria della malattia cronica nella medicina generale non si può confrontare con la routine dell’attività ambulatoriale ospedaliera. Per la popolazione generale, vige la regola delle metà (“the rule of halves”[5]), non solo per l’ipertensione ma anche probabilmente per altri rischi per la salute dove la domanda, e anche l’offerta, di servizi è inferiore ai bisogni di salute. Dato un determinato ordine di grandezza, la metà di tutti i bisogni specifici di salute non sono noti, la metà di quelli conosciuti non viene trattata e la metà del trattamento non è efficace. Questo paper descrive un tentativo, durato oltre 25 anni, di contenere o invertire queste tendenze in una piccola comunità valutando le variabili di salute in tutta la popolazione assistita”.

L’esperimento si svolse nella comunità di Glyncorrwg dal 1964 al 1987 e si basò su questa strategia: “Il nostro obiettivo era quello di migliorare la salute dell’intera popolazione identificando precocemente i problemi trattabili, spesso in uno stadio pre-sintomatico e imparando dai nostri errori, andandoli a ricercare sistematicamente, in un ciclo continuo di case finding and audit. (…) Questa strategia pro-attiva dipendeva dal tipo di organizzazione del nostro gruppo e da un sistema strutturato di registrazione dei dati. Le autorità sanitarie locali non si resero conto che la continuità del personale era essenziale per garantire l’aderenza alle cure in una  working class population  e che il personale può imparare solo dall’esperienza dei loro pari nel lavoro quotidiano. Per questo fummo costretti ad assumere e a formare del nostro personale” [6].

L’arruolamento dei pazienti nell’anticipatory health care (“sanità d’iniziativa”) avvenne gradualmente: all’inizio vennero presi in carico gli ipertesi e i fumatori, negli anni 70 i diabetici, negli anni 80 i bronchitici cronici e i pazienti con problemi di alcol (NB: accanto all’attività proattiva il tempo era prevalentemente occupato dall’assistenza ai pazienti sintomatici).

Su un punto metodologico Hart è irremovibile: l’anticipatory health care deve essere svolta all’interno di un contesto clinico (la medicina di famiglia)  dove il tempo è protetto (progressivamente il tempo destinato alle visite passò da 6 a 10 minuti), dove alcune funzioni sono delegate agli infermieri previa adeguata formazione, dove i defaulters (le persone che non si recano ai controlli) sono costantemente seguiti, dove è possibile organizzare gruppi di pazienti con problemi comuni, strumento essenziale per il controllo delle malattie croniche. Vi sono esperienze diverse come negli Stati Uniti dove l’intervento proattivo è affidato ad agenzie ad hoc (vedi “centri per l’ipertensione”), ma qui il drop-out varia dal 20 al 50%, mentre nella comunità di Glyncorrwg è rimasto sempre al di sotto del 10%.

Il bilancio finale di questa esperienza fu decisamente positivo. I risultati più importanti furono la riduzione della mortalità generale (più bassa rispetto a quella di un villaggio vicino dove non si praticava la sanità d’iniziativa), la riduzione della pressione media dei pazienti ipertesi seguiti nel tempo (da 186/110 mmHg a 146/84 mmHg) e la riduzione della percentuale di fumatori (dal 56% al 20%).

A 40 anni dalla Dichiarazione di Alma-Ata è doveroso ricordare anche Barbara Starfield (1932-2011), professore di Health Policy and Management alla Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health, Baltimora (USA). Il Preside della Scuola, Michael J. Klag, la ricorda come “un gigante nel campo delle cure primarie e della politica sanitaria”. Il termine “gigante” è il termine più adatto per rappresentare la statura di ricercatore, di docente e  di difensore di diritti umani di Barbara Starfield.  Negli ultimi dieci anni due sono i principali temi su cui si è concentrata la sua attività di ricerca e di riflessione politica: il ruolo delle cure primarie nei sistemi sanitari e la gestione delle malattie croniche nell’ambito delle cure primarie.

Tre suoi fondamentali paper, pubblicati tra il 2002 e il 2005[7,8,9], sono dedicati allo studio della relazione  tra “forza” del sistema delle cure primarie e risultati in termini di salute, di equità e di efficienza.   Queste, in sintesi le conclusioni:

Sistemi sanitari con all’interno “forti” sistemi di cure primarie sono associati a una migliore salute della popolazione; gli indicatori presi in considerazione sono:   a) la mortalità per tutte le cause; b) la mortalità prematura per tutte le cause; c) la mortalità prematura causa-specifica per broncopneumopatie e  malattie cardiovascolari. Le evidenze dimostrano inoltre che le cure primarie (a differenza di sistemi basati sull’assistenza  specialistica) garantiscono una più equa distribuzione della salute nella popolazione. Più forti sono le cure primarie più bassi sono i costi.   [I paesi con più forti sistemi di cure primarie  sono, secondo gli Autori : Regno Unito, Danimarca, Spagna, Olanda, Italia, Finlandia, Norvegia, Australia, Canada e Svezia].

Il suo ultimo articolo, pubblicato alla vigilia della sua scomparsa, The hidden inequity in health care[10], è dedicato ai problemi della multimorbosità e al ruolo richiesto alle cure primarie nella gestione della cronicità. Scrive al riguardo la Starfield:

Abbiamo bisogno di linee guida adatte per l’assistenza focalizzata sulle persone piuttosto che sulla malattia. Solo i medici di famiglia possono comprendere ciò, perché essi non si occupano dei singoli organi, come fanno gli specialisti, e perché ogni giorno sperimentano questa realtà nel loro lavoro. Per questo i medici di famiglia devono difendere i sistemi sanitari basati sulle cure primarie, perché questa è l’unica speranza per ottenere una maggiore equità attraverso appropriati interventi medici.  Essi hanno anche un’altra responsabilità, che è quella di richiamare l’attenzione sulla follia di fornire l’assistenza in modo verticale, malattia per malattia. E’ tempo che i medici di famiglia prendano l’iniziativa per muovere l’assistenza medica laddove ci sono i bisogni; per assistere i pazienti e le popolazioni e non le malattie. Tutto ciò non solo è biologicamente corretto, ma anche più efficace, più efficiente, sicuro e più equo.

Ed è motivo di speranza che – a 40 anni da Alma-Ata – molti giovani medici italiani si siano mobilitati per lanciare una campagna dal titolo “2018 Primary Health Care Now or Never.

Bibliografia

  1. The World Health Report 2008: Primary Health Care, Now More Than Ever [PDF: 3,7 Mb]. Geneva: WHO, 2008
  2. Declaration of Alma-Ata. International Conference on Primary Health Care. Alma-Ata, URSS, 6-12 settembre 1978 [PDF: 12 Kb]. Geneva: World Health Organization, 1978 (Health for All Series N° 1).
  3. Hart JT et al. Twenty five years of case finding and audit in a socially deprived community [PDF: 3 Mb]. The Lancet 1991; 302-1509-13.
  4. Hart JT. The inverse care law[PDF: 2 Mb]. The Lancet, 27 February 1971, 406-412.  PDF
  5. Smith WCS et al. Control of blood pressure in Scotland: the rule of halves [PDF: 2 Mb]. BMJ 1990; 300: 981-3 PDF
  6. Nella nota finale dell’articolo si riferisce che dal 1974 il gruppo ricevette generosi finanziamenti da varie fondazioni
  7. Starfield B, Shi L.  Policy relevant determinants of health: an international perspective. Health Policy 2002; 60: 201–218.
  8. Macinko J, Starfield B, Shi L. The Contribution of Primary Care Systems to Health Outcomes within Organization for Economic Cooperation and Development (OECD) Countries, 1970–1998. [PDF: 197 Kb] HSR: Health Services Research 2003; 38:3, 831-865.
  9. Starfield B, Shi L, Macin

 

Fonte: saluteinternazionale.info

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