La spesa assistenziale in Italia. Dati, riflessioni, proposte. di Tiziano Vecchiato

(intervista a cura di Fabio Ragaini)

Vorrei partire facendo il punto sul dato della spesa assistenziale. A quanto ammonta la spesa complessiva per l’assistenza. Quanto è trasferimento monetario e quanto spesa in servizi. Siamo anche in grado di stimare la ripartizione di questa spesa tra livello nazionale, regionale e locale?

Tiziano Vecchiato (direttore Fondazione E. Zancan – Padova)

Questa domanda ci mette in grado di capire di cosa stiamo parlando e cioè quanto vale l’assistenza pubblica. Il nostro ultimo rapporto risponde a questa domanda partendo da quando è stato istituito il reddito minimo di inserimento (Rmi), cioè quasi 20 anni fa e ripercorrendo nel tempo quello che è successo con il bonus straordinario per famiglie, lavoratori, pensionati e non autosufficienti, la carta acquisti (“social card”), la nuova social card sperimentale – Sia, il bonus bebé, il bonus famiglie numerose (con 4 o più figli minori), il bonus elettrico e bonus gas, l’assegno di disoccupazione involontaria (Asdi), la riduzione del cuneo fiscale per lavoratori dipendenti e assimilati (cosiddetto “bonus 80 euro”).

Le risorse destinate a questi 9 interventi fino all’anno 2015 hanno raggiunto e superato i 19,1 miliardi di euro1. Sono valori di spesa “prudenziali” perché nei casi di grandezze di spesa incerte abbiamo considerato il valore disponibile inferiore. È quindi una quantità sottostimata e aggiuntiva rispetto alla spesa pubblica assistenziale di natura strutturale. I 19,1 miliardi di spesa stimata per questi 9 interventi sono infatti molto inferiori rispetto alle risorse che il sistema di welfare italiano indirizza annualmente all’insieme delle misure strutturali, rivolte a diversi gruppi di destinatari con criteri categoriali (persone con invalidità, anziani, famiglie…). Tra queste, sono particolarmente rilevanti le prestazioni pensionistiche di tipo assistenziale (prestazioni per invalidi civili, ciechi civili e sordi, pensioni di guerra, pensioni/assegni sociali e integrazioni al minimo delle pensioni) e gli assegni familiari.

Nel dettaglio2, la spesa per l’insieme delle prestazioni agli invalidi civili, ai non vedenti e ai non udenti era 17,3 miliardi di euro nel 2015 e 83,3 miliardi complessivi nel quinquennio 2011-2015; la spesa per le “pensioni di guerra” (trattamenti erogati dallo Stato come risarcimento ai militari e ai civili che hanno subito menomazioni o sono deceduti per causa di guerra) era circa 600 milioni di euro nel 2015, oltre 3,5 miliardi nel periodo 2011-2015; la spesa per le pensioni e gli assegni sociali (prestazioni erogate dall’Inps ai cittadini anziani ultrasessantacinquenni con reddito inferiore a determinate soglie di legge) vigenti a inizio 2015 superava i 4,6 miliardi, complessivamente è stata pari a 21,7 miliardi sul quinquennio 2011-2015. La spesa per le integrazioni al minimo delle pensioni (erogate ai percettori di pensioni previdenziali con redditi inferiori a specifiche soglie di legge) vigenti a inizio 2015 ammontava a oltre 9,9 miliardi, in totale 54,1 miliardi nel quinquennio 2011-2015. Infine, la spesa per assegni familiari (interventi a sostegno del reddito delle famiglie di diverse categorie di lavoratori) era quasi 6,3 miliardi nel 2015, circa 31,4 miliardi totali nel periodo 2011-2015.

Non prendiamo qui in considerazione il valore delle oltre 400 forme di agevolazioni fiscali per costi di natura sociale (agevolazioni per mutuo prima casa, costi per visite mediche, contributi per colf e badanti…) con risultati che vanno ai quasi poveri e ai benestanti, perché i poveri non possono affrontare certe spese e beneficiare di sconti fiscali non progressivi.

Anche il “bonus 80 euro” è un trasferimento pubblico, introdotto nel 2014 per la “riduzione del cuneo fiscale per lavoratori dipendenti e assimilati”. È stato reso definitivo con la Legge di stabilità 2015 (art. 1, c. 12 della Legge 23 dicembre 2014, n. 190). Secondo le stime dell’Istituto nazionale di statistica, appena un terzo della spesa per il bonus va a beneficiari con famiglie collocate nei due quinti più poveri della distribuzione del reddito, mentre metà va a beneficiari in famiglie con redditi medi e medio-alti. Dalle dichiarazioni dei redditi presentate nel 2015 con riferimento all’anno di imposta 2014, il bonus riconosciuto nel 2014 a partire dal mese di maggio si è aggirato attorno ai 6 miliardi di euro e in proporzione si può stimare una spesa totale di circa 15 miliardi di euro complessivi sul biennio 2014-20153.

A questo sforzo si aggiunge la spesa dei più rilevanti interventi di sostegno al reddito di persone e famiglie “povere” attivati negli ultimi anni in 12 regioni e province autonome: Valle d’Aosta (Contributo integrativo al minimo vitale, Azioni d’inclusione attiva e sostegno al reddito), Lombardia (Reddito di autonomia), P.A. Trento (Reddito di garanzia), P.A. Bolzano (Reddito minimo di inserimento), Friuli-Venezia Giulia (Reddito di base, Misura attiva di sostegno al reddito), Emilia-Romagna (Reddito di solidarietà), Lazio (Reddito minimo garantito), Molise (Reddito minimo di cittadinanza), Campania (Reddito di cittadinanza), Puglia (Reddito di dignità), Basilicata (Cittadinanza solidale, Copes – azione di contrasto alla povertà esclusione sociale, Reddito minimo di inserimento), Sardegna (Reddito di inclusione sociale). Sommando i valori delle risorse finanziarie stanziate e/o spese per tutti questi interventi, nei periodi temporali di riferimento, l’ammontare complessivo supera 1 miliardo di euro.

A questi valori va aggiunta la spesa comunale per interventi e servizi sociali di circa 7 miliardi di euro. Nel 2014 la spesa assistenziale era intorno ai 59 miliardi di euro, quasi 1000 euro pro capite. Non si può dire quindi che la spesa strutturale per il contrasto della povertà sia bassa o non in linea con quella europea. Per questo chi sostiene che il Rei è il primo passo verso l’inclusione delle persone e famiglie povere non dice la verità. È certamente un “ulteriore” passo che in termini percentuali vale molto poco rispetto ad uno sforzo complessivo che si porta dietro molte contraddizioni che non vengono affrontate.

L’altra questione è quanto di questa spesa (e perché) che ha per obiettivo di sostenere i redditi bassi finisce invece in un trasferimento a cittadini i cui redditi “non hanno bisogno di essere sostenuti”.

Un esempio di trasferimento a cittadini i cui redditi “non hanno bisogno di essere sostenuti” è l’integrazione al minimo delle pensioni e lo stesso vale per altre misure non condizionate dalla prova dei mezzi. In sostanza si opera facendo “parti uguali tra disuguali” accettando il rischio di dare per diritto anche a chi non ne ha bisogno. Ad esempio, possiamo stimare che nel 2012 quasi 1 miliardo di euro di spesa per pensioni/assegni sociali e oltre 1 miliardo di euro di spesa per integrazioni al minimo delle pensioni da lavoro, quindi in tutto almeno 2 miliardi di spesa pubblica, sono andati a beneficio di famiglie che non sono in condizione di “bisogno” economico4.

Sono scelte “politiche” che nascono da ragioni in parte finalizzate ad obiettivi sociali, come nel caso delle misure a sostegno della natalità, indipendentemente dal reddito, e in parte finalizzate ad obiettivi elettorali. Questi ultimi impediscono alle forze politiche di mettere in discussione i privilegi gestiti con fondi assistenziali. Se “politicamente” si vogliono mantenere, basta farlo in modo trasparente, liberando la spesa assistenziale da questa contraddizione, creando una nuova categoria di spesa “la giustizia può aspettare”.

La storia del welfare è lastricata da questa contraddizione. Ad ogni sistema di welfare è affidata la lotta alle ingiustizie, lottando anche contro la “giustizia consolidata che non è giusta”. Per questo motivo Paolo VI diceva che la giustizia è misura minima della carità. È anche la ragione che ci ha spinto a proporre un salto strategico di qualità umana nella lotta alla povertà, per passare da un welfare assistenziale a un welfare generativo, basato su azioni a corrispettivo sociale, in concorso al risultato, insieme necessarie per liberare il nostro sistema di welfare dai diritti senza doveri e dai diritti senza (averne) bisogno.

Riguardo, invece, il “bonus da 80 euro”, siamo in grado di quantificare l’entità della spesa annua insieme alla tipologia dei beneficiari? In sostanza chi sono stati (fasce di popolazione) i principali beneficiari di queste risorse, anch’esse da considerare di natura assistenziale ?

I dati li abbiamo visti prima, comportano una spesa assistenziale di circa 9 miliardi di euro all’anno. Chi dice che non è così ma che è una riduzione del cuneo fiscale non tiene conto che è lo stesso “bonus 80 euro” a dichiarare la propria natura: non riduce le tasse sul lavoro ma si accontenta di essere un “bonus” e non per caso l’Istat lo ha classificato nella spesa assistenziale. Politicamente è stato definito un aiuto allo sviluppo e al lavoro.

Niente di male se ha ridotto la “povertà” relativa dei lavoratori a basso reddito che possono consumare di più e/o se ha ridotto la povertà/difficoltà delle aziende che in questo modo possono investire in nuova occupazione, in ricerca, in riposizionamento nei mercati. Ma in entrambi (aziende e lavoratori) abbiamo “assistito”, abbiamo cioè utilizzato la raccolta fiscale per redistribuirla in modo assistenziale a questa categoria di “aventi bisogno”. I poveri senza lavoro non ne hanno beneficiato.

In termini finanziari significa “9 a 2” cioè 9 miliardi per il bonus e circa 2 miliardi per il futuro Rei comprensivi anche di risorse per i servizi. È infatti necessario (e lo sarà ancora di più) ridurre le difficoltà delle professioni sociali, costrette a gestire pratiche “accertative”, che per loro natura assorbono tempo burocratico e impediscono l’azione professionale necessaria per sviluppare relazioni efficaci con le persone.

La Fondazione E. Zancan ha assunto una posizione critica rispetto agli interventi che si sono succeduti in tema di lotta alla povertà. Da ultimo sul SIA (Sostegno inclusione attiva). Ora a seguito dell’approvazione della legge (33/2017) delega che rappresenta il primo strutturale strumento di contrasto alla povertà, qual è la vostra valutazione e dunque la vostra posizione?

Una prima considerazione è che tutto quello che si fa per contrastare la povertà “per definizione” è buono, ma non è detto che “serva” cioè che sarà efficace. Se fosse stato “buono ed efficace”, i miliardi di risorse destinate a questo obiettivo avrebbero conseguito risultati significativi che invece non ci sono. Il principale risultato è invece “gestione della cronicità assistenziale”, che però i poveri non apprezzano, non la considerano un traguardo per uscire dalla povertà perché continuano a rimanerci. In questi casi non è corretto parlare di “lotta alla povertà” ma piuttosto di “gestione della povertà di lungo periodo”, di “gestione della cronicità assistenziale”. È un problema tragico che riguarda milioni di persone e famiglie che l’Istat ogni anno quantifica in crescita, non in diminuzione. È la differenza tra lottare contro la povertà e convivere con essa, gestendo misure assistenziali che si rivelano inadeguate a questa sfida.

La posizione critica nasce assistendo agli approcci ideologici che ancora oggi (come nel secolo scorso) promettono tanto, realizzano poco, costano molto. Fanno comodo alla politica perché garantiscono consenso. Finché sarà così non si andrà lontano, continueremo a bruciare risorse utilizzabili molto meglio. Se ad esempio confrontiamo i circa 9 miliardi destinati alla “misura 80 euro con i quasi 2 miliardi destinati al Rei (tenendo conto che “destinazione” non è effettiva erogazione) siamo lontani dalla giustizia che fa cose giuste, che servono, che affrontano in modo efficace il problema.

Per questo chi sostiene che questa è “la prima misura strutturale” non considera le diverse misure strutturali in atto da anni, come le già richiamate integrazioni al minimo delle pensioni (valgono tra 9 e 10 miliardi – di cui circa 5 miliardi per integrazioni delle pensioni da lavoro – e circa l’80% riguardano pensionati poveri), gli assegni familiari a vantaggio di lavoratori a basso reddito con figli e altre misure “strutturali”. La L. 328/2000 sapeva che è così e, proprio per questo, aveva previsto il superamento delle frammentazioni categoriali. In altri paesi che garantiscono dei “redditi universali” il loro valore è molto meno delle erogazioni strutturali e assistenziali del nostro paese.

Una critica che viene fatta alle nostre misure categoriali è che non sono abbastanza universali, come se il termine categoriale fosse di per sé negativo. Tecnicamente identifica un target specifico con elevata probabilità di rischio di povertà e/o di bisogno di aiuto. L’indennità di accompagnamento è stata introdotta per proteggere la “categoria” delle persone che socialmente avevano molte difficoltà ad accedere alle risposte di welfare “universali” cioè per tutti, perché erogate in “regime di parti uguali tra disuguali”. Da qui il termine “indennità di accompagnamento” cioè indennizzo per la difficoltà di superare le barriere nell’accesso ed è quindi una misura strutturale anche per questa ragione. Oggi non è detto che indennizzare le persone ricche con disabilità sia ancora proponibile come in passato, perché in questo modo si riproduce la contraddizione delle parti uguali tra disuguali. Va quindi evitato l’analfabetismo di welfare che fa sembrare innovativa l’ultima misura che si aggiunge a quelle esistenti.

Percentualmente è una “piccola parte del tutto assistenziale”. Purtroppo il Sia non è stato utilizzato per superare una parte delle frammentazioni assistenziali di tipo categoriale. È un’aggiunta, che sotto questo profilo non fa quello che si poteva fare e cioè mettere a sistema le diverse capacità di aiuto, evitando gli opportunismi, i diritti senza bisogno, le duplicazioni di aiuti, un insieme di misure che alimentano gli approcci burocratici e dissipativi delle non poche risorse a disposizione. Potrebbero essere utilizzate più efficacemente per lottare “contro la povertà”, andando finalmente oltre la “gestione della cronicità assistenziale”.

Una ragione per sostenere che il futuro Rei non è una misura strutturale nasce dalla constatazione che non affronta contemporaneamente anche il grande problema, questo sì “strutturale”, dei deficit sistematici di forza lavoro necessaria, da garantire nei territori privi dei servizi necessari per lottare contro la povertà, con professionalità in grado di trasformare la spesa da costo a investimento sociale. Le risorse attribuite a questo obiettivo sono insignificanti se valutate sul piano strutturale, cioè nell’ordine di poche centinaia di milioni di euro. Vanno quindi superati gli approcci di paternalismo istituzionale che invece di investire in un sistema di servizi equamente distribuito nei territori si affidano a “piani personalizzati” di lotta alla povertà senza avere le capacità sartoriali per fare vestiti su misura. Non è con le carte da compilare che si affronta una sfida così impegnativa, ma con incontri di responsabilità e capacità, verifiche di esito e di impatto sociale.

Finché non sarà così i poveri non avranno i benefici che l’Istat misurerà nei prossimi 5 anni in termini di riduzione del problema. In questo modo la lotta alla povertà continuerà ad essere strutturalmente connivente con il populismo e le promesse ideologiche tipiche del vecchio welfare. Chi si accontenta sarà in grave difficoltà nel dirsi soddisfatto di quanto ha proposto e troverà modi per rivendicare e concertare altre misure congiunturali.

Nel nostro rapporto insieme con le analisi proponiamo anche alcune soluzioni impegnative. Ad esempio un primo passo è mettere a rendimento fonti di risorse che remunerano diritti a basso rendimento sociale: tra questi gli assegni familiari (circa 6 miliardi di euro), le integrazioni al minimo delle pensioni (tra i 9 e i 10 miliardi di euro), le indennità di accompagnamento (circa 11 miliardi di euro). Va cioè evitato in ogni modo che il prossimo piano nazionale di lotta alla povertà si riduca ad accompagnamento di una misura, il Sia/Rei. Se sarà così continueremo a confondere la parte con il tutto.

 

1 Fonte: elaborazione della Fondazione Emanuela Zancan su dati di varie fonti.

2 I valori di spesa citati di seguito sono di fonte Istat (Conti della Protezione sociale, http://dati.istat.it/) o Inps (www.inps.it), con elaborazioni della Fondazione Emanuela Zancan.

3 Dettagli su questi dati si possono trovare nel capitolo 7 del Rapporto 2017 curato da Maria Bezze e Devis Geron.

4 Ulteriori dettagli sulle prestazioni pensionistiche citate e su altre fonti di spesa pubblica che remunerano “diritti discutibili con modi discutibili” si possono trovare nel capitolo 12 del Rapporto 2017.

Tiziano Vecchiato è il Direttore della Fondazione E. Zancan, Padova

Fonte: “Appunti sulle politiche sociali”, n. 3/2017 http://www.grusol.it/appuntiN.asp

 

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