- Sono passati tre anni dalla morte del piccolo Alan Kurdi su una spiaggia turca. Allora la sua morte provocò un’ondata di sdegno, oggi i messaggi sui social sono di odio o addirittura di negazione, i bambini sarebbero bambolotti. Che cosa è successo, perché questa inversione dei sentimenti?
Non basta indignarsi, bisogna trasformare l’indignazione in sentimento e il sentimento in impegno e responsabilità. Altrimenti tutto si gioca sul filo incerto delle emozioni. Abbiamo due strade per crescere: le relazioni e la conoscenza. Se siamo arrivati a questo punto è anche perché abbiamo smesso di percorrerle: siamo diventati una società di relazioni soprattutto opportunistiche e d’interesse: l’“altro” è complice oppure nemico. Ma anche una società culturalmente alla deriva: prevale l’informazione di seconda mano, il sentito dire, le semplificazioni, gli slogan, e da lì la manipolazione, le bufale, la propaganda. Cresce così l’ignoranza e di conseguenza l’odio, perché si odia ciò che non si conosce.
- Gli slogan usati dal ministro Salvini che sembrano aver fatto breccia sono “Stop invasione”, “Aiutiamoli a casa loro”, “Prima gli italiani”. Come replicherebbe a queste affermazioni?
Con gli slogan non si ragiona e nemmeno si può discutere. Sono semplificazioni che riducono o manipolano la realtà, facendone vedere solo un aspetto. Penso che chi ha responsabilità politiche dovrebbe ragionare e aiutare a ragionare, soprattutto quando si parla di problemi che toccano la vita di milioni di persone.
- L’Istat ha certificato il numero record di 5 milioni di poveri in Italia. Pensa che esista una correlazione tra la crescente insofferenza verso gli immigrati e l’impoverimento del Paese?
È evidente che esiste, ed è comprensibile l’insofferenza e lo smarrimento delle persone più deboli. I colpevoli però non sono gli immigrati. Colpevole è un sistema politico-economico che causa conflitti in mezzo mondo, sfrutta e depreda i territori, costringe milioni di persone ad abbandonare case e affetti. Le grandi migrazioni sono di fatto deportazioni indotte.
- Le Ong sono passate in pochi mesi da angeli del mare a vice scafisti. Come giudica la politica di chiusura dei porti da parte italiana mentre in quattro giorni abbiamo contato tre naufragi e decine di vittime?
Il dovere di accoglienza e di soccorso è la base della civiltà. Se viene meno, l’emorragia di umanità rischia di diventare inarrestabile. Tanti italiani questo dovere ce l’hanno scritto nella coscienza. Penso ad esempio a quel sindaco di Bardonecchia, Mauro Amprino, che nel 1948, di fronte ai tanti immigrati meridionali diretti in Francia e lasciati morire tra le nevi, fece affiggere un manifesto per esortare le guide a una maggiore umanità: «Anche se compite azione contraria alla legge, sappiate compierla almeno obbedendo alla legge del cuore, scegliendo condizioni di clima non proibitive e non abbandonando i disgraziati a metà strada».
- Una delle affermazioni più diffuse è: meno ne partono meno ne moriranno. Cosa ne pensa?
Un esempio di cinismo e di ipocrisia, dal momento che sappiamo dove vanno a finire i migranti bloccati in Libia o in Turchia. Degli accordi con questi Paesi per impedire l’immigrazione, l’Occidente e l’Europa dovranno un giorno rendere conto alla storia.
- Dopo i porti si blindano anche le frontiere europee; chiusura e paure non sono un fenomeno solo italiano. Il sogno di una Europa aperta e solidale e finito o non è mai esistito?
Certo che è esistito, e prima che si parlasse di Unione Europea. La storia dell’Europa moderna inizia da tre parole: libertà, uguaglianza, fraternità. Non era un sogno. Milioni di persone hanno lottato e sono morte per realizzarlo. L’Europa deve guardarsi allo specchio e riscoprire il suo vero volto. Ci sono tanti europei che continuano a sognare un’Europa di cui non si possa pensare – come ha detto il Papa – che «il suo impegno per i diritti umani è stato la sua ultima utopia».
- Una ricetta non esiste, purtroppo, ma quali sarebbero secondo lei le prime azioni da intraprendere per governare il fenomeno ?
In esterna sintesi: riscrivere la convenzione di Dublino, perché un’Europa non corresponsabile è solo un aggregato tecnico di nazioni. Impostare politiche d’inclusione che sappiano coniugare accoglienza e sicurezza. Modificare strutturalmente un sistema economico che produce a livello globale disuguaglianza, povertà dunque migrazione. E, contestualmente, creare le condizioni perché chi vive in Africa e in altre regioni del mondo che abbiamo sfruttato e colonizzato, possa farlo con dignità.
- Quale messaggio vuole lanciare con l’iniziativa di sabato?
Rosso significa sosta. In questo caso il rosso delle magliette significa riflessione, desiderio di guardarci dentro, di porre fine a questa perdita di umanità. Ma anche di progettare e organizzare il dissenso, tradurlo in fatti concreti. In un’epoca di abuso di parole anche quelle vere non bastano più.
Intervista del presidente nazionale di Libera in vista dell’iniziativa nazionale del 7 luglio al Gruppo Espresso, 6 luglio 2018
Fonte: LIBERA