Questo libro si interroga su come sia possibile mettere insieme un’organizzazione sensibile a rilevare i bisogni, a creare delle reti. Le storie che racconta sembrano dire che i servizi cresciuti nella città e nelle periferie di Trieste, i Distretti e leMicroaree, non sono lì a guardare dall’esterno, ma diventano parte della storia delle persone, entrano dentro la loro quotidianità fino a costituire pezzi di soggettività che emergono dai racconti.
I servizi a Trieste sono nati da una storia che viene da lontano. La storia della trasformazione dell’assistenza psichiatrica che ha ricollegato l’esistenza delle persone ai mondi quotidiani, lavorando in profondità su quella che oggi chiamiamo la “capacitazione” dei soggetti. In seguito è stato possibile estendere queste pratiche alle altre branche della medicina organizzando servizi per accogliere persone con diabete, disturbi cardiovascolari, malattie tumorali e pneumologiche, gli anziani che rischiano la solitudine e l’emarginazione.
Si è venuto configurando una riflessione e una pratica che vede nelterritorio una parte essenziale dell’oggetto del lavoro, dove “territorio” è inteso come habitat e sistema di relazioni che attorno alla malattia si giocano.
Il libro segnala esperienze significative che potrebbero diventare un modello trasferibile in specifiche aree del Paese a particolare concentrazione di svantaggio sociale e sanitario. Collocazione strategica di risorse e operatori che rendono possibile, pur nella ruvidezza del quotidiano, incontrare le persone e non la malattia.
La narrazione della storia delle persone è forse la parte più originale ed emozionante del testo. La finalità del progetto era quella di conoscere quasi uno a uno gli abitanti dei rioni. La malattia, colta dentro la vita e non dentro un letto di ospedale assume una dimensione relativa, non totalizzante.
“Quando curi il malato nella sua casa sei obbligato a vedere dove abita, chi o che cosa gli sta attorno. Non puoi curarlo senza incontrare i familiari o i vicini e non puoi non accorgerti se intorno non c’è nessuno. Il mondo in cui il soggetto vive, entra nel taccuino delle note.”
Mettere al centro il capitale sociale delle comunità locali, connettendo le risorse delle persone con quelle delle istituzioni: è questa la sfida della “città che cura”, una città capace di trovare risposte ai bisogni individuali, affrontandoli come laboratori di risposte a problemi e domande collettive. Non è una sfida assurda ma una prospettiva concreta, che potrà arricchirsi nei prossimi anni se i distretti sanitari e i servizi sociali diventeranno luoghi aperti, istituzioni, da inventare ogni giorno, mobili e flessibili entro cui organizzare risposte intersettoriali e coordinate ai bisogni di salute.
Il libro è composto da una parte di interviste agli operatori delle Microaree che alternano il racconto di singole storie a parti più generali sul loro lavoro. Nell’ultima parte del libro sono riportate due tavole rotonde “Storia di donne” e “L’uomo che non sapeva chiedere”, riflessioni sulle scelte che gli operatori hanno fatto per singolarizzare il loro intervento, per riconoscere e valorizzare la specificità di genere.
Lavorare per Microarea vuol dire avviare un processo conoscitivo su due piani paralleli: da un lato mappare le risorse esistenti in un determinato territorio, rilevando le condizioni abitative e le capacità delle persone di convivere, avendo o meno accesso a una serie di opportunità; dall’altro mettere a punto una cartografia dei bisogni sanitari raccogliendo informazioni sul campo, parlando con gli abitanti, frequentando i luoghi, esaminando i dati statistici.
Il libro: “La città che cura. Microaree e periferie della salute”, a cura di Giovanna Gallio e Maria Grazia Cogliati Dezza, edizioni alpha beta Verlag, Merano.
Fonte: Disuguaglianze di salute