Ha fatto molto bene l’editore Alphabeta di Merano a proporre quest’anno nella collana 180 (e dove sennò?) diretta da Peppe Dell’Acqua con consulente Pier Aldo Rovatti il libro postumo di Antonio Slavich All’ombra dei ciliegi giapponesi[i]. Gorizia 1961. Ha fatto bene per tre ragioni.
La prima è che, con questo testo, scopriamo come se si trattasse della ricerca della sorgente di un fiume la sorgente prima della Legge 180, la legge che chiude il manicomio. Che non nasce ovviamente nel 1978, anno della sua approvazione in Parlamento sulla base di un accordo tra politici, come è logico che sia per una legge. Ma non nasce neppure nel 1971, l’anno in cui Franco Basaglia arriva a Trieste deciso a dare quella spallata definitiva al manicomio che a Gorizia non era stata possibile. E neppure, come personalmente ritengo, nel 1964, l’anno in cui Basaglia sostiene pubblicamente in un congresso che l’ospedale psichiatrico dev’essere distrutto. Nasce – Slavich ci dice – subito dopo quel 16 novembre 1961 quando un uomo solo, proveniente dall’Università, mise per la prima volta piede nell’ospedale psichiatrico, che avrebbe da quel momento in poi diretto, per il primo giro dei reparti: «ciò che Basaglia avrebbe visto era prevedibile, ma i suoi occhi sensibili non vi erano ancora preparati» (p. 33).
La presa d’atto immediata della miseria della condizione del malato nell’ospedale psichiatrico e il disegno di distruggere quel luogo all’interno del quale essa si era prodotta furono dunque, per quell’uomo sensibile al dolore dell’altro e all’ingiustizia, tutt’uno. E quando Slavich, che era stato suo allievo all’Università di Padova sotto la direzione di Giovanni Battista Belloni, lo raggiunse a Gorizia una domenica dell’inizio del marzo successivo, il rigetto dell’ospedale psichiatrico aveva per lui già avuto luogo. Si trattava ora di mettere mano al lavoro, conquistando metro per metro quel piccolo ospedale per liberarlo e dimostrare così, in primo luogo a se stessi, che l’ospedale psichiatrico poteva essere distrutto.
Il libro di Antonio Slavich – del quale ho avuto il grande privilegio di essere stato forse l’ultimo degli allievi, il più giovane, a Genova – è dunque innanzitutto prezioso perché ci porta – con un’attenzione per i dettagli che nasce dalla consapevolezza di essere, dei primi anni di lotta, morto Basaglia l’ultimo testimone – a ripercorrere passo passo la lotta faticosa con la quale, a partire dal primo momento nel quale il direttore è solo, giorno dopo giorno il gruppo cresce, a volte convincendo e a volte vincendo, passando dall’essere sparuta minoranza all’egemonia.
La seconda ragione per la quale questo libro è prezioso è la capacità di farci ripercorrere, quasi giorno per giorno, una storia nata sì da un rifiuto ma sviluppatasi senza un piano preciso, e forse anche con un po’ di fortuna, dai primi gesti spontanei in favore di piccoli gruppi di malati chiusi in un piccolo ospedale psichiatrico di periferia, fino a diventare emblema nel mondo della lotta al manicomio. Come nacquero, uno per volta, uno dietro l’altro, gli strumenti pratici e i concetti che formano oggi l’essenza della teoria e della pratica della deistituzionalizzazione: l’abbattimento dei muri, il rifiuto della contenzione, l’assemblea, un modo diverso di stare insieme personale e malati. Atti ripetuti in migliaia di esperienze diverse, nelle quali è stato ogni volta necessario ripartire dall’inizio. Alcune più fortunate, altre fermatesi sul nascere perché l’istituzione, l’oppressione, talvolta la stupidità sono state più forti.
Il libro, però, non è solo importante perché ci spiega come tutto ebbe inizio e, passo passo, come si sviluppò; lo è anche per una terza ragione. Perché questa sorta di mito delle origini della nuova psichiatria italiana, finalmente raccontato nel suo svolgersi quotidiano, non è solo un evento di interesse storico ma è destinato a ripetersi – e chi scrive lo sa bene a prezzo di qualche amarezza – ripartendo ogni volta da zero e con la stessa fatica, le stesse amarezze di allora ogni volta che ci poniamo l’obiettivo di liberare un’istituzione dalle incrostazioni manicomiali che può avere assunto negli anni, qualunque sia la legge vigente. Un’incrostazione che è fatta sempre di un misto dolciastro di paternalismo; granitica certezza nel proprio sapere fatto in parte di pregiudizi sul fenomeno misterioso della follia nel suo darsi ogni volta singolare e diverso, e sul modo migliore di affrontarlo; inattaccabile e inconfessata convinzione della di un guardare dall’alto in basso di chi cura rispetto a chi viene curato; inconfessabile difesa di piccole sicurezze, comodità, privilegi; imboscate e piccole astuzie istituzionali; e a volte, più raramente, anche aperta violenza. E soprattutto di una resistenza rocciosa al mettersi in gioco e provare a cambiare sul serio.
La “Legge Basaglia” non ha vinto, non può vincere mai in modo definitivo; si tratta ogni giorno di riaffermarla con fatica ritrovando la stessa determinazione di quel momento primigenio, l’impatto di un uomo contro l’istituzione a Gorizia che gli ha fatto dire: io non firmo, io non ci sto!
E da quel giorno comincia questa storia, fatta di vittorie e più spesso di sconfitte e destinata a ripetersi ogni volta sostanzialmente uguale.
Slavich era già stato incaricato di una sintesi dell’esperienza goriziana cinquant’anni fa, nel capitolo Mito e realtà dell’autogoverno de L’istituzione negata. Ma qui, a tanti anni di distanza, non gli è richiesta la sintesi che toglie il gusto dei dettagli che rendono viva, reale un’esperienza, e poi c’è spazio per l’elemento affettivo del ricordo (del riportare al cuore), che – al di là di uno sforzo evidente di obiettività testimoniato anche dalla scelta della terza persona – in molti punti traspare.
E così incontriamo le prime curiosità, di Basaglia e sue, per la fenomenologia con il suo distacco per un anno a Wurzburg presso Erwin Straus e l’incontro diretto con Viktor von Gebsattel. E poi ritrovarsi dal marzo 1962, maestro e allievo, soli in quello spazio estraneo e nemico: «L’interno degli otto reparti, da 50 o da 100 letti, era verniciato a olio (marroncino o verdone) e arredato con qualche panca e pesanti tavolacci; vi stazionavano qualche divisa bianca, non proprio immacolata, e più di 600 corpi infagottati in tela, grigi e rapati. Nei due reparti A accettazione i corpi stavano in prevalenza a letto, alcuni legati; nei due reparti B agitati molti erano contenuti a letto nelle celle. Nelle belle giornate, che a Gorizia erano frequenti anche a novembre, era il tempo delle lunghe ore d’aria: e allora tutti dovevano stare a rabbrividire nei cortili, alcuni ingabbiati, alcuni – specie al B – anche legati agli alberi, i più stesi per terra lungo i muri, o sulle panche di pietra, o ambulanti in un moto perpetuo e senza meta. Il sommesso brusìo e lo scalpiccio erano assordanti, ma in quella mattina di sole qualcuno, forse per compiacere il nuovo direttore, aveva acceso gli altoparlanti, da cui Mina urlava: “Tintarel-la di luu-naaaaa! Tintarella color laat-teeeeee!”. Persino Franco fu colpito dal contrasto stridente e ne sorrise, come in seguito raccontò lui stesso a Slavich con la consueta ironia» (p. 33).
Come non ritrovare in questa descrizione la scena dell’ingresso di molti di noi in manicomio, anche molti anni dopo la legge 180; il manicomio era sempre lì e l’impressione la stessa.
Da questo sguardo d’insieme l’obiettivo per i due diviene subito quello di raggiungere ogni singolo malato, restituirgli la storia personale, conoscerlo come persona, e quindi rompere in primo luogo con la tendenza all’omologazione e alla serialità. E poi, una volta scoperta la persona, cominciare a rompere con la prassi dell’incombere della pericolosità e dell’esclusione: i primi viaggi in automobile, insieme con il malato. Un giorno sarebbe stato l’aeroplano come una foto famosissima di Basaglia e dei suoi matti all’imbarco ci ricorda: ma quelle prime uscite su una 500, delle quali non abbiamo la fotografia, sono state il vero punto di rottura, l’inizio modesto e in piccolo della storia che Slavich si propone qui di riportare alla luce.
Poi si parla degli psicofarmaci, usati certo con rispetto ma introdotti da Basaglia là dove ancora non erano; della definizione, per la prima volta al XXVIII congresso SIP di Napoli del ’63, da parte di Slavich e degli altri due giovani medici che si erano aggiunti per formare la prima pattuglia dei fedeli del direttore – Leopoldo Tesi e Maria Pia Bombonato – di ciò che stavano facendo come “deistituzionalizzazione”, cioè liberazione del malato da quella che Russel Burton, un autore che ricorre negli scritti di Basaglia in quegli anni, definiva institutional neurosis. “Deistituzionalizzazione”: un faticosissimo nuotare controcorrente che da allora avrebbe segnato il discrimine tra una psichiatria “democratica” – che è facile tacciare di anarchia – e una psichiatria fine soltanto alla conservazione del proprio ordine, che è l’ordine della rigidità e dell’esclusione.
Già a settembre del ’62, poi, le prime aperture dei reparti, e i malati increduli che esitano ad uscire. Siamo ai primi di dicembre e cade la prima delle reti che circondavano i reparti; immaginiamo l’emozione di quell’attimo, e Zavoli monterà un giorno quelle immagini destinate alla celebrità ne I giardini di Abele. Chissà se in quel momento, in quel piccolo ospedale di periferia, Basaglia e i suoi immaginavano quante altre reti sarebbero cadute in Italia e nel mondo negli anni a venire dietro a quella. L’ultima recinzione, comunque, a Gorizia sarebbe stata abbattuta solo cinque anni dopo, a conferma del fatto che non fu certo tutta una marcia trionfale. Intanto la vita nei reparti veniva trasformata con gesti materiali, quelli che Racamier ha chiamato le azioni parlanti, molto più efficaci a volte delle parole: compaiono i piatti, le posate, i mobili – oggetti “pericolosi” – viene individualizzato il vestiario, l’estetica degli ambienti diventa un elemento essenziale per far sì che la miseria e omologazione non si rispecchi nella percezione miserabile di sé degli internati.
Questo dell’estetica dei luoghi è un tema centrale delle pratiche che si ispirano a Basaglia, e mi ci voglio fermare. Confesso che a vent’anni, quando conobbi Slavich, a me, che venivo dal “movimento” e dalla contestazione di tutto ciò che era “borghese”, ne sfuggiva senz’altro l’importanza. Ma negli anni mi colpì l’orgoglio con il quale Antonio mi mostrò i lavori ultimati per la sistemazione elegante in un’enorme divisione dismessa del Nuovo istituto di Quarto del “Centro socioterapico Franco Basaglia”; e quello con cui, nello stesso periodo, mi presentò i nuovi locali, ricavati nel Vecchio istituto, per il Centro diurno dei pazienti territoriali. Mobili scelti uno a uno, con attenzione e con gusto come se si trattasse di arredare casa propria. E poi mi colpì, negli anni successivi, ritrovare la stessa attenzione all’estetica, che forse doveva nascere in questi casi dallo stesso maestro che l’aveva trsmessa ad Antonio, da parte di Antonio Maria Ferro, allievo di un altro goriziano, Giovanni Jervis; e di Giovanna Del Giudice, allieva di Basaglia stesso a Trieste, quando mi mostrarono altri luoghi che avevano approntato per la cura. Gorizia, dunque, laboratorio anche in questo percepire l’importanza per chi era stato costretto a viversi misero nella miseria di scoprire attorno a sé – per sé! – ambienti sobri ma dignitosi, predisposti con rispetto.
Il lavoro dei malati intanto si trasforma da elemento di asservimento all’istituzione in elemento di consapevolezza della propria dignità e potenzialità, che trova un senso certo nell’attività ma anche nel reddito. Nella primavera del ’64 la piccola équipe è in visita a Gutersloh, il tempio dell’ergoterapia manicomiale diretto un tempo da Hermann Simon, per trarne idee ma anche per maturare un approccio critico al tema del quale proprio Slavich con Letizia Comba darà conto in un capitolo fondamentale di Che cos’è la psichiatria?[ii]. Attorno al lavoro si moltiplicano la scuola, lo sport, gli atelier, analogamente a quanto avveniva già in quegli anni nelle esperienze più vivaci di riforma dell’ospedale anche in Italia. Ma il senso di tutto questo lavorio per animare lo spazio e il tempo dentro l’istituzione non era a Gorizia solo una forma più nuova e umana di terapia; era soprattutto uno sforzo di aprire opportunità perché si sprigionasse la vita, un’opportunità di riancoraggio alla vita: «Basaglia vedeva rosso se qualcuno insinuava, fosse pure con le migliori intenzioni, che il suo Mondrian in Tintal potesse costituire in qualche modo una terapia d’ambiente, secondo il costume vigente in quell’epoca, per il quale chi giocava a pallone faceva calcio-terapia, un torneo di scopa e tresette diventava carto-teapia, la proiezione di qualche film cine-terapia, e via inventandosi cattive pratiche e nuove tecniche terapeutiche a buon mercato, destinate ad animare a lungo il deserto dei manicomi (ovvero, oggi, quello delle cliniche private, di molti day-hospital e dei servizi territoriali pubblici)» (p. 97).
Ed è un tema, questo, davvero destinato a trascinarsi a lungo nella riabilitazione psichiatrica in Italia, sul quale io stesso, dopo molti altri, mi sono trovato a ragionare più volte[iii].
Nasce il periodico interno autogestito da un’élite tra i malati – Il Picchio – destinato a raccoglierne le loro voci e le lamentele e accompagnare e pungolare il processo di apertura[iv]; e nasce il club “Aiutiamoci a guarire – prototipo di esperienze di autoaiuto e associazione che ancora oggi fanno tanta fatica ad attecchire e diffondersi in una psichiatria dove il paternalismo continua a essere tremendamente diffuso – che gestisce tra l’altro il Centro Sociale interno, luogo indispensabile di libera socialità.
Occupano il centro del volume due capitoli che ho trovato assolutamente preziosi per ricchezza d’informazioni e per chiarezza: Il contesto culturale e professionale e Processo al manicomio. Rapporto da un convegno del 1964. Il primo è dedicato alle fonti teoriche e ai contributi principali del duo Basaglia-Slavich nella prima metà degli anni ’60, cioè nei primi anni di Gorizia. I contributi dai classici della fenomenologia tedesca, la scoperta degli autori anglosassoni contemporanei e di Minkowski, Merleau-Ponty e Sartre, fino a Foucault. Elementi tutti, Slavich ha ragione, tra i quali non c’è discontinuità, ma che insieme contribuiscono alla costruzione di quello che possiamo definire un autonomo punto di vista teorico-pratico “basagliano” che non si sviluppa certo soltanto nella mente di un singolo intellettuale, ma nel confronto continuo tra quell’uomo e il piccolo gruppo di collaboratori che lo accompagna, e soprattutto con la realtà concretya che vive. E che ha come tratto distintivo imprescindibile l’obiettivo della distruzione dell’ospedale psichiatrico. E poi i rapporti, più complessi, con la fenomenologia italiana – preziosa nelle sue riflessioni ma troppo spesso astratta rispetto alla violenta concretezza delle pratiche d’internamento – e lo sforzo del gruppetto di Gorizia di adeguare le partiche al ragionamento teorico sull’uomo, scegliendo così di rimanere a loro volta, come Slavich dice con ammirazione a proposito dell’eccezione rappresentata da Eugenio Borgna: «fedele alle sue idee e ai suoi malati, perché consapevole sia dei limiti delle prime che delle umane sofferenze dei secondi» (p. 126)[v]. E, ancora, le radici del pensiero e della pratica basagliana nella psichiatria italiana ed europea di quegli anni: la psicoterapia istituzionale francese, la comunità terapeutica inglese e per l’Italia le sperimentazioni più interessanti in atto, come quella di Edoardo Balduzzi a Varese. Quanto all’altro capitolo, è uno affresco prezioso a tutto campo sullo stato della discussione sull’assistenza psichiatrica in Italia nel 1964: vi sono rappresentati tutti i punti di vista, i temi all’ordine del giorno, le alternative che erano in quel momento in campo per un futuro del quale tutti avvertivano comunque necessaria – chi più chi meno – la diversità rispetto all’esistente. Il convegno di Bologna è un appuntamento al quale si ritrovano tutti i protagonisti della psichiatria italiana della prima e dell’ultima parte del ‘900, e di ciascuno di essi Slavich riporta, con tratti brevi ma efficaci, il punto di vista. Era un mare tutt’altro che tranquillo, quello della psichiatria italiana in quel momento, e l’esperienza di Gorizia sembrava ancora una delle tante.
Ancora nel ’64, poi, l’apertura ad opera di Slavich della prima comunità terapeutica, un metodo che lentamente si sarebbe diffuso a tutto l’ospedale.
Con il ’65, arrivano i rinforzi, che porteranno l’équipe goriziana alla composizione che resterà famosa: prima Agostino Pirella, poi Nico Casagrande, Giovanni Jervis con la moglie Letizia Comba, Lucio Schittar, che si aggiungono a Basaglia, sua moglie Franca Ongaro e Slavich stesso, protagonisti dei primi, e forse più faticosi, tre anni. La storia, da questo momento in poi, è più nota e infatti anche la memoria di Slavich scorre i fatti in modo più veloce.
Gorizia è ormai famosa nel mondo ma lo è meno in Italia: sarà essenziale, per questo, l’interesse di uno dei più grandi e sensibili giornalisti dell’epoca, Sergio Zavoli, che dell’esperienza darà una rappresentazione fedele e completa con la proiezione, sulla RAI, del documentario I giardini di Abele (un altro documentario, La favola del serpente, meno noto e girato dalla finlandese Pirkko Peltonen in assemblea a Gorizia nell’agosto ‘68, è riportato in calce a questo articolo). Intanto, dopo la pubblicazione in tiratura limitata di Che cos’è la psichiatria?[vi], quella con Einaudi de L’istituzione negata[vii] consacra insieme la notorietà delle tesi goriziane e la saldatura ai movimenti della contestazione. Operatori curiosi e sensibili, che saranno in parte tra i protagonisti della psichiatria italiana dei decenni successivi come Leo Nahon, Stefano Mistura o Fabrizio Asioli, e altri curiosi, artisti cominciano ad affluire a Gorizia insieme ai parmigiani Mario Tommasini e Fabio Visintini.
L’esperienza di Gorizia sembra giunta così, in soli sette anni, al suo apice, nulla parrebbe poterla più fermare; ma gli equilibri politico-amministrativi locali che avevano consentito, e in qualche misura favorito, fino a quel punto lo sviluppo dell’esperienza goriziana andavano facendosi stretti; l’amministrazione si opponeva al logico sviluppo – cui già stavano andando incontro da un tempo più o meno lungo altre realtà italiane – dell’apertura dell’ospedale psichiatrico al suo interno con la creazione di ambulatori esterni indispensabili, in primo luogo, a sostenere le dimissioni.
Non manca infine, non avrebbe potuto mancare, un capitolo dedicato alla triste vicenda dell’uxoricidio posto in essere da un degente in permesso, col quale Slavich aveva uno speciale rapporto affettivo; è l’incidente più importante e porterà Antonio stesso, insieme a tutta l’impostazione basagliana, sul banco degli imputati. Poi sarà assolto, ma non poteva non dare spazio qui, a tanta distanza del tempo, al proprio dolore, né rinunciare a offrire la propria versione.
Arricchisce il volume, oltre a un’utile glossario curato da Peppe Dell’Acqua e Deborah Borca – un articolo cui Slavich sembra tenere particolarmente, realizzato nel ’66, pubblicato sulla Rivista Sperimentale di Freniatria nel ‘67, omesso nella raccolta degli Scritti basagliani e dunque poco noto: Problemi metodologici in tema di psichiatria istituzionale: la situazione comunitaria. In esso un gruppo autoriale a cavallo tra la prima (Basaglia, Slavich, Tesi) e la seconda (Pirella, Casagrande) équipe goriziana propone una lettura teorica di quanto si è realizzato a Gorizia. Non mi sento, ovviamente, di proporre un’esegesi completa per la ricchezza teorica e la complessità del ragionamento che lì viene esposto, ma vorrei limitarmi a evidenziarne alcuni punti salienti, rimandando alla lettura diretta che credo sia fondamentale.
L’articolo, ricco di fondamentali riferimenti teorici, fa il punto su elementi di forza e criticità della psicoterapia istituzionale francese e della comunità terapeutica inglese. L’approccio goriziano, che ha in comune elementi tanto con l’uno che con l’altro, si distingue da entrambi perché si è dovuto innanzitutto opporre a una pressione sociale, che per ragioni storiche aveva intensità maggiore in Italia[viii], caratterizzata da una spinta per ragioni securitarie all’esclusione sociale del malato di mente e dal carattere vistosamente di classe che l’esclusione stessa assumeva, anche in relazione al minore prestigio della psichiatria pubblica nel nostro Paese.
L’esperienza goriziana prende dunque le mosse dalla dimensione spaziale dell’istituzione: «nello spazio chiuso il rapporto interpersonale è spogliato di ogni spontaneità; si rarefà e si vanifica» (p. 260). Nella situazione aperta, entrano tendenzialmente in crisi i ruoli e questo è certamente l’aspetto di più difficile comprensione, sul quale mi è capitato, proprio per la sua complessità, di soffermarmi più volte[ix]. Il ruolo di medici, infermieri e malati, infatti, non è più distinto sul piano antropologico, essenziale; ma lo rimane sul piano di una autorità “tecnica” degli operatori, basata cioè su un sapere tecnico che può essere sottoposto a continua reciproca verifica e contestazione[x]. L’operatore, quindi, non può più contare sul fatto di essere istituzionalmente “superiore” al paziente, ma si pone di fronte a lui come persona con una persona, portatore però di un sapere tecnico che può essere utile all’altro, ma può essere anche da lui contestato, dialettizzato e negoziato. Il vissuto che ha l’operatore della perdita di questo potere “a priori”, di questo potere come status, di questa abitudine a volte inconsapevole di parlare con l’altro dall’alto verso il basso può essere perciò, facilmente, quello di “disordine” e “anarchia” (p. 263).
Credo che questo aspetto del pensiero e della pratica basagliana sia quello che ha più difficoltà ad essere recepito nelle nuove istituzioni che la psichiatria si è data dopo la legge 180, e costituisca anche oggi il principale terreno di scontro tra una psichiatria che, anche in luoghi non manicomiali, continua a essere manicomiale (paternalistica) nella sua essenza; e una psichiatria che si sforza di praticare il più possibile stile non manicomiale nella relazione con il malato. Uno stile che non dà a priori sicurezze granitiche come granitico era il muro del manicomio, ma che è necessario rassegnarsi a dover vivere in qualche rapporto, almeno, con la dialettizzazione e la dinamizzazione dell’istituzione, con la negoziazione, e in definitiva con la necessità, almeno in qualche misura, di “vivere nell’ansia e nel rischio” (p. 264, 265)[xi]. “Ansia”, del resto, è uno dei termini più ricorrente nel libro, ed è usato soprattutto in riferimento alla figura di Basaglia. Quanto al valore terapeutico di ciò che si fa, anch’esso consiste nel rimettere: «in discussione alle radici in ogni momento la validità e il senso del nostro lavoro e delle nostre scelte quotidiane comunitarie» (p. 266). Un continuo confrontarsi con la realtà, dunque, che era per la verità già evocato da alcuni autori del movimento della Comunità terapeutica e serve a preservare dalla caduta nella duplice ideologia di considerare sempre – o all’opposto di non considerare mai – l’altro incapace di decidere e bisognoso del fatto che siamo noi a farlo al suo posto.
Temi assolutamente all’ordine del giorno, io credo e so per esperienza che gli Autori considerano da tre punti di vista: quello fantasmatico, quello ideologico e quello reale ma io ho preferito qui proporre riducendoli a quello che mi è parso il nocciolo della questione.
Il volume mi ha riportato alla memoria tante discussioni con Antonio, nel suo studio dove amava ascoltare in solitudine musica classica e lo si poteva trovare a ogni ora, o passeggiando insieme sotto i portici o nei cortili di Quarto, il tono semplice ed epico con il quale rievocava aspetti di quell’esperienza goriziana che aveva avuto la fortuna da vivere dall’inizio e considerava giustamente il momento più importante, e forse uno dei più felici, della sua vita. L’orgoglio col quale mi presentò i compagni di quella stagione meravigliosa al convegno Isole. Percorsi delle difese e della libertà del 1992: Agostino Pirella e Franca Ongaro, forse altri che non ricordo adesso, Lo ricordo ormai molto debole in salute (c’è una discreta e commuovente allusione in proposito a p. 217) preoccupato di non vivere abbastanza per poter concludere questo libro, di non poter portare a termine quello che avvertiva come un dovere di testimonianza di quei tre anni iniziali vissuti a fianco di Franco Basaglia, condividendone le speranze, le ansie, le amarezze, le fatiche, i successi sempre comunque insufficienti ad appagare. Ricordo la sua soddisfazione quando gli porsi le recensioni del suo precedente testo, La scopa meravigliante. Preparativi per la legge 180 a Ferrara e dintorni (Roma, Editori Riuniti, 2003) che avevo pubblicato nel 2004 su “Il vaso di Pandora. Dialoghi in psichiatria e scienze umane”, la rivista degli psichiatri liguri, e nel 2005 su “Quaderni italiani di psichiatria”, la rivista ufficiale della SIP. E così, mi piace sperare che anche la recensione a questo suo nuovo testo, al quale soprattutto teneva e che credo che – grazie anche ai curatori – sia venuto davvero bene, gli avrebbe fatto ugualmente piacere.
[i] Lo strano titolo del libro si riferisce al fatto che gli alberi lungo il viale dell’ospedale psichiatrico, all’ombra dei quali ebbero luogo ante discussioni e tanti incontri di cura in quegli anni, erano per l’appunto ciliegi giapponesi.
[ii] Sul tema cfr. in questa rubrica: P.F. Peloso, Che cos’è la psichiatria? 50 anni dopo. Parte II. Lavoro, psicoterapia, istituzione, POL. it, 6 giugno 2017 (clicca qui per il link).
[iii] Ricordo per tutti scritti di Angelo Cocchi e Giorgio De Isabella, e, per ciò che mi riguarda: P.F. Peloso, R. Guttuso-Poggi, P. Ciancaglini, Riabilitare il Centro diurno: problemi, obiettivi, strategie, Psichiatria di comunità, 3, 1, 2004, pp. 23-34; P.F. Peloso, L. Basso, D. Lamonaca, C. Maberino, La vita: fattore terapeutico o antiterapeutico?, Noos, 16, 1, 2010, pp. 29-44.
[iv] Sull’esperienza dei primi giornali autogestiti dai malati negli ospedali psichiatrici italiani, cfr.: P.F. Peloso, Il primo esperimento italiano di periodico socioterapico (1961-74) redatto dai degenti degli ospedali psichiatrici genovesi, Atti dell’Accademia Ligure di Scienze e Lettere, L, 1993, pp. 231-250; per ciò che riguarda in particolare “Il picchio” cfr.: J. Foot, La repubblica dei matti. Franco Basaglia e la psichiatria radicale in Italia, 1961-1978 Milano, Feltrinelli, 2014, cap. 7.
[v] Una capacità, quella di Borgna, di tenere insieme ricchezza di elaborazione teorica e sensibilità verso il malato che ritroviamo anche in uno dei suoi ultimi testi, L’ascolto gentile. Racconti clinici (Torino, Einaudi, 2017). Per la mia recensione al volume su Pol. it, clicca qui per il link. Rimando anche all’affascinante intervento a Genova di Eugenio Borgna del 9 maggio scorso, quando ho avuto l’opportunità di accoglierlo per la presentazione dello stesso volume, nella sezione video di Pol. it.
[vi] Cfr.: P.F. Peloso (2017), Che cos’è la psichiatria? 50 anni dopo (clicca qui per il link).
[vii] Per il commento alla prima parte del volume cfr. in questa rubrica: P.F. Peloso, L’istituzione negata. 50 anni dopo, è ancora di lì che dobbiamo partire (1) (clicca qui per il link). La seconda parte è in corso di elaborazione.
[viii] Per la Gran Bretagna, gli Autori si riferiscono probabilmente alla più forte tradizione di democrazia e diritti civili rispetto all’Italia, e a una psichiatria che, dai tempi dei Tuke e di Conolly (una storia alla quale espressamente i teorici della Comunità terapeutica si rifanno) si è posta il problema dei diritti e della dignità del malato di mente. Tanto per la Francia che per la Gran Bretagna, poi, i movimenti di riforma dell’ospedale psichiatrico presero avvio già durante la II guerra mondiale, con largo anticipo perciò sull’Italia. Quanto alla Francia, il maggior prestigio e la maggiore considerazione sociale degli psichiatri rispetto ai colleghi italiani già dal XIX secolo è indubbio, e per un confronto tra la legislazione francese del 1838 e quella italiana del 1904, a caratteredecisamente più securitario, entrambe vigenti in quegli anni, cfr.: Peloso P.F., Prima di tutto custodire. La psichiatria secondo la legge 36 del 1904, in: A. Arata, Cento… ottanta. Psichiatria tra storia e memoria di un ottuagenario. Seconda edizione arricchita con il contributo di psichiatri protagonisti, Boves (CN), Araba fenice, 2017, pp. 349-381.
[ix] Sul tema ricordo i contributi personali: P.F. Peloso, Architetture della perfezione e spazi di vita, in: Comunità: natura, cultura … terapia (a cura di C. Conforto, G. Giusto, P. Pisseri, G. Berruti), Torino, Bollati Boringhieri, 1999, pp. 80-130, nonché la recensione in tre parti in questa rubrica: P.F. Peloso, 50 anni di “Corpo e istituzione”, Pol. it, 2017 (clicca qui per il link).
[x] Il tema, evidentemente, rimanda a quello, che sarebbe stato posto più recentemente, del consenso informato in medicina e delle difficoltà – ma a volte anche delle eccessive reticenze – che incontra la sua applicazione in psichiatria.
[xi] Sulla questione, rimando in questa rubrica a: P.F. Peloso, La coazione va sempre evitata. Relazione al Congresso annuale PSIVE 2016, POL. it., 2016 (clicca qui per il link).
Fonte: Psychiatryonline.it