È in libreria da pochi giorni “All’ombra dei ciliegi giapponesi. Gorizia 1961” di Antonio Slavich, ultima proposta della Collana 180 – Archivio critico della salute mentale (edizioni AB Verlag, Merano). Una narrazione che è la testimonianza dell’origine di una storia che cambierà il nostro modo di pensare alla malattia mentale. È il 16 novembre 1961 quando Franco Basaglia entra come direttore nel manicomio di Gorizia, ai confini del mondo, nel cuore della guerra fredda. Il giovanissimo Antonio Slavich, arriverà pochi mesi dopo, primo e unico aiutante del nuovo direttore. Tutto comincia qui. Lo scenario che si presenta ai due giovani medici è un mondo di sofferenza, di violenza, di annientamento, gli uomini e le donne non ci sono più, soltanto internati senza volto né storia. Messa tra parentesi la malattia gli internati cominciano a chiamarsi per nome, diventano persone, cittadini: il malato non la malattia. Prende avvio il lento e progressivo smontaggio dell’istituzione manicomiale. Le grandi imprese hanno spesso un inizio modesto, quasi minimalista, commenta Slavich nel ripercorrere passo dopo passo le piccole conquiste quotidiane, procedendo per prove ed errori facendosi guidare da un unico obiettivo: incontrare e ascoltare le persone e riconoscere i loro bisogni. Giorno dopo giorno azioni minime: muri ridipinti, uniformi sostituite da vestiti, incontri, porte aperte, giri in Cinquecento per chi era salito solo su un’ambulanza per arrivare legato in manicomio. In quel deserto immobile e squallido ogni gesto irrituale, ogni piccola azione che contribuiva a scalfire almeno un po’ la superficie della piattezza istituzionale sembrava già una riforma. Nel corso degli anni il gruppo diventa più numeroso e sempre di più cresce l’urgenza del cambiamento: si aboliscono tutte le forme di contenzione, i trattamenti più crudeli e si aprono le porte. I giorni vengono scanditi dalle assemblee che si succedono numerose. Da quel momento l’assemblea goriziana diventa il cuore di un movimento destinato a sconvolgere il mondo. Aperte le porte, il parco, ora popolato dagli internati, è il posto dove, all’ombra dei ciliegi, l’incontro prende vita e dove la rivoluzione mette radici. L’amministrazione provinciale che fino a quel momento aveva appoggiato con qualche resistenza l’esperienza della comunità terapeutica finirà per impedirne l’ulteriore sviluppo e per richiudere tristemente i cancelli. Gli anni goriziani, malgrado la pesante censura politica, testimoniano l’origine e il seme di quella che sarà la grande svolta della Legge 180.
Basaglia poco dopo ricomincerà la sua visionaria avventura a Trieste e con Marco Cavallo abbatterà il muro del manicomio. Il crollo del primo muro non chiude una volta e per sempre con la storia delle istituzioni (e delle psichiatrie) apre soltanto un varco. Indica il cammino che porterà alla legge, un cammino affrontato da tanti operatori nella solitudine del deserto, nell’oscurità di boschi impenetrabili, in ruvidi sentieri rocciosi che tolgono il respiro. A orientare la lunga marcia del cambiamento una costellazione di parole che furono l’origine: mettere tra parentesi, porta aperta, cittadino (i diritti e la politica), persona (l’etica e la dignità), soggetto (l’incontro e la cura). Abbandonato il manicomio la cura, la presa in carico avrebbe potuto realizzarsi nei contesti di vita, nelle relazioni, nella quotidianità. Quarant’anni dopo niente è più come prima e non possiamo non riconoscere con orgoglio che i malati di mente sono diventati cittadini, sono entrati sulla scena con la loro singolarità e la loro diversità. Finalmente persone, guadagnano faticosamente margini di libertà e si riappropriano della cittadinanza come condizione irrinunciabile per affrontare la fatica di renderla accessibile. In questi anni è stato possibile dimostrare che “il folle” può essere curato in un altro modo. I Centri di salute mentale, lì dove sono presenti quotidianamente a sostegno della vita delle persone; le cooperative sociali, che sono in grado di produrre lavoro; le associazioni, che sostengono protagonismo e partecipazione; i luoghi dell’abitare e i laboratori, che coltivano il valore della relazione dimostrano che è possibile curare con le porte aperte, con programmi personalizzati, con percorsi di inserimento lavorativi reali. Con la possibilità per le persone che vivono l’esperienza del disturbo mentale di abitare diverse e plurali identità. Oggi si possono raccontare storie di persone che malgrado la severità della malattia mai hanno subito restrizioni e mortificazioni, al contrario, accolte e accompagnate hanno potuto sperimentare singolari percorsi di ripresa. Alcune esperienze esemplari e pratiche diffuse in tutto il territorio, hanno dimostrato che è possibile non fare danni e inventare nuove opportunità. Con la possibilità di guarire. La legge 180 è tutta qui.
Articolo gentilmente offerto da Il Sole 24 Ore
Fonte: Forum Salute Mentale