L’Onu e la war on drugs. Morti e tortura. di Sergio Segio

Sergio Segio scrive sul report del sottocomitato ONU per la prevenzione della tortura per la rubrica di Fuoriluogo su il manifesto


Nel 2024 si è tenuto il 40° anniversario della Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti. Non ne sono accorti e ricordati in molti giacché si tratta di una realtà tanto presente ai quattro angoli del mondo quanto rimossa e nascosta. Nell’occasione, Suzanne Jabbour, presidentessa della Sottocommissione per la Prevenzione della Tortura delle Nazioni Unite, ne ha denunciato pubblicamente la drammatica diffusione e le caratteristiche, ricordando che «in quel preciso istante, qualcuno veniva torturato, qualcuno taceva, qualcuno permetteva che la tortura venisse praticata e qualcuno non veniva ritenuto responsabile per aver commesso l’abominevole, disumano e inutile crimine della tortura».

Dunque, sono il silenzio, la complicità e l’impunità a rendere persistente e dilagante un fenomeno che in questo secolo, dopo l’11 settembre 2001, con la comoda coperta dell’antiterrorismo, ha visto un salto di qualità, arrivando a essere giustificato, quando non apertamente rivendicato, da governi occidentali e pertanto maggiormente accettato dalle opinioni pubbliche.

À la guerre comme à la guerre, insomma. Una bestemmia  non dissimile da quella che sentiamo ripetere a reti unificate in questi mesi in Europa, secondo cui la pace si ottiene armandosi e preparando la guerra. Dopo lo sterminio in corso a Gaza, del resto, silenzio e impunità riguardo la tortura e i crimini contro l’umanità hanno raggiunto livelli e complicità impensabili solo poco tempo fa.

A fronte, per quanto sempre più delegittimate e ostacolate dai governi occidentali attivamente schierati a difesa di Netanyahu, resistono le attività di Ong, organismi internazionali e agenzie delle Nazioni Unite a tutela dei diritti umani.

È recente (6 marzo) la pubblicazione della Diciottesima relazione annuale della Sottocommissione presieduta da Suzanne Jabbour, che nel 2024 ha effettuato ben 89 visite in Stati parte.

Qui, in particolare, vogliamo sottolineare la sezione del rapporto relativa all’impatto negativo delle politiche in materia di droga sulla prevenzione della tortura e dei maltrattamenti e sulla piena attuazione dei diritti umani. Non per caso e troppo a lungo le scelte al riguardo di diversi Stati (dell’Italia tuttora) sono state incentrate su leggi e misure di “tolleranza zero” e “guerra alla droga”. Come ogni altra guerra, anche questa ha prodotto e produce non solo repressione, violazioni e persecuzioni, ma, appunto, tortura e morte. È perciò del tutto appropriata e significativa la raccomandazione della Sottocommissione Onu, secondo cui «le strategie efficaci in materia di droga devono includere la prevenzione, inclusa la riduzione del danno», e politiche per «ridurre al minimo il ricorso alla privazione della libertà come parte della risposta al consumo di droga».

L’inedita presa di posizione della Sottocommissione ci dice autorevolmente che la guerra dichiarata, in realtà, non è contro le droghe ma contro chi le detiene o anche solo le consuma; che il carcere, non di rado, può costituire una forma di tortura, tanto più nel caso di reati senza vittime; che la feroce pretesa delle legislazioni proibizioniste è quella di punirne mille per educarne uno. Laddove, secondo i dati di Harm Reduction International, in ben 34 paesi la punizione può arrivare alla pena capitale, condanna che è stata eseguita in almeno 625 casi e comminata in almeno 377 nel 2024, l’anno più mortale nell’ultimo decennio, con le esecuzioni accertate aumentate del 32% rispetto al 2023.

La war on drugs è da tempo fallita, lasciando dietro di sé una scia interminabile di sangue, dolore e ingiustizie. Ma, proprio come per altre guerre, ancora troppi Stati e governi insistono dolosamente nella propaganda e a perseguitarne le vittime civili. Sceglieranno di ignorare le richieste di cambiamento venute dalle Nazioni Unite?

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