Un contributo straordinario e innovativo è stato quello apportato negli anni da Giorgio Bignami nel campo della medicina e della psichiatria, con un’attenzione costante ai temi della sanità pubblica e al loro impatto sulla società. Bignami è scomparso il 16 marzo 2025 a Roma.
Nel libro “Sparare a una colomba”, lo scrittore David Grossman spiega quanto consideri importante continuare a riflettere sul dramma del conflitto fra israeliani e palestinesi e, nonostante la visione prevalente di una guerra senza fine, provare a immaginarele possibili vie di uscita. Questo atteggiamento risponde innanzitutto a una necessità: combattere «la sensazione di essere una vittima impotente», dato che «anche nelle situazioni peggiori, c’è sempre un margine di manovra» inclusa la libertà di «descrivere i fatti con parole proprie… e non con frasi fatte o con parole altrui».
C’è, in questo atteggiamento, la consapevolezza dell’importanza di intervenire sui fatti del mondo, al di là del proprio ristretto ambito di competenza tecnica, senza lasciarsi sopraffare dall’impotenza e cadere nel cinismo, senza farsi condizionare dalla probabilità di (in)successo della propria azione. Si tratta di un atteggiamento che ora è quasi un’eccezione, mentre era ben più diffuso nei decenni passati e in particolare nella seconda metà dello scorso secolo.
Per coloro che avevano deciso di spendere la propria attività lavorativa in ambito pubblico, non si trattava solo di fare bene un lavoro in cambio di uno stipendio, ma anche di contribuire a fare funzionare al meglio l’insieme dei servizi pubblici, nell’interesse dei cittadini. Se oggi diamo per acquisite alcune conquiste di civiltà degli anni ’70 – lo statuto dei lavoratori, l’istituzione di un servizio sanitario universale, la chiusura dei manicomi, la possibilità di praticare legalmente l’interruzione di gravidanza o di separarsi ricorrendo al divorzio – non dovremmo dimenticare che sono state il frutto non scontato di decenni di rivendicazioni di movimenti politici, sindacali e di opinione pubblica, nelle quali le persone esperte (portatrici di competenze tecniche) hanno contribuito a rendere realizzabili le aspirazioni di migliori condizioni di vita e di lavoro provenienti dalla società.
Giorgio Bignami, scomparso il 16 marzo 2025 a 92 anni, era un modello di questa vocazione. Bignami non era solo un ricercatore, arrivato alla fine degli anni ’50 all’Istituto Superiore di Sanità (ISS) per formarsi alla scuola di Daniel Bovet e Filomena Nitti-Bovete diventare negli anni un riferimento nell’ambito delle ricerche in psicofarmacologia e nello sviluppo di modelli animali per lo studio del comportamento, fino a completare la carriera all’ISS come direttore del Laboratorio di Fisiopatologia di organo e di sistema nel periodo fra il 1993 e il 1998, anno del suo pensionamento. Bignami ha avuto anche un’attenzione costante ai temi della sanità pubblica, dalla salute mentale, con stretti rapporti di collaborazione con Franco Basaglia e Franca Ongaro Basaglia, alle tossicodipendenze, nel cui ambito era diventato presidente del Forum droghe (una volta in pensione dall’ISS), dall’etica della sperimentazione animale a quella della ricerca clinica umana, dalle politiche della ricerca pubblica in ambito biomedico alle politiche del farmaco.
All’ampiezza dei temi indagati si associava una conoscenza vasta e una straordinaria capacità di scrittura, che spaziava dagli articoli scientifici ai contributi per Il Manifesto, dai documenti tecnici e pareri istituzionali, agli articoli di divulgazione scientifica, alle recensioni per L’indice dei libri. Per non parlare dei tantissimi interventi nelle assemblee del personale, dove c’era sempre una “precisazione” doverosa da fare e una citazione o un aneddoto da raccontare, con quella capacità rara di unire ironia e analisi rigorosa dei problemi.
Bignami aveva anche una capacità unica di essere sempre aggiornato su ciò che veniva pubblicato, non solo nelle riviste scientifiche di diretto interesse disciplinare, ma anche negli ambiti in cui si concentravano i suoi più vasti interessi, inclusi gli interessi di lettura “laica”, che spaziava dai diversi quotidiani e settimanali – sì, c’è stato un mondo nel quale una parte delle persone compravano e leggevano ogni giorno diversi giornali, anche senza essere giornalisti di professione – alle riviste letterarie come la New York Review of Books. Per parecchie persone – colleghe e colleghi di lavoro con le competenze più varie persone con le quali condivideva una delle tante attività – la conseguenza delle letture si manifestava sotto forma di plichi di fotocopie di articoli pubblicati su quotidiani e riviste scientifiche, magari anche di norme pubblicate nella gazzetta ufficiale. Ogni fotocopia presentava sottolineature e commenti, spesso ironici o che mettevano in evidenza aspetti paradossali, su argomenti che non di rado ci erano sfuggiti, nonostante si trattasse del campo di attività nel quale ciascuno di noi avrebbe dovuto essere più aggiornato.
Ancora oggi, a ripensarci, mi chiedo come facesse e soprattutto come ci riuscisse senza fare mai pesare il suo lavoro. La risposta che mi sono dato è che ci fosse il richiamo al dovere di dare un contributo al miglioramento della società e, insieme, il piacere nel farlo. Come amava ripetere, «dove c’è sfizio non c’è perdenza». Quando si amano le cose che si fanno, si fanno, punto e basta, perché anche nelle situazioni peggiori c’è sempre un margine di manovra, anche quando appare minima la probabilità di ottenere un risultato concreto.