In Italia, come nella maggior parte dei Paesi economicamente più sviluppati, viviamo quella che viene definita una transizione demografica (al calo della mortalità, progressivamente avvenuta nel corso del ‘900, si associa da alcuni anni un drastico calo delle nascite). Ciò determina un costante invecchiamento della popolazione; la quota di persone anziane (over 65) sul totale della popolazione, e in rapporto ai giovani, continua ad aumentare.
Infatti, nell’arco di venti anni, tra il 2004 e il 2024, l’età media della popolazione è aumentata da 42,3 a 46,6 anni; l’indice di vecchiaia ha raggiunto la quota di 199,8 persone di 65 anni e più ogni cento persone di 0-14 anni, con un aumento di oltre 64 punti percentuali[1]. La speranza di vita è aumentata di quasi venti anni dal dopoguerra (la speranza di vita nel 2023 è stimata in 81,1 anni per gli uomini e in 85,2 anni per le donne[2]) dunque enormi progressi sono stati compiuti. Vivere più a lungo è stato il frutto di grandi conquiste: che hanno migliorato le condizioni di vita per milioni di persone (reddito, casa, servizi) – e alla presenza, almeno dalla fine degli anni settanta, di un servizio sanitario pubblico. Conquiste che non sono state spontanee ma ottenute grazie a dure lotte sociali e sindacali.
Viviamo più a lungo, e per diversi anni possiamo farlo in buone condizioni di salute: ciò determina effetti positivi sulle dinamiche sociali ed economiche. Le persone anziane sono una formidabile risorsa per il benessere e la crescita delle nostre comunità (per l’economia, per il welfare, per il contributo alla coesione sociale tra generazioni, per il patrimonio di memoria e cultura che possono trasferire). Non a caso è stata sviluppata in questi anni dalle diverse Agenzie ONU e UE un’intensa attività sull’invecchiamento attivo e sull’invecchiamento in buona salute, che investe tutti gli ambiti della vita, su cui anche lo SPI è impegnato.
Tuttavia l’invecchiamento della popolazione porta con sé inevitabilmente anche conseguenze sanitarie e sociali sulle persone anziane e sulle loro famiglie. Si vive più a lungo, ma diversi anni di vita sono afflitti da condizioni di non autosufficienza. In questo l’Italia, rispetto ad altri Paesi europei, ha un primato negativo[3]. Sono quasi 3,8 milioni gli anziani con grave riduzione dell’autonomia nelle attività quotidiane di cura personale oppure in quelle della vita domestica (Istat). Al crescere dell’età la quota di anziani con gravi difficoltà funzionali aumenta progressivamente.
Di qui l’urgenza di politiche attive per prevenire la non autosufficienza. Che però potranno limitare, ma non fermare la crescita del numero di persone non autosufficienti: il bisogno di cure, di sostegni, di assistenza riguarderà milioni di anziani. Per questo abbiamo rivendicato la legge sulla non autosufficienza, approvata nel 2023 e poi lasciata in un cassetto da questo governo. Non possiamo affidarci solo allo strano mercato del badantato, come abbiamo fatto in questi anni (per certi versi una salvezza in assenza di servizi sociali forti). Perché il mercato inevitabilmente seleziona – in base al reddito – le persone cui destinare le cure. Perciò occorre potenziare un modello pubblico e universale di welfare per le Cure a Lungo Termine (LTC). Ma non basta, occorre “spostare il baricentro” del welfare: i servizi sociali e sanitari devono agire considerando i determinanti bio psico sociali di salute, devono essere organizzati nei luoghi della vita quotidiana delle persone: così sono i più appropriati fattori di prevenzione e di cura. La situazione epidemiologica (crescita delle cronicità) e demografica (invecchiamento della popolazione e della non autosufficienza) reclamano la centralità dell’assistenza primaria di prossimità (Cure Primarie), ad alta integrazione sociale, primo punto di riferimento per il cittadino nel Servizio Sanitario Nazionale e nei Servizi Sociali. Un sistema di Cure primarie che esige un nuovo ruolo del Medico di Medicina Generale e dei professionisti sanitari e sociali impegnati nei servizi territoriali.
L’OMS da tempo sollecita a considerare che la salute e le cure si sviluppano nei contesti della vita quotidiana – “nei quartieri e nelle comunità in cui le persone vivono, lavorano, amano, fanno acquisti e si divertono. La salute è uno dei più efficaci e potenti indicatori dello sviluppo sostenibile e di successo di ogni città e contribuisce a rendere le città inclusive, sicure e resilienti per l’intera popolazione” (OMS Dichiarazione di Shangai).
Di questa esigenza nasce – grazie all’esperienza maturata in alcune regioni – la riforma del PNRR per il potenziamento dell’assistenza territoriale (il DM 77/2022): con gli investimenti per aprire le Case della Comunità, diffondere l’assistenza domiciliare e la telemedicina, incrementare gli ospedali di comunità.
In questa rete di servizi territoriali di prossimità, di “Cure primarie”, centrale è il ruolo del Medico di Medicina Generale. Che è chiamato a svolgere un ruolo di promotore della salute, di attore cruciale per la “presa in carico” delle persone. Non più solo il medico prescrittore di ricette per visite ed esami, ma il professionista, che in équipe con altri professionisti sociali e sanitari, valuta i bisogni globali della persona, costruisce il Piano di Assistenza Individuale per l’assistenza di lunga durata (LTC), indispensabile per le persone con patologie croniche, tanto più se in condizioni di non autosufficienza. Che utilizza pienamente gli strumenti della Telemedicina per avvicinare il paziente, non per allontanarlo.
Per questo è evidente che è anacronistica l’idea del medico di base solitario, che aspetta i pazienti nel suo studio, magari spesso oberato di adempimenti burocratici, che quasi mai riesce a visitare a domicilio. Diventa chiaro che abbiamo bisogno di un MMG che agisce nell’ambito del distretto socio sanitario (nelle Case delle Comunità, ma non solo), che pratica una sanità di iniziativa, che lavora a stretto contatto con altri professionisti (specialisti, infermieri, terapisti della riabilitazione, psicologi, assistenti sociali, ecc.) all’interno di quell’équipe multiprofessionale che deve operare in ogni della Casa della Comunità, come indica proprio la riforma PNRR nel DM 77/2022.
Per rendere possibile lo sviluppo dell’assistenza primaria naturalmente servono personale e finanziamenti, disperatamente scarsi per sanità e sociale, ma serve anche disponibilità e desiderio di innovare.
La carenza di MMG – pur denunciata con diversità di dati, si veda qui sotto il box – certamente ostacola questo processo di innovazione per potenziare l’assistenza primaria.
Gimbe: nel 2026 oltre 11.400 Mmg andranno in pensione e le borse di studio destinate al Corso di Formazione Specifica in Medicina Generale (Cfsmg) non saranno sufficienti a colmare il ricambio generazionale. Attualmente (anno 2024) ne mancano 3.100 e la situazione è destinata a peggiorare nel 2026… |
Fimmg: Entro il 2026 saranno 15 milioni gli italiani senza un medico di famiglia |
FP CGIL Medici Entro pochissimi anni i cittadini senza Mmg potranno diventare milioni. |
Agenas Report 2023 Nel 2025 in Italia mancheranno 3.632 medici di medicina generale. |
PNRR M6C1 annex (tab. Personal availability forecast – General Practitioners (GPs): stima un numero di Medici di Medicina generale: nel 2020 n. 42.009 nel 2027 n. 35.317, quindi nel 2027 ci saranno quasi 6.692 MMG in meno rispetto al 2020 (tuttavia ritiene che anche così resti sufficiente il rapporto 1/1.500 MMG/popolazione (over14). |
Gli interventi tampone di questi ultimi anni (ad esempio l’utilizzo di medici specializzandi ancora in formazione) sono utili ma non bastano. Occorrono soluzioni stabili: formazione dei Medici di Medicina Generale (MMG) e dei Pediatri di Libera Scelta (PLS) equiparata alle scuole di specializzazione, MMG pienamente inseriti e protagonisti nel SSN territoriale, non attori separati, un sistema contrattuale nazionale forte, che applichi le riforme, non le ostacoli come sta accadendo.
Proprio l’attuale sistema contrattuale per la medicina generale non aiuta. È fondato su un Accordo nazionale debole che rinvia ogni effettiva decisione alla contrattazione regionale e territoriale, impedendo certezza e soluzioni uniformi in tutto il Paese. Non aiuta questo sistema contrattuale che non rende esigibile, certa, ben definita la presenza e l’attività del MMG nel Distretto e quindi nella Casa della Comunità, pienamente inserito nell’équipe multiprofessionale. Non aiuta questo sistema contrattuale che mantiene di fatto separato il ruolo dei MMG più anziani dai più giovani.
Ciò che appare ovvio (ma che fatica a concretizzarsi), è che proprio la carenza di MMG sollecita l’obbligo di associare effettivamente gli studi medici nella medicina di gruppo, di lavorare nell’ équipe multiprofessionale all’interno del Distretto, di organizzare la presenza dei MMG dentro la Casa della Comunità, tutto per assicurare la possibilità al cittadino di trovare un medico ogni giorno almeno per 12 ore (e poi la guardia medica nelle 24 ore).
Oggi si discute anche se prevedere la possibilità per il MMG di optare per un rapporto di dipendenza con il SSN, e non più di agire come libero professionista. Se ne discute molto, e questa potrebbe essere davvero una buona soluzione, molto concreta. Ma troppa enfasi è caricata sul dilemma “MMG: dipendente SSN o libero professionista”? Quando il tema è invece come il MMG è pienamente inserito e protagonista nel sistema delle cure primarie, come si rapporta stabilmente col Distretto, nella Casa della Comunità, con tutti i professionisti del sociale e della sanità, che sono indispensabili ad offrire una risposta globale alla persona.
Giovani medici si sono associati intorno al Libro Azzurro delle cure primarie: vero manifesto per un’innovazione del modello di cure primarie nella società che invecchia. Forse occorre partire dai giovani professionisti e dai bisogni delle persone anziane più fragili: capaci di orientare le scelte per assicurare la qualità dell’assistenza e quindi il diritto alla salute e alle cure.
[3] Health at a glance EU OECD 2024
Il presente testo sviluppa un articolo pubblicato su LiberEtà 4/2025
