HIV: ha ancora senso inseguire la cura definitiva? di Cristiana Pulcinelli

Alla Conference on Retroviruses and Opportunistic Infections (CROI) di San Francisco si è tornato a parlare di cura per l’HIV: tra difficoltà e speranze, nuove strategie cercano di superare i limiti delle terapie antiretrovirali. 


Perché dobbiamo continuare a cercare una cura che faccia guarire le persone con HIV? La domanda è rimbalzata in alcune relazioni alla Conference on Retroviruses and Opportunistic Infections (CROI) che si è svolta a San Francisco dal 9 al 12 marzo scorsi.

Sembra strano anche solo formulare una domanda del genere, ma qualcuno potrebbe pensare che il trattamento con gli antiretrovirali, che al momento consentono di tenere la carica virale bassa e quindi di avere un sistema immunitario in grado di evitare l’emergere delle infezioni opportunistiche, possa essere sufficiente. E in effetti le persone con HIV in trattamento possono ormai vivere a lungo e anche diventare genitori. Oltre a sostenere lo stato di salute, le terapie sono in grado peraltro di abbattere la capacità infettiva dell’HIV azzerando il rischio di trasmettere il virus ad altre persone. Tuttavia, le terapie antiretrovirali (ART) non eliminano l’infezione, ma la rendono cronica. E questo ha una serie di conseguenze negative, come ha spiegato Joseph J. Eron dell’Università della Carolina del Nord nel suo intervento. Innanzitutto l’aspettativa di vita, benché sicuramente molto più lunga di chi non prende la terapia, rimane comunque più corta di chi non ha l’infezione da HIV. In secondo luogo ci sono gli effetti avversi della terapia, alcuni dei quali noti e altri ancora sconosciuti. In terzo luogo c’è il problema dell’aderenza alla cura. Si tratta di trattamenti che vanno presi per sempre e che possono avere un impatto importante sulla qualità della vita.

La fatica di vivere con l’HIV

A questo proposito è stato particolarmente interessante l’intervento registrato di Doreen Moracha di Nairobi, Kenya. Doreen ha raccontato che è risultata positiva all’HIV alla nascita, oltre trent’anni fa, ed è in trattamento da vent’anni. Per un certo periodo, però, Doreen, spaventata dall’idea di prendere i farmaci a vita, ha interrotto la terapia, anche perché ha cominciato a seguire le indicazioni di un uomo molto popolare in tv nella regione dell’Africa orientale che prometteva un farmaco in grado di curare definitivamente le persone con infezione da HIV. Doreen si è lasciata convincere a prendere il farmaco miracoloso e ha interrotto il trattamento con ART per tre anni, ma la sua carica virale è salita moltissimo e ha dovuto affrontare delle infezioni opportunistiche. Dopo un periodo di sofferenza, è tornata a prendere gli antiretrovirali. È in quel momento che ha deciso di sapere di più sui trattamenti e la cura per l’HIV perché, dice, la ricerca va avanti, ma l’informazione su cosa si sta facendo non arriva a noi.

Proseguendo le motivazioni che rendono fondamentale continuare a cercare una cura per l’infezione da HIV, è da considerare l’onnipresente stigma cui sono sottoposte le persone con l’infezione, cui si accompagnano l’isolamento e la paura di poter contagiare qualcuno. Infine, c’è il problema della sostenibilità di un programma che garantisca un trattamento lungo tutta la vita a 40-50 milioni di persone nel mondo. È un progetto davvero imponente, sia dal punto di vista organizzativo che economico e sulla cui realizzazione non si possono avere certezze, come dimostra la cancellazione da parte del presidente Trump del fondo PEPFAR che sosteneva la cura di alcuni milioni di persone in Africa.

La scommessa della prevenzione

Sul fronte della prevenzione dell’infezione, la profilassi pre-esposizione, la cosiddetta PrEP, sta dando risultati molto incoraggianti. La PrEP prevede l’assunzione di farmaci antiretrovirali da parte di persone sieronegative per ridurre in modo significativo il rischio di contrarre il virus. In particolare due importanti sperimentazioni cliniche nei mesi scorsi hanno mostrato che una singola iniezione di lenacapavir dà una protezione efficace contro l’infezione per 6 mesi. E al CROI è stato presentato un nuovo studio in cui è stata iniettata a 40 persone una dose di lenacapavir circa 5 volte superiore rispetto a quella sperimentata in precedenza e sembra che il farmaco sia protettivo anche dopo 1 anno dalla somministrazione.

Ma la somministrazione della PrEP è necessariamente limitata alle persone con più alto rischio di infettarsi. Questa strategia è dettata da considerazioni sui costi, sul rapporto rischio/beneficio individuale e sulle difficoltà organizzative ad estendere un intervento di questo genere. Gli epidemiologi quindi mettono in guardia: la PrEP da sola non cambierà il trend. L’anno scorso si sono infettate 1 milione e 300.000 persone, molto di più dei 370.000 che 5 anni fa il Joint United Nations Programme HIV/AIDS si era posto come obiettivo per il 2024. Chris Beyrer dell’Istituto Global Health della Duke University ha detto che secondo le ultime proiezioni, senza un vaccino (ancora di là da venire) o una cura che porti alla guarigione, la prevalenza dell’infezione da HIV continuerà a crescere, anche mettendo in conto un aumento nell’accesso alla PrEP che, peraltro, non è scontato, visto che i tagli dell’amministrazione Trump riguardano anche la somministrazione della PrEP, garantita finora a livello mondiale per il 90% dal fondo PEPFAR.

Cura classica o cura funzionale?

Quindi, trovare una cura che elimini il virus dall’organismo è ancora un obiettivo prioritario. Ma quando parliamo di cura dell’infezione da HIV di cosa parliamo? Ci sono due definizioni di cura: la cura “classica” e la cura “funzionale”. La prima consisterebbe nell’eliminazione di qualsiasi particella virale in grado di replicarsi dall’organismo; si tratta di un’opzione che pone sfide sostanziali e il cui risultato è praticamente impossibile da dimostrare.

La cura funzionale invece consiste da un lato nel controllare l’infezione da HIV in assenza delle ART, il che vuol dire minimizzare i potenziali eventi di replicazione virale e nello stesso tempo migliorare il controllo del sistema immunitario e proteggere le cellule non ancora infettate. Dall’altro lato consiste nel ridurre o eliminare del tutto l’attivazione immunitaria persistente e l’infiammazione. Anche questa cura funzionale però risulta difficile da realizzare per molti motivi, come hanno spiegato bene durante il convegno CROI. Il primo problema risiede nel fatto che il virus è difficile da individuare nell’organismo. L’HIV si integra nei linfociti CD4+. Bisogna considerare che il genoma dell’HIV è una frazione minuscola di quello umano e che la sua integrazione nel genoma umano è casuale; questo vuol dire che rintracciarlo equivale a trovare un ago in un pagliaio. Inoltre, l’integrazione avviene anche nelle cellule CD4+ della memoria, ovvero quelle cellule che sono programmate per persistere perché in caso di infezioni successive potranno indurre rapidamente una potente risposta immunitaria. Questo vuol dire però che assieme alle cellule persisterà anche il virus che le ha infettate. E ancora, le cellule infettate si “nascondono” in alcuni compartimenti, ad esempio il sistema nervoso centrale, pronte per riattivarsi.

In sostanza l’ostacolo principale alla cura sta nel fatto che i reservoir delle cellule del sistema immunitario ospitano il genoma virale integrato nei loro cromosomi. Anche quando i farmaci sopprimono la replicazione del virus, questi HIV latenti possono tornare attivi quando il trattamento viene interrotto.

Pochi, ma danno speranza

Alcuni dati recenti mostrano che i serbatoi latenti di HIV inducibile e infettivo non diminuiscono nonostante decenni di terapia antiretrovirale.

Allora sorge una domanda: è possibile una cura definitiva per l’HIV? Oppure si tratta di una chimera? Ci sono alcuni casi che danno speranza, sono pochi, 7 in tutto il mondo e tutti ottenuti grazie al trapianto di cellule staminali. Si tratta di casi particolari, pazienti con l’infezione da HIV ma anche affetti da cancro. Per curare il cancro sono stati sottoposti a trapianto di staminali, che però ha portato anche alla remissione dell’infezione e, apparentemente, alla scomparsa dei serbatoi di HIV. Naturalmente non è una strada percorribile per i 38,4 milioni di persone che convivono con l’HIV nel mondo, ma dà la speranza che una guarigione sia possibile.

Negli ultimi vent’anni si è sperato in una strategia chiamata shock and kill, ottenuta attraverso farmaci chiamati latency reversal agents, il cui compito era quello di stanare il virus dai serbatoi e indurlo a riprodursi in modo da essere poi attaccato dal sistema immunitario. Ma la strategia non ha funzionato.

Oggi si può pensare a un’altra strategia, secondo quanto emerso dalla Conferenza di San Francisco: shock, clear and control. Ovvero far ripartire la riproduzione dei virus rintanati nei reservoir per poi controllarli con alcuni metodi (bNAbs, DARTs, CAR-T, anticorpi bispecifici, vaccini per HIV).

Uno dei metodi per il controllo è l’utilizzo di Broadly Neutralizing Antibodies, in sigla bNAbs. Sono dei rari anticorpi che negli studi in vitro hanno mostrato di essere in grado di neutralizzare un ampio spettro di varianti di HIV. I risultati sono promettenti. In alcune sperimentazioni si è visto che tra il 10 e il 20% di quelli che hanno ricevuto i bNAbs e poi avevano interrotto il trattamento con antiretrovirali avevano una carica virale non rilevabile per almeno 84 giorni. Due pazienti in uno studio della Rockefeller University di New York sono rimasti senza terapia per 4 anni e mezzo.

Al CROI sono stati presentati diversi studi condotti in particolare in persone che hanno iniziato una ART poco dopo il momento del contagio, e che si ritiene abbiano un numero ridotto di cellule con infezione latente. In questi studi, dopo aver ottenuto la soppressione della replicazione di HIV si sospende la ART e si somministrano, per esempio, un bNAb anche in combinazione con vesatolimod, un farmaco che stimola la risposta immunitaria antivirale, o due bNAb in combinazione con vesatolimod e vaccini che stimolano la risposta cellulare contro HIV. Poi si seguono i pazienti per vedere se è possibile mantenere la soppressione della replicazione virale senza la ART. Ci si aspetta che questo sia possibile almeno in una parte dei pazienti e che, studiando a fondo i meccanismi che consentono di mantenere la soppressione virale, si possa arrivare a definire strategie efficaci di cura funzionale.


fonte: https://www.scienzainrete.it/articolo/hiv-ha-ancora-senso-inseguire-cura-definitiva/cristiana-pulcinelli/2025-04-07


Cristiana Pulcinelli. È giornalista scientifica e scrittrice. Laureata in filosofia, vive a Roma. Ha diretto il servizio Scienza e il servizio Cultura del quotidiano l’Unità. Negli ultimi anni lavora come freelance scrivendo per diverse testate. Dal 2001 al 2014 ha insegnato al master in comunicazione scientifica della SISSA (Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati) di Trieste. È autrice di diversi libri. In particolare per ragazzi ha scritto “Alla ricerca del primo uomo. Storia e storie di Mary Leaky”. Editoriale scienza 2008 e “Pannocchie da Nobel. Storia e storie di Barbara McClintock”. Editoriale scienza 2012. Il suo libro più recente è “AIDS, Breve storia di una malattia che ha cambiato il mondo”, Carocci 2017.

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