Un rametto d’esperienza vale un’intera foresta di avvertenze. (James Russell Lowell)
Prima del 2020, nei confronti di un’eventuale pandemia avevamo forse un rametto di esperienza e tutti i nostri programmi e progetti erano basati su raccomandazioni e avvertenze formulate seguendo indicazioni razionali ma teoriche. Dal 2020 ci siamo trovati (e spesso anche persi) in una foresta di esperienza: 27 milioni di casi di una malattia infettiva, quasi 200mila morti, mezzo milione di casi tra gli operatori sanitari e una sequela, non prevista, di conseguenze sanitarie, sociali, economiche.
Uno degli aspetti teorici dei piani contro un’eventuale pandemia influenzale, prima del Covid-19, erano i piani di continuità assistenziale e produttiva. La situazione reale, di fronte alla valanga di eventi, è stata ben diversa, con un totale blocco di tutte le attività economiche, sociali, culturali, della vita di tutti i giorni, come soluzione migliore per spegnere un incendio indomabile. Avevamo avuto una foresta di avvertenze, ma non eravamo preparati.
L’unica cosa sensata da fare
Oggi non possiamo dire altrettanto. Per quanto imprevedibile sul quando, sappiamo che una pandemia non è un evento impossibile e che prepararci è l’unica cosa sensata da fare. La foresta di esperienze fatte non deve essere dimenticata e tornare a quanto vissuto e osservato deve guidare le decisioni sui nuovi piani pandemici. La disponibilità di una bozza di Piano Pandemico, al momento in valutazione alla conferenza Stato-Regioni, è l’occasione per valutare il ruolo dell’epidemiologia nel contrasto alla pandemia e verificare se la bozza di Piano nazionale risponde ai punti critici per migliorare la risposta dei nostri servizi sanitari all’emergenza. Un piano strategico e operativo dovrebbe fornire alle Regioni e PA le indicazioni essenziali per la redazione di piani locali che evitino frammentazioni inefficaci e inefficienti e potenzino le capacità di risposta.
Durante la pandemia l’epidemiologia ha fornito strumenti essenziali alla descrizione e comprensione della diffusione delle infezioni, ma molti sono stati gli ostacoli anche strutturali agli interventi di contrasto. Tra le lezioni apprese sottolineiamo qui quelle da tenere presente e per le quali l’epidemiologia può giocare un ruolo determinante.
Abbiamo imparato che, anche se la pandemia si basa sulla completa suscettibilità di tutta la popolazione mondiale, non tutti hanno la stessa probabilità di sperimentare conseguenze severe al contagio e avere necessità di assistenza sanitaria. L’età media dei deceduti è stata di 40 anni più elevata dell’età media dei contagiati e lo studio delle cartelle cliniche condotto dall’Istituto superiore di sanità su circa 8.000 pazienti ha evidenziato come la stragrande maggioranza dei deceduti fosse affetta da diverse patologie croniche. Si è parlato di sindemia per definire il sovrapporsi della diffusione di patologie croniche alle infezioni da Covid-19 e il loro potenziamento reciproco. La lotta alle malattie croniche è nell’agenda della sanità pubblica da diversi anni, e sono in corso diverse iniziative per stratificare la popolazione in livelli di rischio assistenziale. Le iniziative sono soprattutto a scopo programmatorio, ma la pandemia ha sottolineato come la spesso auspicata medicina di iniziativa, per indirizzare le raccomandazioni e gli interventi di mitigazione e prevedere le richieste di assistenza, dovrebbe basarsi sulla conoscenza della propria popolazione di assistiti, definita secondo metodi condivisi.
Per questo è necessario poter disporre di sistemi informativi interoperabili anche a livello di ASL e di personale in grado di utilizzarli (un “data steward” con competenze epidemiologiche?) per evitare duplicazioni e ritardi inutili. Il PNRR ha stanziato una cifra notevole di risorse utilizzabili con una regia efficace (Missione 6) per migliorare l’infrastruttura (e i relativi aspetti giuridici) informativa sanitaria del Paese (tra l’altro recentemente molto criticata), che non può prescindere dalle organizzazioni e disponibilità di dati locali e regionali. Prevedere e intercettare la maggiore intensità di bisogni assistenziali, anche in corso di pandemia, richiede una programmazione che eviti sistemi a silos, per cui è molto opportuno che nei piani di risposta a una pandemia siano previsti strumenti e attività di epidemiologia descrittiva focalizzati anche sulle malattie croniche e non solo sulle infezioni. L’attuale bozza di piano non affronta il problema.
Abbiamo imparato che la tempestività delle misure di controllo è fondamentale per arginare il dilagare delle infezioni, ma la tempestività dipende dalla nostra capacità di identificare precocemente i segnali che qualcosa sta succedendo, dalla capacità di indagarli e dalla rapidità di comunicazione tra servizi territoriali anche di regioni diverse. Anche per questo la velocità di intervento sulla popolazione fragile o maggiormente a rischio di conseguenze gravi (e quindi di assistenza sanitaria) dipende dalla disponibilità di informazioni rapidamente accessibili su tutta la popolazione assistita e in particolare sui segmenti a maggior rischio.
L’attuale bozza di Piano nazionale prevede alcuni sistemi di allerta nazionali (epidemic intelligence) gestiti a livello centrale per l’identificazione precoce di rischi in sanità pubblica, la loro validazione, valutazione e indagine, ma è verosimile che quando i segnali sono colti a livello nazionale sia già troppo tardi per arginare focolai locali, per cui i piani regionali dovrebbero prevedere l’accessibilità e lettura di dati locali da fonti standardizzate, secondo metodi concordati. La bozza di Piano non richiede alle regioni e PA di promuovere a livello regionale tali attività.
La sorveglianza epidemiologica è lo strumento principale per la rilevazione e lettura dei segnali di potenziale allarme e i sistemi di sorveglianza, sia per la rilevazione dei segnali che per il monitoraggio dei casi identificati, devono essere già disponibili e di uso consolidato. Durante la passata pandemia sono stati messi a punto sistemi ad hoc, realizzati a tempo record, ma che hanno richiesto sforzi aggiuntivi dalle autorità nazionali e dalle regioni e PA. Un commento dal punto di vista regionale è quello dell’Emilia-Romagna, che mise in evidenza la difficoltà di completezza dei dati richiesti in un sistema completamente nuovo. Tra l’altro la raccolta dati del sistema ad hoc prevedeva un flusso unidirezionale verso l’autorità nazionale, senza possibilità di verifiche tra una regione e l’altra. Inoltre, l’accentramento di tutti i dati ha sfavorito la lettura dei dati locali.
Durante la pandemia, AIE ha promosso una lettura granulare (fino al livello provinciale) dei dati riportati a livello nazionale dalla Protezione Civile e Ministero della Salute con lo strumento MADE, che non solo ha fornito un cruscotto, disponibile a tutti, di indicatori epidemiologici di base (incidenza, prevalenza, letalità, etc), ma ha anche dato indicazioni di evoluzione della diffusione delle infezioni, basate su modelli matematici. Nel frattempo, utilizzando una rete di operatori volontari, AIE ha raccolto dalle regioni e PA e diffuso in un bollettino settimanale la distribuzione per età dei casi segnalati ogni settimana, permettendo uno scambio orizzontale di informazioni tra diverse aree anche contigue, non disponibile all’inizio della sorveglianza unidirezionale, facilitando una lettura continua, locale, dei dati della pandemia. L’attuale bozza di piano non specifica quale sistema informativo è proposto in corso di nuova pandemia, lasciando intendere che la sorveglianza dovrebbe rientrare nel flusso ordinario di notifica delle malattie infettive, molto poco flessibile e tempestivo.
Nel periodo della pandemia anche i non addetti ai lavori hanno familiarizzato con i concetti base della diffusione delle malattie infettive e i loro parametri fondamentali. Si tratta di parametri stimabili dallo studio delle catene di trasmissione sul territorio, predittivi dell’evoluzione della pandemia e dell’effetto di interventi di mitigazione. È evidente la necessità di disponibilità in ogni ASL di competenze in grado di condurre indagini epidemiologiche sul campo mirate alla valutazione della trasmissione secondaria delle infezioni, del tempo seriale tra i casi, dei tempi di incubazione e dell’identificazione e indagine dei focolai di trasmissione per setting (scuola, ospedale, RSA, etc). Quest’ultima attività è essenziale per definire e valutare gli effetti degli interventi di controllo della diffusione delle infezioni. Alcuni parametri come il tempo seriale e di incubazione richiedono una modellistica complessa e non essere effettivamente stimabili in ogni ASL, ma vanno calcolati su dati di qualità che permettano ai pochi centri che fanno modelli di farli basandosi su dati affidabili.
Le stesse competenze per le indagini sul campo sono necessarie per effettuare la ricerca attiva dei contatti di casi contagiosi (contact tracing) per interrompere le catene di contagio. Prima della pandemia il contact tracing era indicato come l’attività fondamentale per limitare la diffusione delle infezioni. L’esperienza fatta ci dice che le modalità e le tempistiche di conduzione delle indagini vanno rivalutate (impossibili da condurre con sistemi tradizionali durante i picchi di diffusione) e soprattutto modulate in base all’incidenza delle infezioni e alla loro velocità di propagazione. Durante i picchi di incidenza quindi sono necessari sistemi ibridi con messaggistica automatica (che non possono essere improvvisati al momento e realizzati in modo difforme in tutte le regioni) e indagini ad hoc solo quando opportune. La mancanza di applicativi informatici comuni o indicazioni circa il set minimo di dati da raccogliere e il tipo di analisi da effettuare non hanno permesso di effettuare valutazioni circa l’effetto delle attività di contact-tracing e le valutazioni di tipo beneficio/costo. Il Piano nazionale lascia alle autorità regionali e di PA l’organizzazione delle attività di contact tracing, senza fornire guida o strumenti a un’attività coordinata.
L’assenza di indicatori condivisi delle attività di sorveglianza, del contact tracing, delle indagini sui focolai epidemici in diversi setting ha impedito la valutazione e il confronto a posteriori di diverse scelte organizzative attuate nelle diverse aree del Paese rendendo inutilizzabile molta dell’esperienza fatta. Senza protocolli chiari per il calcolo, diversi indicatori tra quelli del decreto emanato in corso di pandemia non sono mai stati utilizzati per l’eterogeneità dei risultati tra regioni e PA. L’attuale proposta di Piano non prevede indicatori, riproponendo una futura situazione di difficile lettura e valutazione.
Per quanto riguarda l’epidemiologia, strumento che si è rivelato decisivo nella pandemia appena vissuta, si dovrebbe tornare a parlare dei livelli essenziali di funzione epidemiologica in ogni ASL e del fatto che sebbene il DM 77/22 parli di valorizzazione dell’epidemiologia, le sue funzioni e la figura professionale dell’epidemiologo non sono previste neanche nella dotazione dei Dipartimenti di Prevenzione.
La pianificazione della risposta a future pandemie dovrebbe affrontare le molte fragilità dei nostri sistemi sanitari e un Piano che si definisce strategico-operativo dovrebbe prevedere come gestire (se non risolvere) le criticità di cui tutti ci siamo resi conto. Anche se le attività sul campo sono demandate alle regioni e PA e da queste alle ASL, la risposta non può basarsi su una gestione frammentata di interlocutori che non lavorano in sinergia e non condividono strumenti, metodi, e valutazioni di successi e insuccessi. Il contrasto effettivo a una pandemia si fa sul territorio con personale e strumenti adeguati e soprattutto preparati e che operano in modo coordinato e se l’attuale proposta di Piano Pandemico non prevede risposte in tal senso ci auguriamo che i piani regionali non saranno redatti solo come un “debito” burocratico da assolvere.
Per l’Associazione italiana di epidemiologia: Stefania Salmaso, Salvatore Scondotto, Francesco Venturelli, Matteo Renzi, Domenico Martinelli, Cesare Cislaghi, Lucia Bisceglia

Stefania Salmaso – AIE Associazione Italiana di Epidemiologia
ha una laurea in Scienze Biologiche e un Perfezionamento in Statistica Medica. Ha lavorato dal 1979 al 2015 presso l’Istituto Superiore di Sanità, svolgendo attività di ricerca e formazione in Epidemiologia applicata alla Sanità Pubblica. Ha condotto numerose indagini su epidemie e sul controllo delle malattie infettive. In particolare ha lavorato nel settore della prevenzione con vaccinazioni, collaborando con il Ministero della Salute, le Regioni e PA, AIFA e a livello internazionale con l’agenzia europea EMA e l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Ha diretto il Reparto di Epidemiologia delle Malattie Infettive del laboratorio di Epidemiologia e Biostatistica dell’ISS e dal 2004 al 2015 ha diretto il Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute dell’ISS. Alla fine del 2015 ha lasciato l’ISS. Attualmente è un esperto indipendente. Non ha mai partecipato a studi direttamente sponsorizzati da case farmaceutiche, né è mai stata oggetto di trasferimenti di valore da ditte produttrici di vaccini, neanche per la partecipazione ad eventi congressuali. Non è iscritta ad alcuna associazione o società scientifica che riceve supporto da ditte farmaceutiche.