Il reddito di cittadinanza, attribuito su base universale e incondizionata, prima di essere una forma di protezione dalla povertà, sarebbe una garanzia di libertà e uguaglianza; un dibattito, quello sorto attorno a forme più prosaiche di reddito minimo, che risponde a un cambio di paradigma nel lavoro e nel welfare; le proposte, forse utopiche, di Van Parijs, che però permetterebbero all’Unione europea di mostrare finalmente anche un volto solidale. Intervista a Giuseppe Bronzini.
Giuseppe Bronzini, presidente della sezione lavoro della Corte di cassazione, è nel Comitato dei garanti della Fondazione Basso e tra i fondatori dell’Associazione Basic income network Italia (www.bin-italia.org). Recentemente ha pubblicato Il diritto a un reddito di base. Il welfare nell’era dell’innovazione, edizioni Gruppo Abele 2017.
Il dibattito attorno all’opportunità di prevedere un reddito minimo, se non un vero reddito di cittadinanza, si inquadra anche in un mutamento di paradigma rispetto al lavoro e al welfare.
Forse val la pena fare una premessa terminologica. Il “reddito di cittadinanza” o “reddito di base” (Basic income) è un reddito attribuito su base universale e incondizionata da parte di un’autorità pubblica a tutti i cittadini di una determinata comunità politica, diretto a garantire le basi di un’esistenza libera e dignitosa.
Invece il reddito minimo garantito viene attribuito specificamente ai cittadini che versano in uno stato di bisogno o che sono a rischio di povertà. Questo reddito può essere subordinato alla disponibilità al lavoro e all’obbligo di seguire percorsi di reinserimento.
Il dibattito sul reddito di cittadinanza, che data da numerosi decenni, ha trovato un punto di condensazione filosofica nella famosa polemica tra John Rawls, autore di Una teoria della giustizia, e il suo più noto allievo, Philippe Van Parijs, che oggi insegna all’Università di Lovanio. Lo stesso Van Parijs ricorda questo scontro polemico nel volume da poco uscito per il Mulino, che è una specie di summa sulla discussione attorno al reddito di base.
Cosa successe? Che durante la presentazione di un libro di John Rawls a Parigi, Van Parijs pretese di iscrivere il reddito di cittadinanza dentro il sistema rawlsiano. Il sistema rawlsiano è il tentativo di giustificare i principi di giustizia sociale partendo dal cosiddetto “velo di ignoranza”. Cioè se noi ci trovassimo in una situazione controfattuale in cui non conosciamo la nostra posizione sociale ed economica effettiva, e dovessimo stabilire i principi di giustizia che devono governare la costituenda società, sceglieremmo di avere dei minimi vitali, cioè sceglieremmo un sistema in cui i meno avvantaggiati ricevono il massimo possibile.
Ecco, a questo punto Philippe Van Parijs disse appunto che l’idea di un reddito di cittadinanza (che, ripeto, per definizione spetta a ogni cittadino, qualunque sia la sua condizione economica e sociale), rientrerebbe nel concetto rawlsiano dei minimi vitali.
Sentito questo, Rawls si arrabbiò moltissimo e se ne uscì con il famoso paradosso del surfista di Malibu: “Perché i surfisti di Malibu dovrebbero ricevere un sussidio dallo Stato?”. Diciamo che il dibattito sul reddito di cittadinanza per decenni è ruotato attorno a questo dilemma. Nel frattempo si era anche assestato una sorta di equilibrio.
Nel senso che nelle società più avanzate, in particolar modo in Europa, dove il diritto è costituzionalizzato, è stato via via introdotto un reddito minimo garantito, sottoposto però al cosiddetto means test (prova dei mezzi), cioè a condizioni di effettivo bisogno, o comunque di rischio di esclusione sociale.
Sull’altro versante, quello del reddito di cittadinanza, si è dipanato un dibattito più filosofico, più teorico, che ruota attorno al cosiddetto ius existentiae (diritto a una esistenza degna) che si vorrebbe facesse parte del nucleo della cittadinanza.
Poiché la cittadinanza descrive l’uguaglianza tra le persone, questa uguaglianza non può dipendere dalle stesse regole che, seppure mitigate dal diritto del lavoro e dalla costituzione, regolano l’economia, che è invece il regno della disuguaglianza e comunque della competitività. Pertanto se vogliamo iscrivere l’idea di uno ius existentiae forte nella mentalità dei cittadini, si tratta di istituire, come era nell’antica Roma e Atene, un diritto di partecipare alla ricchezza generale indipendentemente dalle proprie condizioni.
Oggi molti paesi europei già prevedono un reddito minimo garantito.
Negli ultimi decenni in tutti i paesi dell’Europa a 28 (ahimè eccetto l’Italia, perché anche la Grecia si sta muovendo) è stato riconosciuto il diritto a un reddito minimo garantito.
Il diritto degli esclusi di avere comunque una copertura di minimo vitale è un principio che si va lentamente definendo come un diritto su base globale: lo riconoscono il Sudafrica, l’India, il Canada, l’Australia, la Corea, ecc.
L’accendersi di un così intenso e appassionante dibattito attorno a questi temi è anche frutto della presa d’atto di un nuovo scenario economico e sociale. Solo negli ultimi due anni si sono susseguiti alcuni eventi che segnalano la portata di questo mutamento. Penso al referendum popolare che si è tenuto nella ricca Svizzera sul reddito di cittadinanza. È vero che solo il 26% ha votato a favore, però c’è stata una grande risonanza. In alcune zone della Svizzera i sì sono arrivati quasi al 50% tant’è che alcune città hanno comunque deciso di varare qualcosa di analogo a un reddito di base. L’altro grande evento mediatico è stato che i principali tycoon dell’economia digitale, da Bill Gates a Mark Zuckerberg, a Elon Musk, eccetera, hanno promosso e sponsorizzato dei progetti sperimentali di erogazione del reddito di base con l’intento di vedere cosa succede. Per esempio, nella città di Auckland, una delle più colpite della disoccupazione tecnologica, cosa succederebbe se le persone fossero garantite da un minimo vitale?
Il terzo evento è stata la candidatura del socialista Hamon in Francia, che in campagna elettorale aveva adottato l’idea di un reddito minimo finanziato con una sorta di tassazione dei robot.
Insomma, ormai a livello globale stiamo assistendo a questo nuovo sentire che corrisponde anche a un cambiamento oggettivo. Oggi si è tornati a leggere un testo che negli anni Sessanta e Settanta per noi fu fondamentale, cioè il famoso “Frammento sulle macchine” del 1858. Marx, nel descrivere le dinamiche sprigionate dalla cosiddetta automazione, vedeva in sostanza due processi. Da un lato l’obsolescenza oggettiva, produttiva del capitale: poiché l’uomo, attraverso la scienza, l’automazione e l’intelligenza in generale, diventa immediatamente produttivo, si rende superflua la figura weberiana e marxiana dell’imprenditore, che investe, crea le infrastrutture, recluta e istruisce la forza lavoro creando un prodotto che poi rivende al mercato. Quindi l’attività umana diventa immediatamente produttiva.
L’altro aspetto, collegato al primo, e forse più imponente, è che volgarmente le macchine si sostituiscono all’uomo che quindi si può dedicare ad attività superiori.
Ecco, oggi si determinano entrambi questi processi. La tecnologia sta liberando attività umana, con la duplice conseguenza che milioni di lavoratori rischiano di diventare obsoleti e però, al contempo, il lavoro potenzialmente diventa più creativo e perde la sua tradizionale connotazione eterodiretta. Perché oggi è in crisi il contratto di lavoro subordinato? Perché il lavoro rientra sempre meno nelle griglie di un’attività appunto eterodiretta, nello schema dell’unità di tempo, di luogo e di azione.
Oggi, per la verità, c’è un grande dibattito se effettivamente la tecnologia riduca seccamente il numero dei posti di lavoro. Io penso che, almeno nel medio periodo, lo riduca, però certamente ne cambia la natura; in gran parte non è più il lavoro di fabbrica; è un lavoro che troviamo in mille rivoli, in cui spesso manca un orario, un datore di lavoro, che talvolta si svolge all’interno di una relazione peer to peer con i propri consimili in uno scambio di servizi. Quel che oggi manca è un movimento internazionale che segnali la centralità di questo tema e promuova un percorso di aggiornamento del welfare in senso universale e inclusivo.
Sottolinei come stiano aumentando anche le forme di cooperazione tra pari.
Proprio perché parte dell’attività umana è diventata immediatamente produttiva (puoi accedere a internet, usare mezzi e risorse comuni), oggi si assiste a una grande esplosione di istanze cooperativistiche, mutualistiche. A questo punto è chiaro che un intervento pubblico come quello che fa, per esempio, il comune di Barcellona che aiuta queste cooperative, le struttura, offre strumenti di comunicazione e autorganizzazione, ridiventa qualcosa che tecnologicamente è alla nostra altezza.
Oggi la digital economy libera energie, relazioni, creatività, occasioni produttive, ma, al tempo stesso, mostra un vistoso deficit di protezioni nelle condizioni di lavoro e nel welfare. Un reddito di base diventa allora essenziale per tutelare e proteggere queste persone, ma anche per valorizzarle. La sfida oggi è riconoscere e proteggere anche quel lavoro che sfugge alle nostre griglie tradizionali. Non dimentichiamo che, quando si parla di flexicurity, la flessibilità non è solo quella pensata per andare incontro ai datori di lavoro, ma anche quella dei soggetti: le persone sono sempre meno disposte a fare lo stesso lavoro per tutta la vita, quindi dubito che questo incaponirsi a ricondurre tutto al lavoro subordinato e tutelato sia la sola strada giusta.
Nella battaglia per il diritto a un reddito di cittadinanza c’è anche l’idea di partecipare a una ricchezza che noi stessi abbiamo contribuito a creare.
Il primo teorico di una proposta di un reddito di base sufficientemente completa e dettagliata è Tom Paine, l’eroe dei due mondi, che espose una sua idea di reddito minimo al Direttorio nel 1796; alla fine non se ne fece nulla, per quanto la Costituzione giacobina, all’art. 21, sancisca il diritto ai “soccorsi pubblici” (“I soccorsi pubblici sono un debito sacro. La società deve la sussistenza ai cittadini disgraziati, sia procurando loro del lavoro, sia assicurando i mezzi di esistenza a quelli che non sono in condizione di poter lavorare”).
Quali erano gli argomenti di Paine? Nel pamphlet che presentò al direttorio, “Agrarian Justice”, tenne questo discorso: “La terra è di tutti, originariamente appartiene a ciascuno, però il nostro sistema economico e le regole costituzionali che i paesi si sono dati hanno ammesso le ‘enclosures’ (recinzioni) e quindi la proprietà privata”.
Insomma, da buon contrattualista, Tom Paine diceva: siccome ci si appropria di una ricchezza che in origine è collettiva, è doveroso restituire a tutti i cittadini co-proprietari, in linea di principio, di questa ricchezza comune, almeno lo ius existentiae, cioè l’accesso ai beni vitali.
Oggi tale argomentazione è stata ridefinita in questi termini: attualmente le aziende più quotate sono quelle tecnologiche, i famosi “big five”, Apple, Microsoft, Google, Amazon e Facebook. Bene, la loro fonte prioritaria di ricchezza è creata da noi: è il grande deposito dell’intelligenza umana. Allora, siccome, si appropriano di risorse collettive (l’intelligenza, il sapere, i dati, le informazioni, eccetera), dovrebbero restituire (per la medesima argomentazione di Tom Paine) almeno il diritto di ciascuno di avere quel minimo per condurre un’esistenza libera e dignitosa.
Non a caso una delle idee avanzate per finanziare un vero e proprio reddito di base è proprio quella di tassare la cessione dei dati.
Negli anni Settanta e Ottanta, i grandi keynesiani a favore del reddito, come Meade, Tobin, ecc., pensavano soprattutto a una misura per socializzare le ricchezze, cioè a un intervento redistributivo.
C’è ora quest’ulteriore aspetto, che alcuni mettono in rilievo, e cioè che in un certo senso il reddito è anche remunerativo. Anche se non svolgiamo alcun tipo di attività riconducibile alla nozione di lavoro, cioè non svolgiamo alcuna prestazione formalizzata, possiamo comunque produrre ricchezza. Ogni volta che operiamo su internet, per esempio, produciamo un valore che si aggiunge al complesso informativo di cui appunto i grandi ricchi della terra si appropriano indebitamente. Quindi il reddito avrebbe anche questo valore di remunerare un’attività che è irriducibile al lavoro.
Qual è il rapporto tra un eventuale reddito di base e il welfare? Esiste anche una proposta “di destra” di reddito minimo che però punta a ridurre lo stato sociale.
È la proposta di Milton Friedman che però non è quella in agenda.
Van Parijs è legato alla sinistra socialdemocratica europea (scrive su “Social Europe” e ha presentato una proposta di reddito di base europeo su cui poi magari torniamo); nelle proposte della rete Basic income european network, il reddito di cittadinanza non è affatto una misura sostitutiva al welfare; è una misura che casomai lo integra.
Nel 2015, assieme a Giuseppe Allegri, giovane costituzionalista, abbiamo scritto Libertà e lavoro dopo il Jobs Act, sottotitolo: “per un garantismo sociale oltre la subordinazione”.
Lì abbiamo descritto un pacchetto di misure pensate per garantire i nuovi lavori, cioè quelli che eccedono la subordinazione, dove il reddito è un elemento, ma ce ne sono tanti altri: dal salario minimo a un nuovo modo di prevedere dei contributi per chi non svolge un lavoro subordinato. Perché appena si esce dal circuito della subordinazione, il famoso welfare diventa ineffettivo.
L’idea è quella di un welfare universale, che tuteli la persona lungo tutto l’arco della vita, anche in assenza temporanea di un lavoro.
È una questione che anche il Parlamento Europeo, nella risoluzione sul “social pillar”, ha messo in evidenza: dev’esserci un trattamento minimo che vale trasversalmente per tutte le attività lavorative.
Insomma, l’idea del reddito minimo non è, come teorizza Milton Friedman, sostitutiva delle misure sociali, anche se certo tende a una loro razionalizzazione, cioè a non moltiplicare le forme di sussidio per chi si trova in situazioni di difficoltà, ma a renderle univoche e coerenti. Quindi, ripeto, non c’è questa alternatività. È un po’ il completamento del welfare in condizioni di trasformazione del mondo del lavoro, se non addirittura di una sua eclissi, secondo qualcuno.
Uno dei problemi, nel nostro paese, è che non solo non esiste alcun idoneo strumento di sostegno per chi è a rischio di esclusione sociale, ma ci sono mille forme di pseudo-sostegno clientelari, corporative, frammentate, spesso ignote, che comportano un’enorme spesa pubblica senza alcuna trasparenza.
Ora che il reddito minimo è entrato in agenda, si stanno sperimentando anche delle forme “miste”, che cercano di andare oltre la cosiddetta “condizionalità”. Puoi spiegare?
È così: si stanno cercando delle soluzioni intermedie tra reddito minimo garantito e reddito di base. Tra l’universalismo dello ius existentiae e una sua versione selettiva (cioè tra un reddito per tutti e uno invece solo per chi è a rischio di esclusione sociale). Sono in corso progetti pilota abbastanza importanti in giro per il mondo. Significativo è quello governativo in Finlandia, ma poi ce ne sono di analoghi altrove. Sono sperimentazioni di reddito minimo garantito, quindi per persone a rischio di esclusione sociale, ma incondizionato.
In queste sperimentazioni si garantisce il reddito minimo a chi è a rischio di esclusione sociale, però non c’è la costrizione al lavoro. Così funziona in Finlandia, nella regione francese dell’Aquitania, a Utrecht, ecc. Sono tentativi rilevanti anche proprio per verificare cosa succede. Circa un mese fa il monitoraggio ufficiale del governo finlandese comunicava che, in presenza di un reddito minimo, la propensione al lavoro addirittura aumenta, perché le persone si sentono al sicuro e quindi il lavoro lo cercano.
Il tema della condizionalità, cioè di subordinare questo reddito minimo a misure di formazione coatta e burocraticamente gestita, è controverso, perché se effettivamente il lavoro ha cambiato natura o non c’è, forzare le persone a cercarlo può essere una forma di mortificazione, se non di stigma. Oltretutto non è chiaro oggi come orientare le persone, perché una cosa è formare un idraulico, un’altra è accompagnare una persona in un percorso creativo. Quindi è meglio forse lasciare libero l’individuo, sorreggendolo, dandogli degli strumenti in positivo, ma senza esercitare una pressione, che tra l’altro porta spesso con sé un connotato negativo, anche umiliante.
Questo problema è tanto più evidente in Italia perché non abbiamo politiche attive adeguate, anche perché non abbiamo il personale, cioè i nostri dipendenti dei servizi dell’impiego sono un ventesimo di quelli della Francia e della Germania. In un simile contesto è difficile parlare di formazione e orientamento.
Ora, queste soluzioni intermedie vengono osservate con attenzione sia dai sostenitori del reddito minimo garantito che da quelli del reddito cittadinanza. Perché il problema più grave del reddito di cittadinanza oggi non è tanto il dilemma sul surfista di Malibu, bensì la sua sostenibilità.
Qualcuno vede nell’introduzione del reddito di cittadinanza il rischio di una situazione in cui chi lavora “mantiene” chi non lavora. È un rischio reale?
Attenzione, lo stimolo al lavoro non viene meno, perché qui parliamo sempre di minimi. Il reddito minimo garantito, ma anche il reddito di cittadinanza, dovrebbe essere pari al 60% della retribuzione mediana da reddito di lavoro, quindi siamo al di sotto dei minimi salariali.
Oggi sappiamo anche che i redditi di chi lavora sono bassi. Ecco, intanto il reddito minimo può essere un antidoto contro i lavoretti. Come combatti le storture della cosiddetta gig economy? Innanzitutto con un reddito decente che ti liberi dal ricatto di accettare un lavoro purchessia. C’è anche chi dice che in presenza di un reddito di base non lavorerà più nessuno, o comunque nessuno andrà a fare lo spazzino. Sarà interessante vedere cosa succede.
In realtà, le sperimentazioni che citavo sono interessanti proprio perché dalle prime indagini pare non succeda affatto questo: le persone non angosciate si ingegnano a trovare o inventare un lavoro, o magari tornano a studiare… Certo, a quel punto lo spazzino lo dovrai pagare di più… Ma a me pare che questo sarebbe uno degli effetti positivi del reddito minimo!
C’è un ulteriore strumento, che ha un’aria di famiglia con il reddito minimo, cioè il salario minimo, che purtroppo l’attuale segreteria della Cgil osteggia.
Sono tutti temi su cui si sta discutendo.
Comunque, ripeto, per definizione, il reddito minimo deve portare con sé l’incentivo a lavorare perché questo è il livello di mediazione con il bisogno sociale.
In realtà c’è pure una terza via. Esiste una corrente di mediazione importante, che fa capo a Anthony Atkinson, allievo di James Meade, che propone il “participation income”. Il reddito di partecipazione si trova a metà strada, non per l’entità della misura che è sempre il 60%, ma perché spetta a tutti coloro che dimostrano di “partecipare” alla vita collettiva, quindi sulla base di un’azione che non è quella classica del lavoro, ma può essere un’attività di cura, volontariato, eccetera, eccetera.
È un’idea suggestiva. A questo punto però si moltiplicano le difficoltà perché l’apparato di controllo deve aumentare. Claus Offe ha calcolato che, se si istituisce il reddito minimo, metà della spesa se ne va in apparato di controllo. Questo è molto plausibile. Ecco, nella versione di Atkinson, se tu allarghi la nozione di “attività” poi chi decide se portare fuori il cane del vicino fa parte della partecipazione o no? Insomma, diventa molto complesso e molto costoso.
Queste formule intermedie sono interessanti anche perché obiettivamente, allo stato attuale, non si saprebbe bene come finanziare un vero reddito di cittadinanza. Una forma potrebbe essere la web tax, in cui si tassa la cessione dei dati; un’altra idea, però in chiave antisviluppista, da decrescita, è quella di pensare a un’Iva che colpisce molto i consumi. Ci sono delle simulazioni, però ancora siamo lontani da un modello sostenibile.
Anche per questo si sta ragionando sul reddito minimo garantito, con l’aspirazione però a renderlo più inclusivo, più forte e meno stigmatizzante.
Il sindacato può avere un ruolo in questa partita?
Certo. Storicamente gli accordi di flexicurity in Olanda, Svezia, Danimarca, eccetera, dove il reddito minimo garantito è un pezzo importante del sistema, sono stati sottoscritti dalle grandi sigle sindacali. Persino la legge della Regione Lazio sul reddito minimo garantito, promossa da Marrazzo (rimasta in vigore per un anno e in seguito definanziata), che è un po’ lo schema che abbiamo seguito nel formulare la nostra legge popolare, era frutto di un accordo sindacale.
Purtroppo oggi vedo una grossa miopia da parte del sindacato nazionale. A me sembra che queste formule sarebbero una forte garanzia di libertà, oltre che di tutela economica, per i lavoratori.
Il Jobs act in qualche modo prometteva un cambio di paradigma. Tu però parli di speranze tradite…
La novità più significativa del Jobs act in tema di ammortizzatori sociali era quella che prevedeva nuove misure di tutela contro la disoccupazione in un’ottica di flexicurity, che significa spostare le tutele sociali dal rapporto di lavoro al mercato del lavoro, compensando la maggiore flessibilità necessaria per la competitività delle imprese con politiche attive e misure di sostegno al reddito. Insomma, l’idea c’era, il problema è che non è stata realizzata. Alla fine i soldi sono stati investiti negli sgravi contributivi, quindi in chi già lavorava, per giunta a tempo indeterminato, cioè nella modalità tradizionale e più tutelata. Per questo dico che è un problema di scelte, non di fattibilità; purtroppo anche la contrarietà del sindacato non ha aiutato. Bisognerebbe tornare a pensare a uno statuto dei nuovi lavori più inclusivo, con nuove tutele, estraendole da quel patrimonio, da quel set di strumenti che i giuslavoristi hanno elaborato nel corso degli anni per applicarli a queste nuove realtà.
Il Rei, in vigore da quest’anno, è il primo embrione di un reddito minimo garantito, però presenta dei problemi. Puoi raccontare?
Il Rei non può essere considerato un vero reddito minimo per due ragioni: il target e i vincoli. Non solo, il reddito minimo, per essere minimamente coerente con la Carta dei diritti fondamentali, deve essere individuale (non possono esserci membri della famiglia che sono abbandonati alla carità del soggetto che percepisce i soldi). Naturalmente se in famiglia ci sono più persone, subentra un coefficiente che riduce ragionevolmente l’importo erogato.
Ecco, i difetti del Rei sono: primo, che è troppo basso, poi, che ha un’impostazione familiare, infine, che è condizionato a un percorso di integrazione sociale e lavorativa; non solo, una parte viene erogata con la carta acquisti, una misura che rischia di essere umiliante.
Hai citato una proposta di dimensione europea. Di cosa si tratta?
Van Parijs, sempre nel tentativo di mediare tra queste due prospettive, ha presentato una proposta al gruppo socialdemocratico europeo, in cui suggerisce di mantenere gli schemi di reddito minimo garantito laddove vigenti, magari rendendoli meno coercitivi, più promozionali e, accanto, prevedere uno zoccolo, una dotazione economica minima destinata a ciascun cittadino europeo, che costituisca anche il simbolo di una federazione europea.
Si tratta di un reddito di base per tutti i cittadini, compreso il “surfista bulgaro”, che diventerebbe una cifra della cittadinanza europea; una misura la cui efficacia sarebbe non solo simbolica nei paesi dove il reddito da lavoro è molto basso.
Van Parijs prevede, nello specifico, 180 euro al mese; cifra che verrebbe finanziata con le risorse che oggi vanno alla Pac, la politica agricola comune (per dirlo con una battuta, si trasferirebbero i fondi dalla Borgogna alla Romania) e poi con una web tax, sulla base di un bilancio realistico al 5%. Se non fosse sufficiente, c’è anche l’ipotesi di un micro aumento di Iva, tipo dell’1%, da stanziare per un reddito di base europeo.
Lo scorso 17 novembre, in occasione del vertice sociale europeo di Göteborg, è stato proclamato ufficialmente il “pilastro europeo dei diritti sociali”, che prevede, tra l’altro, il diritto, in caso di disoccupazione, a una tutela per tutti; l’accesso a un welfare anche per i lavoratori atipici, un salario minimo, politiche attive, ecc. In questa dichiarazione di Göteborg, la formulazione del reddito minimo è stata rafforzata; si cita un “adequate minimum income” (reddito minimo adeguato); inoltre si parla di incentivi, più che di misure coercitive. Suona una formula felicemente flexicuritaria, in cui prevale l’idea di accompagnare e sostenere.
Investendo finalmente anche sul “pilastro sociale”, l’Europa avrebbe l’opportunità di cambiare volto davanti ai suoi cittadini.
Il reddito di base potrebbe diventare uno dei simboli per un’Europa federale e sociale. Una riflessione politica su questa misura sarebbe un passo concreto verso la costituzione di una cittadinanza continentale europea. Bisognerebbe ripartire proprio da qui: dalla nuova questione sociale europea. Rilanciare il progetto di integrazione attorno a un quadro sociale “minimo” di tutti i cittadini dell’Unione: oltre al reddito minimo, un salario minimo, un sistema comune di gestione della disoccupazione…
Già nel “Manifesto di Ventotene”, Rossi e Spinelli, nel descrivere una futura Europa, che fosse solidale ecc., parlavano di un reddito di esistenza che sarebbe servito anche per evitare forme di lavoro iugulatorio (“Così nessuno sarà più costretto dalla miseria ad accettare contratti di lavoro iugulatori”).
Pensate, già nel ’41 si erano posti questo problema!
Fonte: Una Città