Il vecchio e il nuovo delle disuguaglianze territoriali in Italia. di Gianfranco Viesti

Gianfranco Viesti ricollegandosi a un suo precedente intervento, compara il livello di valore aggiunto pro-capite delle province italiane nel 2021-22 con quello di inizio secolo. Dal confronto emerge l’arretramento relativo di molte province del Centro-nord, prevalentemente per la contrazione della loro base industriale, oltre che di Torino e Roma. Cresce solo Milano. Questa tendenza appare preoccupante per l’intera economia italiana e per gli stessi abitanti di Milano, soggetti a notevoli costi di congestione, e a un aumento delle disuguaglianze.


In un precedente intervento sul Menabò ho analizzato le disparità territoriali in Italia a livello di province, utilizzando i più recenti (2022) dati disponibili sul valore aggiunto per abitante. Rispetto ad una tradizionale descrizione dell’Italia come suddivisa fra un Centro-nord e un Mezzogiorno relativamente omogeni al loro interno, i principali messaggi cui si era pervenuti sono tre: i) permane il forte ritardo e la rilevante omogeneità del Sud (pur con qualche limitata eccezione); ii) vi è una grande diversità interna al Centro-nord; iii) si notano, in alcuni casi, profonde disuguaglianze infra-regionali. La valutazione forse più interessante che se ne può dedurre, quindi, è la presenza di significative disparità anche all’interno delle regioni centro-settentrionali, e dell’insieme della macroarea.

Ora possiamo chiederci: quanto questo quadro è diverso dal passato? La risposta è: in misura significativa.

Per giustificare questa risposta utilizziamo lo stesso indicatore, il valore aggiunto a prezzi correnti per abitante delle province, espresso in numero indice (Italia=100). Qui viene presentato e comparato nelle medie biennali 2000-01 e il 2021-22. I dati sono diffusi dall’Istat, anche se con modalità diverse per l’arco di tempo considerato: per gli ultimi anni è disponibile, già calcolato, il rapporto valore aggiunto/popolazione, mentre per i precedenti il solo valore aggiunto, che è stato diviso per la popolazione residente in media d’anno. Va tenuto poi presente che, se vi sono fenomeni di pendolarismo, cioè di cittadini che vivono nella provincia A e lavorano nella provincia B, l’indicatore così calcolato amplifica il valore aggiunto per abitante della provincia B, dato che ne accresce il numeratore e non il denominatore (e l’opposto accade per la provincia A); in alcuni specifici casi ciò potrebbe essere significativo; comunque è opportuno leggere i dati che seguono più come indici di capacità produttiva di ogni territorio (ponderata per la dimensione demografica) che come indicatori di benessere. Come detto, i dati disponibili sono in valori correnti (il che sconsiglia di calcolare tassi di crescita in assenza di un opportuno deflatore), e vengono espressi in numero indice rispetto alla media nazionale. Questo significa che misurano performance relative e non assolute (che, come sappiamo da altre analisi non sono state particolarmente buone per tutti i territori italiani, specie in comparazione internazionale); per definizione, se l’indice migliora per alcune province, peggiora per altre. Infine, va tenuto presente che i 22 anni considerati hanno visto fasi differenti: pre-crisi, gli anni della drammatica difficoltà della nostra economia, poi la ripresa pre-covid, la pandemia, e i buoni dati del 2021-22. Le performance relative delle province sono diverse in queste fasi, ma qui si concentra l’attenzione solo sulla trasformazione d’insieme nell’intero periodo.

Come è cambiata la geografia dell’economia italiana? La risposta è sorprendentemente semplice: hanno “perso” diverse province industriali del Centro-nord, ha “vinto” Milano.

Sul fronte dei “perdenti”, la tabella 1 mostra le (molte) province con un sensibile calo dell’indicatore in questa prima parte del XXI secolo.

Questo insieme di territori comprende molte province fortemente industrializzate, alcune delle quali affermatesi nei decenni precedenti come sedi dei più importanti distretti industriali italiani. È il caso di Prato, Biella e Como, che rientrano tutte fra le province con i dati peggiori, specializzate in vari ambiti del tessile-abbigliamento. Ma anche delle aree marchigiane di Fermo e Ascoli Piceno, che storicamente hanno avuto una rilevante produzione calzaturiera. Ma non si tratta solo di beni tradizionali di consumo. Colpisce il regresso relativo di province ad alto reddito e forte e diversificata industrializzazione come Varese e Pavia (che hanno un calo molto forte), ma anche Lodi, Lecco, Pordenone. Regressi di minore entità, un po’ sorprendentemente, si registrano anche per Bergamo e Cremona. Regrediscono anche aree dell’Italia Centrale come le due province umbre e Viterbo, e la provincia emiliana “debole” di Ferrara. In tutti questi casi il regresso relativo pare legato all’indebolimento della presenza della manifattura. Si noti la presenza di diversi territori di una regione con un’economia molto forte come la Lombardia; e l’assenza, invece, di province venete e emiliane (tranne Ferrara, appena citata). Le uniche due province del Sud presenti sono Pescara e Ragusa (con i dati di quest’ultima fortemente condizionati dalla variabilità dei valori delle produzioni agricole).

Dato che viene presa in considerazione la differenza in punti percentuali fra le medie 2000-01 e 2021-22 è più facile che la tabella includa province con valori relativamente alti all’inizio del periodo, tra cui non rientrano quelle del Sud, già con valori modesti dell’indice, per le quali è più difficile perdere molti punti. Ma l’esercizio ripetuto considerando il calo percentuale (e non la differenza dei valori dell’indice) rispetto al 2000-01 non dà un quadro molto diverso: al Sud si aggiungerebbero solo Benevento e Caltanissetta. Il Mezzogiorno era molto indietro e molto indietro è rimasto, ma l’arretramento relativo del XXI secolo riguarda principalmente aree del Centro-nord.

Vi sono poi i casi, particolarmente interessanti, e in larga misura già noti, di Torino e Roma. Sulla prima si vedano ad esempio gli studi di ricercatori del Politecnico di Torino e il bel libro di Berta, Bagnasco e Pichierri; sulla seconda si veda una recente, pregevolissima analisi Banca d’Italia di Bronzini e altri. Qui, ad un calo delle attività industriali (particolarmente sensibile a Torino) si associa una crescita relativamente modesta delle attività terziarie a maggior valore aggiunto.

E proprio il tema cruciale del terziario più avanzato, ci porta alle province che invece hanno guadagnato. Sono elencate nella tab. 2, con lo stesso criterio della prima tabella (scarto di più o meno 7 punti percentuali). Si vede innanzitutto che sono molte meno delle precedenti. Questo significa che l’attività economica in Italia si è maggiormente polarizzata: circostanza confermata da un aumento della dispersione degli indici; la loro varianza, calcolata nei due bienni per l’insieme delle 109 province, cresce di oltre il 7%. Nella tabella 2 ci sono alcuni casi molto particolari, come Siracusa e Potenza, legati alle vicende della chimica e dell’auto (che nel periodo recente sono divenute preoccupanti), un gruppetto di province toscane e soprattutto tre città. Un po’ a sorpresa Trieste, che tuttavia è provincia geograficamente piccolissima: il dato potrebbe essere influenzato dal pendolarismo e va letto con cautela. Poi Bolzano, che certamente ha conosciuto una ottima tenuta delle sue produzioni industriali – molto legate al mondo mitteleuropeo – e uno sviluppo del terziario.

Ma il caso nettamente più importante della tabella 2 è Milano: l’aumento di valore aggiunto per abitante è nettissimo e ne consolida l’assoluta prevalenza in Italia. Anche qui ci può essere qualche distorsione legata al pendolarismo, ma i dati rispecchiano un cambiamento reale. È nel capoluogo lombardo che si è largamente concentrata la crescita di attività terziarie ad alto valore aggiunto verificatasi in Italia. Bologna e Firenze mantengono un valore aggiunto per abitante significativamente maggiore della media (intorno a 135); città come Genova o Padova pure mantengono la loro posizione (intorno a 115). Ma solo Milano aumenta, e di molto.

Fin qui i dati, che segnalano un’interessante caratteristica dello sviluppo italiano. In tutta Europa il XXI secolo è stato caratterizzato da performance migliori delle aree urbane, di grande e media dimensione, rispetto ai territori non urbani. Trasformazioni connesse al mutamento strutturale dell’economia, al calo relativo della manifattura e al forte incremento dei servizi a maggior valore aggiunto, anche a matrice digitale, che possono essere commerciati a distanza; e che tendono a sfruttare le economie di agglomerazione delle aree urbane. Ora, però, in Italia questo non ha comportato un diffuso rafforzamento del sistema urbano, ma una forte concentrazione nella sola Milano: Torino e Roma sono arretrate, le città del Sud rimaste molto deboli.

Sarebbe interessante discutere, anche per le implicazioni per le politiche pubbliche, di queste circostanze (come si era provato a fare, con scarso successo, già alcuni anni fa). Vi sono infatti motivi per pensare che esse non siano positive tanto per una porzione non piccola degli abitanti della stessa Milano quanto per l’intero paese.

Sul primo fronte, l’aumento del valore aggiunto per abitante non si traduce automaticamente in una crescita del benessere medio per tutti. Come messo in luce da studi condotti nell’ambito dell’associazione Urbanit, specie da docenti del Politecnico (e come recentemente messo in luce in maniera estremamente critica da una recente analisi e da una indagine giornalistica), gli sviluppi recenti dell’area milanese hanno visto, con la crescita delle attività terziarie, un notevole ricambio di popolazione, con l’espulsione dalla città dei ceti più deboli anche in connessione al fortissimo aumento dei costi dell’abitare; che a sua volta si è tradotto in un fortissimo incremento della rendita urbana (specie a vantaggio di operatori speculativi esteri) e in un aumento delle disuguaglianze urbane. L’iper-concentrazione, dunque, può portare a diseconomie da congestione e a premi alla rendita più che all’innovazione (come segnalato da tempo anche da analisi Banca d’Italia, ad esempio sintetizzate in un Rapporto Urbanit).

Sul secondo fronte, si può qui semplicemente ricordare come la presenza di un tessuto diffuso e diversificato di economie urbane possa rappresentare (come nell’esperienza tedesca) un fattore molto positivo nei processi di sviluppo di un’economia nazionale; e che al contrario la iper-concentrazione e l’accrescimento delle disparità (come nell’esperienza britannica) possano essere forieri di squilibri di natura non solo economica.

Spiace che il tema sia ormai da tempo fuori dal dibattito pubblico e dagli obiettivi delle politiche pubbliche.

fonte: https://eticaeconomia.it/il-vecchio-e-il-nuovo-delle-disuguaglianze-territoriali-in-italia/

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