Pubblichiamo qui un estratto della prefazione al libro “Un ossimoro da cancellare”, frutto di un lavoro di ricerca de “La società della ragione”, condotto tra il 2022 e il 2023 grazie al contributo della Chiesa Evangelica Valdese e alla collaborazione dell’Ufficio del Garante dei detenuti della Toscana.
Da 250 a 300 persone subiscono una pena aggiuntiva dopo aver scontato la condanna. Sono i destinatari delle misure di sicurezza, un meccanismo perverso di epoca fascista. Da abolire. Un fenomeno, quello delle case lavoro e delle colonie agricole – nove strutture in tutto – che sta al margine perché riguarda un numero esiguo di persone, ma anche perché ne intercetta la marginalità, non per supportarla ma per punirla.
Sono strutture che ospitano una popolazione che, piuttosto stabilmente da anni, oscilla attorno alle 250-300 persone, di cui un numero davvero ridottissimo – sempre inferiore a 10, negli ultimi anni – sono donne. Le case di lavoro sono realtà ignorate e sconosciute, o per dirla con le parole di Valerio Onida, in una delle poche pubblicazioni recenti sul tema (De Vanna, 2020), sono “trascurate”, “una “provincia” un po’ dimenticata del nostro diritto penale”.
Le Case Lavoro raccolgono un piccolo numero di condannati, secondo lo stigma lombrosiano dei delinquenti abituali, professionali o per tendenza. Persone che, quasi per un perverso gioco alla roulette, vengono “sorteggiate” tra le decine di migliaia di condannati e colpite da una misura di sicurezza che sarà eseguita dopo avere scontato la pena detentiva. Aggiunta, quindi, alla pena. La differenza non è da poco, mentre la quasi totalità dei prigionieri esce dal carcere, i malcapitati entrano in un altro luogo di afflizione. Il paradosso è che la misura di sicurezza si può rivelare senza fine temporale e certamente senza un fine riabilitativo.
Si aggiunge alla pena, erodendone la certezza (principio spesso assunto come valore assoluto), rendendone ignota la durata e portando nei fatti a una doppia pena. Se, infatti, le misure di sicurezza sono teoricamente distinte dalle pene – le prime basate sulla pericolosità sociale che mirano a contenere e in prospettiva a rimuovere, le seconde sulla colpevolezza -, ciò che emerge dall’applicazione pratica è una sostanziale omogeneità tra pena e misura di sicurezza. A partire dai luoghi in cui le misure di sicurezza vengono eseguite, spesso sezioni di case circondariali o di reclusione, in tutto uguali alle sezioni detentive, senza differenze nel trattamento né nell’accesso al lavoro.
La riforma del 2018 (D.lgs. 124) ha stabilito che il lavoro penitenziario è volontario e retribuito (con uno stipendio pari ai due terzi di quanto previsto dalla con- trattazione collettiva), non ha carattere afflittivo e deve riflettere l’organizzazione e i metodi del lavoro nella società libera: essa ha così sancito l’allontanamento definitivo dal modello precedente di lavoro coatto e reso (quasi) uguale il lavoro penitenziario a quello libero. È dunque, a maggior ragione, paradossale che le case di lavoro non offrano lavoro, o comunque non offrano un lavoro formativo e spendibile nella società libera. L’altro nodo critico è quello della casa.
Nella sua concretezza, la Casa di Lavoro è un luogo chiuso, un’istituzione totale al pari del carcere, lontano dagli affetti e dagli interessi. Se la funzione che, in teoria, le case di lavoro dovrebbero soddisfare non è più attuale nella società di oggi, né è stata sostituita da una diversa funzione, costituzionalmente orientata al reinserimento sociale, a cosa servono le case di lavoro? Le visite nelle nove case lavoro hanno offerto uno spaccato spesso drammatico, con le case di lavoro collocate nell’edificio del carcere, come a Vasto e ad Alba, con un’evidente “truffa delle etichette”, o con la riconversione del manicomio criminale in pseudocasa lavoro, come ad Aversa e a Barcellona Pozzo di Gotto.
L’unica struttura che risponde alla mission proclamata è quella di Castelfranco Emilia. La visita ad Aversa, ultima tappa di questo giro kafkiano, fu impressionante per i racconti dei cinquanta internati che incontrammo nella sala socialità e dai quali ascoltammo le denunce circostanziate delle incongruenze che si scaricano su di loro. Molti lamentano che il passaggio dalla casa lavoro alla libertà vigilata è segnato dall’incertezza, perché basta una violazione alle prescrizioni di comportamento per tornare in casa lavoro con un nuovo provvedimento di misura di sicurezza detentiva: “questo è un ergastolo bianco, noi lo sappiamo”, è stato il grido condiviso.
Non mancano, nelle case di lavoro, utilizzi “creativi” della misura. Un giovane del Ghana aveva un decreto di espulsione che non si riusciva ad eseguire e quindi la misura di sicurezza veniva prorogata in attesa che l’Ambasciata del suo Paese lo riconoscesse come cittadino e potesse tornare dalla madre. Un altro lamentava di avere finito la misura e di essere ancora lì: per fortuna il giorno dopo tornò a casa, seppure con venti giorni di detenzione in più. Ecco alcune delle voci che dipingono una realtà di dolore: “Internati si chiamavano gli ebrei nei campi. Non sarà un caso. C’à nun s’esce mai”; “Preferiamo tre anni di carcere che uno di casa lavoro”; “Siamo in uno Stato democratico e dobbiamo avere la misura dei tempi di Mussolini”.
Abbiamo verificato che in questo microcosmo si verificano delle assurdità come l’utilizzo della Casa lavoro per alcuni detenuti sottoposti al regime del 41bis a Tolmezzo. Altrettanto stravagante è la realtà delle poche donne alla Giudecca di Venezia. Anche gli educatori e la polizia penitenziaria condividono la necessità di far chiudere la Casa lavoro.