COP16 a Roma: la sfida di un approccio olistico per la biodiversità. di Laura Scillitani

Dal 25 al 27 febbraio, Roma ospita la Conferenza delle Parti per la biodiversità, che riprenderà gli argomenti rimasti in sospeso a seguito della sospensione della COP16 a Cali, in Colombia, per mancanza di quorum. I temi cardine saranno i finanziamenti, i metodi di monitoraggio e l’integrazione con altri programmi. La crisi della biodiversità, infatti è strettamente legata alla disponibilità di risorse idriche e alimentari, alla salute e al cambiamento climatico e occorre un approccio olistico


Questa settimana, dal 25 al 27 febbraio, si svolge a Roma, presso la sede della FAO, i lavori della Conferenza delle Parti (COP) sulla biodiversità, una sorta di “COP16 bis”, che mira a riprendere le negoziazioni interrotte bruscamente a Cali lo scorso novembre (su Scienza in rete ne abbiamo parlato qui). Due i grandi temi: il fondo globale per la biodiversità e la definizione dei metodi di monitoraggio per valutare i progressi dei paesi firmatari nell’arrestare la perdita di biodiversità.

La COP16 è stato il primo incontro dopo l’adozione del Kunming-Montreal Global Biodiversity Framework, piano d’azione globale firmato il 19 dicembre 2022 da 196 Stati, che poggia su quattro pilastri: protezione e ripristino della biodiversità, uso sostenibile delle risorse naturali, equa condivisione dei benefici e adeguato sostegno finanziario supportato da una rete internazionale efficace. La stella polare è arrivare a “uno stato di armonia con la natura” entro il 2050, attraverso il raggiungimento di una serie di obiettivi (target) entro il 2030. La conferenza di Cali era partita con le migliori intenzioni e ha portato a casa alcuni risultati importanti, tra cui il Fondo Cali per la condivisione dei benefici derivanti dall’uso delle risorse genetiche, e la creazione di un organismo permanente per i popoli indigeni. In sospeso sono rimaste le questioni economiche, e non secondario lo sviluppo di indicatori efficaci per monitorare i progressi relativi ai vari target. A Roma si riuscirà a trovare un accordo e a quantomeno iniziare a dare la giusta priorità alla tutela della biodiversità e del funzionamento degli ecosistemi naturali?

Tutto è connesso

Tra i tanti problemi che affliggono le politiche ambientali c’è la pretesa di affrontare le questioni legate al mondo naturale per compartimenti stagni: si discute perciò di clima, di suolo, di plastica, di acqua, di aria e di biodiversità, ma anche di salute come se fossero tante tematiche separate. In realtà sono tutte parte di uno stesso complicato ingranaggio: se una delle rotelle si inceppa tutto il resto inizia a scricchiolare o ad andare fuori controllo. Di questi collegamenti e della necessità di considerarli parla il Nexus Report, approvato a Nairobi nel corso dell’undicesima plenaria dell’ IPBES, la piattaforma intergovernativa sulla biodiversità e i servizi ecosistemici. Il rapporto, frutto di tre anni di lavoro di un’equipe multidisciplinare formata da165 esperti provenienti da 57 Paesi, esplora le interconnessioni tra biodiversità, acqua, cibo, clima e salute, che sono strettissime. Un esempio eclatante è quello delle acque interne, ovvero fiumi, laghi e aree umide, a livello globale gli ecosistemi più impattati dalle attività antropiche, con una moltitudine di specie animali e vegetali a rischio, colpite da molteplici minacce, tra inquinamento, deviazione dei corsi d’acqua, cementificazione, drenaggio, barriere che ostacolano lo scorrimento delle acque. Le aree umide sono molto importanti per il contrasto e l’adattamento ai cambiamenti climatici, e al contempo ne sono affette. Circa l’80% delle acque interne viene utilizzata per la produzione di cibo; sono oltre 50 le malattie derivanti da una cattiva qualità delle acque. Anche le barriere coralline stanno scomparendo sotto i nostri occhi, vittime dell’acidificazione dei mari. Con esse se ne va la meravigliosa e colorata meraviglia delle specie che tra i coralli vivono, ma scompare anche la protezione delle coste dall’erosione e dalle tempeste, il pesce di cui nutrirsi, nonché le economie locali basate sul turismo che va in cerca di quel colorato mondo e dello stupore che suscita. IPBES stima che le persone che risentiranno in modo grave della scomparsa delle barriere saranno quasi un miliardo, il 13% circa della popolazione globale.

Il report, che ha analizzato oltre 6.500 fonti, tra studi scientifici, relazioni tecniche e anche conoscenze di popoli indigeni, ipotizza sei scenari futuri, basandosi su oltre 186 modelli. Due sono quelli attuali, il business as usual, in cui la priorità viene data o alla produzione di cibo o all’ipersfruttamento delle risorse naturali. In entrambi i casi al collasso delle risorse naturali corrisponde anche un aumento dei rischi per la salute, nonché per la sicurezza alimentare, dato che un mondo impoverito e turbato dalla crisi climatica non sarebbe più in grado di supportare la domanda. Non funzionano però nemmeno gli scenari in cui si da la priorità alla sola crisi climatica, o alla conservazione della natura: per esempio puntare solo sulle tecnologie di adattamento climatico può avere serie ripercussioni sulla biodiversità, e a catena sulla disponibilità di risorse. In sostanza, se si agisce su solo una delle componenti, senza tenere conto delle potenziali ripercussioni, i problemi verranno fuori da altre parti. Le prospettive più rosee e bilanciate si ottengono invece attraverso approcci integrati che combinano il rafforzamento della conservazione, il ripristino degli ambienti degradati, la produzione e il consumo sostenibile delle risorse, e azioni di mitigazione dei cambiamenti climatici. Solo in questi scenari si riesce a invertire la perdita di biodiversità ottenendo al contempo molteplici benefici per la qualità della vita umana, acqua, approvvigionamento alimentare e salute. Ci sono numerose azioni che si possono adottare per sviluppare questi scenari di equilibrio: il report ne individua una settantina riconducibili a dieci categorie; la maggior parte è attuabile potenzialmente da subito, e include il ripristino ambientale, il consumo sostenibile, la riduzione degli inquinanti, la gestione del rischio. L’inclusione sociale nei processi decisivi è altrettanto fondamentale: ci sono infatti diversi esempi che dimostrano come le aree protette co-gestite dai popoli indigeni hanno portato a un miglioramento della biodiversità e a un uso sostenibile delle risorse. Non c’è una risposta unica per ogni contesto, la sfida è globale, ma le soluzioni devono essere applicate nei contesti locali. Scenari positivi e soluzioni sono in linea con quanto già delineato dal Global Biodiversity Framework e dall’Agenda 2030. I problemi di attuazione sono diversi; tra questi, la frammentazione amministrativa e delle politiche, con compartimenti stagni che affrontano i vari problemi come fossero a se stanti, e che si focalizzano sull’immediato, con strategie che non hanno il lungo respiro necessario per poter effettivamente mettere in moto un meccanismo di cambiamento in positivo che riguardi tutte le componenti del nesso.

Un altro report IPBES presentato alla plenaria di Nairobi è il Transformative Change Report, che individua nella disconnessione con la natura e in una concezione prevalente del dominio umano su di essa la causa profonda della crisi globale della biodiversità. A essa si sommano la concentrazione iniqua di potere e ricchezza e la priorità data ai guadagni individuali e materiali sul breve termine. Il report quindi sottolinea l’urgenza di un cambiamento trasformativo nella società che comporti un riarrangiamento sistemico della visione sulla natura e le sue risorse, nelle pratiche, che devono essere più sostenibili, e nelle politiche che devono essere più inclusive e adattative rispetto alle crisi ambientali. Insomma la conservazione della biodiversità si può raggiungere solo attraverso un radicale cambio di passo, che porti a una società inclusiva e al superamento delle disparità: un discorso reale e molto sensato, ma che appare poco concreto, soprattutto nel contesto politico globale attuale.

I fondi per il cambiamento

Ma torniamo alla COP 16, la sede in cui si può cercare di dare concretezza al cambiamento trasformativo, che affronti in modo integrato i diversi problemi ambientali. È inverosimile realizzare gli obiettivi del Global Biodiversity Framework senza risorse economiche adeguate: ecco perché il target 19 dello stesso stabilisce la necessità di mobilitare annualmente almeno 200 miliardi di dollari per la biodiversità entro il 2030, attraverso l’uso combinato di risorse finanziarie pubbliche e la promozione di investimenti privati. Gli Stati più ricchi, responsabili della gran parte delle azioni a discapito della biodiversità, dovrebbero sostenere gli Stati in via di sviluppo e i piccoli Stati insulari con 20 miliardi di dollari all’anno entro il 2025 (cioè oggi) e 30 miliardi all’anno entro il 2030. Sta di fatto che tra fondi versati e promessi si stenta a raggiungere i 400 milioni, circa il 2% di quanto prefissato per quest’anno. IPBES stima che oltre la metà del PIL mondiale sia generata in settori moderatamente o fortemente dipendenti dalla natura. Malgrado ciò, dal 2021 a oggi, il finanziamento pubblico globale per le sovvenzioni dannose per l’ambiente è aumentato del 55%. Gli investimenti globali in attività dannose per la biodiversità ammontano a circa 7.000 miliardi di dollari all’anno (5.300 sono investimenti privati, 1700 quelli derivanti da sovvenzioni pubbliche). Nello stesso tempo, solo 200 miliardi vengono destinati alla protezione e ripristino (circa l’1% del prodotto interno lordo globale!), il che genera un gap impressionante. Un punto importante del Global Biodiversity Framework (target 18) è proprio quello di cercare di colmare questo divario, eliminando gli incentivi e le sovvenzioni dannosi per la biodiversità attraverso una riduzione progressiva di almeno 500 miliardi di dollari all’anno entro il 2030, a partire dagli incentivi più dannosi. I soldi risparmiati andrebbero quindi trasformati in incentivi positivi per la conservazione e l’uso sostenibile della biodiversità.

A Roma si discuterà quindi di come raccogliere fondi adeguati e di come gestirli in modo efficace, a come mettere in piedi sistemi di verifica dei risultati efficaci, e non ultimo a valutare la cooperazione con altre convention e organizzazioni. Come dimostra il Nexus Report dell’IPBES, lavorare separatamente è inefficace e rischia di essere uno spreco di energie. I negoziati si svolgeranno in un clima internazionale scombinato dai nuovi assetti politici. Se è vero che gli Stati Uniti non hanno mai aderito alla Convenzione per la Diversità Biologica, è altrettanto vero che non è affatto un buon segnale lo stop di Trump a USAID che ha già avuto pesanti ripercussioni e il congelamento dei fondi per i programmi internazionali di conservazione del Fish and Wildlife Service, cui si somma anche la decisione di Jeff Bezos di non finanziare più l’Earth Fund, fondo privato dedicato appunto a progetti per clima e biodiversità. Insomma un clima politico globale non semplice, ma che rafforza l’urgenza di portare avanti con decisione politiche globali a favore della natura, con un’ottica olistica e inclusiva, che faccia leva su inclusività e riduzione delle diseguaglianze, tutti temi previsti nel Global Biodiversity Framework, che va dunque assolutamente sviluppato in modo efficace, per non restare solo belle parole su carta. Scienza in rete seguirà i lavori di Roma per aggiornarvi sugli sviluppi.


FONTE: https://www.scienzainrete.it/articolo/cop16-roma-sfida-di-approccio-olistico-biodiversit%C3%A0/laura-scillitani/2025-02-24


Si occupa di conservazione e gestione di grandi mammiferi da più di quindici anni. Si è laureata nel 2006 in Scienze Biologiche presso l’Università degli Studi di Bologna e nel 2011 ha conseguito il dottorato di ricerca in Scienze Animali presso l’Università di Padova. Ha preso parte a progetti sull’ecologia dei grandi mammiferi in Svezia, Svizzera e Francia e collaborato con diverse aree protette italiane, regionali e nazionali (PN Gran Sasso e Monti della Laga e PN Abruzzo, Lazio e Molise) come tecnico faunistico dal 2011 al 2023. Ha lavorato come communication manager per il progetto Life Wolf Alps EU presso il Muse di Trento.  Nel 2020 ha completato con menzione di merito il Master “La scienza nella pratica giornalistica” presso La Sapienza Università di Roma. Lavora come comunicatrice free-lance e si occupa di conservazione della natura e della fauna.

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