Gianfranco Viesti, dopo aver notato che si dedica poca attenzione al tema delle disuguaglianze territoriali di sviluppo economico in Italia, documenta – basandosi anche su un recente volume pubblicato dalla S.I.E. – come esse siano significativamente mutate nel corso del XXI secolo. Le differenze fra Sud e Centro-nord restano rilevanti, ma ad esse si sono affiancate interessanti disparità all’interno delle regioni più forti, come mostrano i dati sul valore aggiunto pro-capite delle province italiane.
Le disuguaglianze economiche fra i diversi territori italiani rappresentano da sempre un tema di ricerca e di discussione in Italia, soprattutto alla luce dello storico divario fra Centro-nord e Mezzogiorno. Tuttavia, negli ultimi anni, l’attenzione per queste disuguaglianze si è sensibilmente ridotta, proprio in un periodo in cui esse hanno assunto caratteristiche in parte nuove, di grande interesse. Ancora minore sembra essere l’attenzione per l’effetto che le politiche pubbliche hanno sulla dimensione e sulle dinamiche di queste disuguaglianze.
Per ovviare parzialmente a questa carenza di analisi, nell’ambito del progetto di ricerca promosso dalla Società Italiana di Economia sull’economia italiana negli anni Venti, è stato da poco pubblicato un volume che raccoglie una serie di saggi dedicati sia alle disparità territoriali in Italia, sia ad alcune delle politiche che le influenzano. In particolare, nel volume sono contenute, per quanto riguarda le tendenze socio-economiche, analisi del divario fra Nord e Sud nel XXI secolo (Sestito), dei territori in difficoltà nel Centro-nord (Iacobucci) e della nuova emigrazione dei giovani italiani (Paolazzi); e per quanto riguarda l’impatto delle politiche, analisi sull’attuazione del federalismo fiscale e sul finanziamento dei servizi pubblici (Arachi e Minzyuk), sulla dotazione di infrastrutture (Messina), sulla dimensione territoriale del PNRR (Chiapperini, Cirillo, Montenegro e Viesti) e sulla strategia nazionale delle aree interne (Compagnucci, Faggian e Caporali), oltre che sul generale ruolo del Sud nelle politiche pubbliche italiane (Bianchi e Petraglia). Il volume è completato da un saggio iniziale del curatore che cerca di collocare i diversi contributi in un quadro d’insieme.
Ma in che senso le disparità territoriali all’interno dell’Italia hanno assunto caratteristiche in parte nuove? E’ necessario ricordare, sia pur sommariamente, alcune delle dinamiche del XXI secolo che hanno contribuito a influenzare le traiettorie di crescita economica delle regioni e delle province italiane. Come più sistematicamente ricostruito altrove, tutti i paesi avanzati negli ultimi decenni sono stati caratterizzati da processi di polarizzazione geografica delle attività economiche e quindi da un aumento delle disuguaglianze territoriali al loro interno, agevolmente leggibili con i più recenti dati a scala regionale in molti paesi. A spiegarli, soprattutto tre grandi fenomeni: a) l’impatto dell’integrazione economica internazionale, che ha colpito in misura fortemente asimmetrica le vecchie aree produttive; b) la terziarizzazione dell’economia e lo sviluppo di nuove attività di servizi avanzati, che tendono a concentrarsi nelle aree urbane; c) la scarsa attenzione delle politiche pubbliche alla riduzione delle disparità regionali, in un quadro di complessivo scarso interesse per il tema delle disuguaglianze. Ciò ha prodotto sia una maggiore difficoltà per i territori meno sviluppati all’interno dei paesi avanzati nel colmare le distanze da quelli più avanzati, sia un processo di differenziazione all’interno di questi ultimi: fra quelli che hanno mantenuto almeno in parte le proprie attività manifatturiere e le hanno affiancate con nuove attività di servizi, e quelli che hanno perso in misura rilevante le prime e hanno visto crescere in misura ridotta le seconde.
Quale è il quadro italiano che scaturisce da queste dinamiche? Una parziale risposta a questo interrogativo, relativa alle differenze esistenti a scala provinciale, può essere fornita attraverso la lettura dei più recenti dati, riferiti al 2022, da poco resi disponibili dall’Istat. Essi sono presentati nella cartina, nella quale le province italiane sono suddivise, a seconda del livello del loro valore aggiunto pro-capite al 2022 (numero indice, con l’Italia uguale a cento), in cinque gruppi: superiore a 110; 100-110; 90-100; 75-90; sotto 75. Rispetto ad una tradizionale descrizione dell’Italia come suddivisa fra un Centro-nord e un Mezzogiorno relativamente omogeni al loro interno, i principali messaggi della cartina sono tre: i) permane il forte ritardo e la rilevante omogeneità del Sud (pur con qualche limitata eccezione); ii) vi è una grande diversità interna al Centro-nord; iii) si notano, in alcuni casi, profonde disuguaglianze infra-regionali.
Per quanto riguarda il punto ii) emerge il maggior livello di valore aggiunto del Trentino-Alto Adige e della Val d’Aosta, di gran parte del Veneto, della Lombardia orientale e dell’Emilia rispetto al resto del Nord. Si può chiaramente individuare un Nord più debole, specie a Ovest, ma anche ad Est. Il Piemonte nel suo insieme è ormai appena sopra la media italiana del valore aggiunto pro-capite (102); solo Cuneo è a 110, Torino è a 105; cinque province su otto sono sotto 100; fra di esse due (Asti e Verbania) sono appena sopra 80. Anche in Liguria (104 a livello regionale), se Genova è a 112, Imperia è a 79. Più omogenea la situazione del Friuli-Venezia Giulia (104 a livello regionale): il più alto valore aggiunto è a Trieste (116, favorita però dalla natura quasi completamente urbana della provincia) e il più basso, non così lontano, a Gorizia (94).
Anche in Lombardia si notano differenze. L’intera regione è su livelli nettamente più alti della media (136), ma gli scarti interni sono sensibili. Milano è a 197, di gran lunga la provincia italiana più forte economicamente; ottimi i dati anche di Brescia, Bergamo e Cremona (sopra 110) e di Lecco, Mantova e Monza (appena sotto 110). Ma due province di antica e ricca industrializzazione, Varese e Como, sono rispettivamente solo a 101 e 97. Lodi (90) e Pavia (87) sono decisamente più indietro: i pochi chilometri che separano Milano da Pavia segnano una differenza di 110 punti: nettamente la maggiore in Italia fra due province confinanti. Più compatto il quadro di Veneto e Emilia. Nel primo caso, resta decisamente indietro solo Rovigo (87 contro un valore regionale di 113), mentre è omogeneo l’alto livello di valore aggiunto pro-capite di Verona-Padova-Vicenza-Treviso. In Emilia è il caso di Ferrara (85 contro un valore regionale di 120), mentre è omogeneo l’alto livello di valore aggiunto del corridoio territoriale Piacenza-Parma-Reggio-Modena-Bologna-Forlì.
Le gerarchie all’interno del Nord emergono con nettezza, dove alcune aree che hanno mantenuto la propria forza industriale e/o hanno sviluppato un forte settore di servizi avanzati si staccano con chiarezza. E’ il caso di Milano, con la sua straordinaria concentrazione di attività economiche, provincia che, insieme a Bologna e Trentino-Alto Adige, è nettamente più forte delle altre italiane con grandi città. Ed è il caso di diverse province lombarde, venete e emiliane che raggiungono livelli molto più alti della media italiana. All’opposto, vi sono aree di antica industrializzazione su livelli molto più modesti: Torino ha oltre 90 punti di scarto rispetto a Milano.
Ancor più nette sono le differenze interne al Centro Italia. Roma e Firenze (133 e 129) fanno storia a sé e si staccano nettamente dal resto del territorio. In Toscana, alcune province (Pisa, Siena, Prato, Arezzo e Lucca) sono intorno alla media italiana, ma altre ben al di sotto: Pistoia è a 85, Grosseto a 84. Tutte le province marchigiane sono sotto 100, con Ascoli e soprattutto Fermo (81) decisamente più indietro: le Marche hanno un valore aggiunto pro-capite appena superiore rispetto all’Abruzzo (92 contro 86); in Umbria, Terni che è a 77, e la regione nel suo insieme è sotto l’Abruzzo (a 85). Nel Lazio, invece, ci sono due mondi completamente diversi: mentre Roma è su livelli molto alti, le altre province sono intorno o sotto 75.
Complessivamente, come si vede dalla cartina, sono tre le province del Centro nel gruppo con i valori più bassi (sotto 75); otto del Centro e sei del Nord invece sono nel gruppo con valori significativamente inferiori alla media nazionale (75-90). Quindi non poche aree del Centro-nord sono su livelli di valore aggiunto per abitante decisamente modesti: un dato che non emerge quando si guardano solo i dati regionali. Naturalmente, va prestata grande attenzione a equiparare queste realtà alla situazione del Mezzogiorno: tutte le province del Centro-nord si giovano sia di una ricchezza delle famiglie accumulata nel tempo molto maggiore, sia di una rete ben più estesa di infrastrutture e servizi pubblici. Tuttavia, è forte la percezione di arretramento in queste aree, come mostra il dibattitto in corso negli ultimi anni specie in Piemonte e nelle Marche: scivolare indietro crea una situazione di difficoltà particolare, diversa e per certi versi più grave rispetto ai territori che sono da sempre in condizione di relativa debolezza.
Purtroppo, non accade il contrario: come si vede sempre dalla cartina, sono ben poche le province del Mezzogiorno fuori dal gruppo con i valori più bassi. Cagliari è quella con i livelli più alti (95), che in parte però dipendono dalla presenza dell’industria petrolchimica; solo in parte, però, perché l’area cagliaritana ha ormai sviluppato un interessante settore dei servizi. Nel gruppo fra 75 e 90 sono collocate le quattro province abruzzesi, Campobasso, Potenza (a causa principalmente delle produzioni automobilistiche di Melfi), Bari e Siracusa, il cui dato è però pesantemente condizionato dalla presenza dell’industria chimica e petrolchimica. Tutte le altre sono sotto 75.
Questi dati segnalano la presenza di interessanti disparità infra-regionali anche in Puglia e in Sardegna. Nel primo caso i valori di Bari (76) staccano di ben 22 punti quelli della provincia di Barletta-Andria-Trani (54), e di più di 15 quelli di Foggia, Brindisi e Lecce. Nel secondo caso sono ancora più nette le distanze fra Cagliari e Sud Sardegna: 42 punti; ma 22 punti separano anche Cagliari dalla seconda in graduatoria, Sassari. Sono segnali della presenza di economie urbane un po’ più vivaci anche al Sud. Scarse sono invece le disparità infra-regionali nelle altre aree del Mezzogiorno: modeste le differenze fra province in Campania (si va da Napoli 66 a Caserta 59), in Calabria (da Catanzaro 66 a Cosenza 54) e in Sicilia dove, al netto del dato di Siracusa, si va da Palermo 65 a Agrigento 53.
Restano quindi assai profonde le tradizionali disparità in chiave Nord-Sud: il valore aggiunto pro-capite di Milano è quasi il quadruplo di quello di Cosenza, Agrigento, Sud Sardegna. Quello di Bologna è più del doppio rispetto a Napoli, Palermo, Catania.
Quello che emerge è il quadro di un paese piuttosto squilibrato, nel quale alle tradizionali differenze macro-regionali si affiancano oggi disparità interne alle grandi circoscrizioni e a diverse regioni. In un successivo intervento si cercherà di capire quali dinamiche degli ultimi due decenni abbiamo portato a questa situazione.
fonte Immagine copertina: CDS Cultura