Vincenzo Scalia recensisce il podcast Storia di L. – Una storia di MAP per la rubrica di Fuoriluogo su il manifesto
All’interno del sistema penale italiano, la messa alla prova, introdotta dalla legge 67/2014, può essere considerata come un caleidoscopio attraverso il quale leggere le contraddizioni che attraversano le questioni inerenti alla penalità. Si tratta di una misura di comunità ricalcata sull’omonimo istituto della giustizia minorile, che riguarda, al momento, circa 27.000 persone, di solito imputate per reati minori: guida in stato di ebbrezza, violazione delle leggi sugli stupefacenti, oltraggio a pubblico ufficiale. La durata prevista ricade in un arco temporale tra i due mesi e i due anni. Si tratta di un provvedimento carico di ambiguità, così come emerge nel podcast in 4 puntate Storia di L., realizzato dalla Società della Ragione insieme a Cumbre – Altre Frequenze, che narra la vicenda di uno dei beneficiari, preso in carico dalla Società stessa.
La prima ambiguità del provvedimento riguarda proprio la ragione per cui è stato istituito: se da un lato si connota come un percorso alternativo alla detenzione (e alla condanna), dall’altro lato, finché l’esito positivo non sarà stato sanzionato dal tribunale di competenza, i beneficiari del provvedimento rimangono, fino al termine della prova, sospesi in un limbo che potrebbe trascinarli all’interno della soglia carceraria. Basta che disattendano qualcuna delle prescrizioni perché la prova sia considerata negativamente ed il procedimento penale riprenda il suo corso
La seconda ambiguità riguarda la carica di moralità che grava sulla messa alla prova. L’accettazione del provvedimento, se da un lato consente a chi ne beneficia di evitare il carcere e la condanna, dall’altro lato, non gli consente di sindacare sulla sua colpevolezza, o di discutere sulla fondatezza di una legge. Per questo motivo, spesso e volentieri, si tratta di un’adesione formale, anche strumentale da parte del beneficiario, non senza ragioni fondate.
In primo luogo, se la messa alla prova evita la pena restrittiva, non evita però quella dello stigma. Le persone in messa alla prova gravitano sempre all’interno del sistema penale, e devono regolarmente dare conto della loro condotta. Si pensi alla consegna dei campioni delle urine, che rende problematico il consumo di bevande alcooliche o di sostanze.
Si tratta di un aspetto che investe il secondo aspetto della strumentalità. La messa alla prova, infatti, rientra all’interno delle misure di giustizia nella comunità. Ma, come nota Patrizia Meringolo nel podcast, sul significato della parola comunità bisognerebbe mettersi d’accordo. Il provvedimento attuale sembra calibrato su un’idea restrittiva del termine, che non tiene conto della pluralità dei valori e degli stili di vita che caratterizzano la società contemporanea.
D’altronde, come nota L., il protagonista, nei fogli Excel si parla di lavori di segreteria e di pulizie, che connotano la messa alla prova come una punizione da espletare sotto forma di lavoro servile. Nel caso di L., il lavoro con la Società della Ragione, è stato altro. Oltre a consentirgli di elaborare il suo vissuto, gli ha permesso di ampliare la sua consapevolezza della penalità. Un esito che è stato possibile grazie alla natura della Società, che, rifiutando di essere un mero luogo di parcheggio dal penale, ha sviluppato un intervento calibrato sulle peculiarità del beneficiario, attraverso un approccio relazionale.
Un approccio che dovrebbe essere adottato anche da altre realtà e per altri casi, al fine di innescare un percorso positivo. Se non fosse che la messa alla prova è incastonata all’interno di una cornice penale ancora ispirata dai principi di legge e ordine, per cui, a fianco dei beneficiari delle misure alternative, continuano ad aumentare anche i detenuti. Probabilmente, depotenziando la penalità, si migliorerebbe la giustizia nella comunità. Purché la comunità si riveli aperta.
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