“Senza spegnere la voce” (Nous Editrice, 2025), della giornalista Giorgia Landolfo, racconta la storia vera di una giovane donna morta di sepsi nel 2016 a Catania. Un aborto terapeutico le avrebbe salvato la vita, ma tutti i medici del reparto erano obiettori di coscienza.
Valentina Milluzzo aveva 32 anni ed era finalmente riuscita a coronare il sogno di una gravidanza. Aspettava due gemelli, era alla diciassettesima settimana di attesa. Il 29 settembre del 2016, nel corso di una visita di controllo, il ginecologo la informò che c’erano dei problemi. Il giorno stesso la donna fu ricoverata all’Ospedale Cannizzaro di Catania: aveva il collo dell’utero dilatato e uno dei due sacchi amniotici già affacciato in vagina. Era alle soglie di un aborto spontaneo. I medici del reparto, tutti obiettori di coscienza, le dissero che la gravidanza era in pericolo, ma che rimanendo ferma a letto c’era qualche speranza di salvarla. Nessuno le spiegò che in quelle condizioni molto probabilmente sarebbe insorta un’infezione delle membrane fetali che poteva costarle la vita. Nessuno le prospettò un aborto terapeutico per prevenire gravi conseguenze. Per diciassette giorni Valentina Milluzzo rimase ricoverata, a letto, con le gambe alzate per evitare l’espulsione spontanea dei due feti. Come era prevedibile, le membrane si infettarono, ma neanche allora i medici si decisero a procedere con un aborto spontaneo. La sorella di Valentina racconta che il ginecologo di turno disse: «Finché il cuore dei feti batte, non posso fare niente». Intervennero infine per liberare l’utero della donna nella notte tra il 15 e il 16 ottobre, quando cessò il battito prima di uno e poi dell’altro feto. Meno di ventiquattro ore dopo Valentina Milluzzo morì, a causa della sepsi originata dall’infezione delle membrane, come risulta dall’autopsia effettuata sul suo corpo.
Quattro medici del reparto dove era ricoverata la donna sono stati riconosciuti colpevoli in primo grado di omicidio colposo nel 2022, ma assolti in appello perché il fatto non sussiste a novembre del 2024. Le motivazioni della sentenza di appello non sono state ancora pubblicate. La storia agghiacciante di Valentina Milluzzo è ricostruita nei dettagli sulla base delle carte processuali, delle perizie degli esperti e dei racconti dei familiari dalla giornalista Giorgia Landolfo nel saggio Senza spegnere la voce (Nous Editrice, 2025), affiancata da altre storie di donne che hanno scampato la tragedia per un soffio.
I limiti dell’obiezione
La legge 194, che regola nel nostro Paese l’accesso all’interruzione di gravidanza, prevede la possibilità per il personale sanitario di sollevare obiezione di coscienza e astenersi dal prendere parte alle procedure di interruzione di gravidanza, ma
l’obiezione di coscienza non può essere invocata dal personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie quando, data la particolarità delle circostanze, il loro personale intervento è indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo.
Il problema, come dimostra il caso di Valentina Milluzzo, è dove porre l’asticella del pericolo imminente. «Nelle condizioni in cui si trovava la donna, con il collo dell’utero dilatato e uno dei due sacchi protruso in vagina, alla diciassettesima settimana di gravidanza, era impensabile riuscire a protrarre l’attesa fino a portare i due feti, o almeno uno di loro, a un’età gestazionale tale da consentirne la sopravvivenza», spiega la ginecologa Elisabetta Canitano, presidente dell’Associazione Vita di Donna, che ha collaborato alla stesura del libro. «Al contrario, era estremamente probabile che le membrane si infettassero. Al momento del ricovero, però, il pericolo di vita per la paziente non era imminente, quindi i medici obiettori hanno aspettato che le sue condizioni si aggravassero. Hanno aspettato il più possibile e quando ti avvicini troppo al ciglio di un burrone è facile perdere l’equilibrio e cadere di sotto. Avrebbero dovuto informare la paziente della gravità della situazione, del rischio per la sua sopravvivenza e della possibilità di richiedere l’intervento di un medico non obiettore per interrompere la gravidanza».
Dalla cartella clinica agli atti del processo non risulta che Valentina Milluzzo abbia ricevuto alcuna comunicazione in tal senso, né che abbia firmato un documento di consenso informato. Non essendo a conoscenza del rischio che correva, non ha potuto scegliere liberamente per se stessa e per la sua salute.
Una necessità di salute
Situazioni analoghe a quella di Valentina Milluzzo sono abbastanza frequenti, anche se per fortuna finora non si sono verificate altre tragedie. «Mi capita di essere interpellata da donne ricoverate in ospedali dove tutti i medici sono obiettori di coscienza, con gravidanze problematiche, che temono per la loro incolumità», racconta Canitano. «In questi casi io consiglio di chiedere alla direzione della struttura la consulenza di un ginecologo esterno non obiettore. Si può fare, è un diritto della paziente ricoverata».
Lo scopo del libro di Giorgia Landolfo non è di fomentare discordia tra pazienti e personale medico, come lei stessa ha spiegato alla presentazione del volume, ma di rendere le donne consapevoli dei propri diritti, in particolare nel campo della salute riproduttiva, e dei rischi che corrono in determinate situazioni.
La retorica di chi si oppone all’aborto fa sempre riferimento alla volontà di chi sceglie di interrompere una gravidanza, all’offerta di aiuti economici e soluzioni alternative. Raramente si considera che a volte l’aborto è un intervento necessario per tutelare la salute e persino la vita della paziente.
«Una cosa è l’interruzione volontaria di gravidanza, o IVG, una cosa è l’interruzione terapeutica della gravidanza, ITG», spiega Augusta Angelucci, psicologa e psicoterapeutica che ha lavorato presso il Servizio Materno Infantile dell’Ospedale San Camillo di Roma. «Nel primo caso c’è una gravidanza imprevista e una donna che sceglie di non portarla a termine. Nel secondo caso c’è una gravidanza voluta che, spesso in fase avanzata, deve essere interrotta per ragioni di salute della donna oppure perché il concepito ha una patologia incompatibile con la sopravvivenza. Non si può ignorare la differenza, perché i due eventi hanno un impatto diverso sulla psiche della paziente».
A volte confondere interruzione volontaria e interruzione terapeutica è una strategia intenzionale per sminuire l’importanza dell’aborto come intervento medico. È quello che sta succedendo negli Stati Uniti, dove gli anti-abortisti repubblicani tentano di far passare il messaggio che non esistono circostanze in cui è necessaria l’interruzione di una gravidanza.
Nel corso dell’audizione di Robert Kennedy da parte della Commissione che ha approvato la sua nomina a capo del Dipartimento della Salute, la senatrice democratica Catherine Cortez Masto ha chiesto al candidato: «Supponiamo che una donna incinta con un’emorragia pericolosa per la sua sopravvivenza, dovuta a un aborto spontaneo incompleto, vada al pronto soccorso e il medico stabilisca che ha bisogno di un aborto d’urgenza, ma si trova in uno Stato in cui l’interruzione della gravidanza è vietata. Lei concorda sul fatto che la legge federale protegge il diritto di quella donna a cure d’urgenza?». Kennedy ha risposto «Non lo so».
Maria Cristina Valsecchi
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Giornalista scientifica freelance, scrivo di salute riproduttiva, salute materno-infantile e ricerca medica. Sono attivista dei diritti riproduttivi e sessuali. Nei ritagli di tempo gestisco il sito web di informazione sulla salute femminile “Eva – sapere è potere”.