Dalle recenti dichiarazioni politiche sul binarismo di genere alle lezioni che possiamo apprendere dai licheni (e da altri organismi), Pamela Boldrin esplora come la natura sfidi costantemente le nostre categorizzazioni rigide. A favore di un quadro dove interconnessione e complessità sono la norma, non l’eccezione, e che ci porta a ripensare non solo i concetti di individualità e binarismo, ma anche il nostro modo di relazionarci con l’intero ecosistema terrestre.
«Ci sono solo due sessi, non sono modificabili e sono radicati in una realtà fondamentale e incontrovertibile», dichiara Trump durante il suo discorso inaugurale di inizio mandato presidenziale, lo scorso 20 gennaio. O maschio o femmina, determinati alla nascita dalla natura, sempre secondo il neo presidente, il cui pensiero riscontra molto sostegno. Si palesa così un’occasione di ribadire qualcosa che, se per molti è ovvia, non è affatto scontata nei tempi che stiamo vivendo: la realtà va guardata con occhi capaci di cogliere la complessità. Diversamente, il rischio è di rimanere impigliati in discorsi (spesso politici) che accampano illazioni con la pretesa di una qualche concretezza riscontrabile in natura.
Il mito dei due sessi: quando la biologia sfida le semplificazioni
Piuttosto, se vogliamo fare una disamina basata sui fatti (biologici), una descrizione più veritiera suona così: «Noi siamo ecosistemi che travalicano i confini e trascendono le categorie. Il nostro io emerge da un complesso groviglio di relazioni che solo ora cominciano ad affiorare». Queste parole sono di Merlin Sheldrake, dal suo libro L’ordine nascosto. La vita segreta dei funghi, un’opera che svela un mondo poco visibile ai nostri occhi ma ricchissimo di complessità sulla quale innestare molte riflessioni, filosofiche e politiche, come vedremo a breve.
Studiare la natura ci consente di essere meno rigidi verso derive dogmatiche di classificazione e inflessibile incasellamento che spesso trapassano in decisioni che si ripercuotono in ambito sociale. La lezione della natura è che rigidità e isolamento mal si prestano a far evolvere i viventi e, dunque, a farli sopravvivere. Già il grande Alexander von Humboldt, nel 1845, osservava che «Ogni nuovo passo nella più intima conoscenza della natura ci porta all’ingresso di nuovi labirinti».
Sesso e genere, per cominciare, sono soltanto due aspetti della labirintica natura umana e si prestano a gradazioni di variabilità molto più vaste di quelle che sono annoverabili in un documento d’identità. Semplificare può essere una necessità, ma quando si fa dogmatismo si impedisce l’accesso a una conoscenza complessa. Per esempio, se vogliamo appellarci alla realtà del mondo naturale e guardare alla biologia in cerca di chiarezza sul sesso, possiamo constatare che l’anisogamia, cioè la presenza di gameti che si differenziano creando la polarità di due sessi (maschio e femmina) non si manifesta in modalità univoche. Infatti esistono animali che possono produrre gameti sia maschili che femminili: gli ermafroditi. Le lumache presentano allo stesso tempo organi maschili e organi femminili, quindi possono transitare da un sesso all’altro più volte, mentre il pesce pagliaccio maschio può diventare femmina, una volta nella sua vita, qualora ci sia carenza di femmine.
Cambia il sesso ma cambia anche il comportamento, il quale è influenzato dagli ormoni, che manifestano le loro azioni con una cascata di eventi estesa nel tempo (piuttosto lungo se pensiamo alla maturazione sessuale negli umani). Anche negli esseri umani la genetica dei gameti può rivelare delle variazioni sui cromosomi sessuali. Infatti, grazie agli studi di David Page negli anni ’80, sappiamo che è possibile, in alcuni casi, che nella coppia cromosomica XX ci sia un pezzetto di DNA del braccio corto di Y, quindi che l’X contenga in realtà le istruzioni per avere il fenotipo maschio. Quello che accade è che l’individuo nato possiede due cromosomi X, come ci si attende nelle femmine, ma si presenta con caratteristiche morfologiche tipicamente maschili.
Ci sono anche umani che alla nascita mostrano genitali di conformazione ambigua, come racconta Antonella Viola in Il sesso è (quasi) tutto. Evoluzione, diversità e medicina di genere, citando i casi in cui si è proceduto a femminilizzare chirurgicamente i neonati che non avevano un pene visibile ma possedevano il gene Y, quindi geneticamente maschi. Nel tempo si è visto che, una volta adulti, solo alcuni si sentivano a loro agio come femmine, evidenziando la non congruenza tra genetica, morfologia e identità percepita. Altri casi di difformità genetica li troviamo nella sindrome di Turner o in quella di Klinefelter.
Questi sono solo pochi esempi delle svariate possibilità biologiche di presentare incongruità rispetto a un binarismo sessuale e di genere che troppo spesso viene assunto come regola ineccepibile. Quindi non ci sono solo due sessi, ma diverse sfumature di possibilità biologicamente fondate. Se poi vogliamo salire al piano dei comportamenti secondo gli stereotipi di genere (ciò che una data civiltà si aspetta in termini di congruenza nel mostrarsi femminili o maschili), entriamo in un dedalo di condizioni in cui la cultura complica ulteriormente le cose.
Licheni, maestri di simbiosi e complessità
Visto che il binarismo sembra essere più un’idea della mente umana che una realtà biologica, torniamo al mondo dei funghi per scoprire una particolare entità vivente: il lichene, il quale può darci grande ispirazione a contestare una visione semplicistica della vita.
Come racconta Sheldrake tra le pagine del suo libro, questa forma di vita ci sfida a mettere in discussione tutti i nostri punti fermi su concetti con cui inquadriamo il mondo, in particolare quelli di binarismo, individualità e autonomia. Questi termini sono stati messi in discussione da due nozioni importanti della biologia moderna: “ecologia” e “simbiosi”. L’idea che in natura ci siano delle innumerevoli interconnessioni tra le varie parti, che spesso ci sfuggono, è stata promossa da Alexander von Humboldt, il quale ha ispirato moltissimo il lavoro del biologo Ernst Haeckel, che a sua volta coniò il termine ecologia. Mentre i lavori dei due tedeschi Heinrich Anton de Bary e Albert Bernhard Frank hanno il merito di aver diffuso il concetto di simbiosi. Insomma, l’800 è stato un momento straordinario per la scoperta dei sistemi complessi e proprio in questo periodo un altro studioso, il botanico Simon Schwendener pubblicava la sua ipotesi sulla natura del lichene: non un individuo ma un organismo composto da due entità: un fungo e un’alga, qualcosa oltre la somma delle loro proprietà. Come spesso accade, la sua ipotesi fu respinta da molti colleghi. Ancora oggi, nonostante la simbiosi sia un fenomeno ampiamente accettato, questi organismi compositi non smettono di stupirci e insegnarci i nostri limiti di comprensione dei fenomeni simbiotici. Si pensi che i licheni, che ricoprono ben l’otto per cento della superficie del pianeta, sono in grado di erodere e digerire minerali dalla roccia creando suolo per nuovi ecosistemi; sono intermediari tra non vita e vita, in grado di sopravvivere alle missioni spaziali affrontando condizioni estreme (sì, di questi tempi viaggiano spesso a bordo di astronavi). Insomma, a partire da una simbiosi proficua, i licheni mostrano proprietà emergenti e gettano luce sull’importanza della via dell’endosimbiosi, teoria innovativa proposta negli anni ‘60 dalla biologa Lynn Margulis, secondo la quale la cellula eucariote sarebbe il risultato dell’associazione tra entità unicellulari che costruiscono organismi più complessi (pluricellulari).
Le nostre cellule sono tutte testimonianza di questa associazione, poiché i mitocondri sono dei discendenti di batteri che hanno fatto squadra con una cellula (che poi a sua volta si è evoluta in organizzazioni cellulari sempre più complesse). L’evoluzione, a quanto pare, ha premiato questo sistema perché il pianeta spopola di organismi pluricellulari. Così i licheni, che l’evoluzione continua a mantenere ben saldi sulla Terra (in tutti i sensi viste le loro proprietà aggrappanti), raccontano ancora come nella loro straordinaria capacità di sopravvivere ci sia il segreto di un’alleanza in un mini-ecosistema che non smette di stupirci; infatti si sono rivelati un sistema ancora più dinamico del previsto (si alleano con numeri inconcepibili di batteri). I licheni, in sostanza, ci offrono molta ispirazione a pensare la complessità in senso più generale. Come?
Ripensare l’individualità: dalla teoria queer alla consapevolezza ecologica
Ce lo spiega un articolo dal titolo Queer theory for lichens, che invita proprio a pensare oltre la struttura binaria. Per citare direttamente le parole dal libro di Sheldrake mentre dialoga con il lichenologo Toby Spribille:
Gli autori sostengono che i licheni sono creature queer che offrono agli esseri umani la possibilità di andare oltre la rigida struttura binaria: l’identità dei licheni è una domanda più che una risposta già nota. Allo stesso modo Spribille ha trovato nella teoria queer un’utile impalcatura concettuale da applicare ai licheni. «Il punto di vista umano è binario e rende difficile porsi domande che non siano binarie», mi ha spiegato. «Le nostre restrizioni in fatto di sessualità rendono difficile porsi domande sulla sessualità, e così via. Formuliamo interrogativi a partire dal nostro contesto culturale, e per questo è estremamente complicato farsi domande su simbiosi complesse come quelle dei licheni. Ci consideriamo individui autonomi e dunque è difficile per noi immedesimarci».
Immedesimarci è una capacità che probabilmente possediamo solo noi umani, quando proviamo a entrare nei panni di altri esseri, immaginando momentaneamente di trascendere il baluardo del nostro io, che rimane, tuttavia, sempre perfettamente ancorato dentro la nostra mente. Un’ancora che sembra allentarsi solo in certe occasioni: nel sogno, nelle psicosi o dopo assunzione di sostanze allucinogene, come quelle che i funghi possono produrre. Interessante è la suggestione che l’esperienza di una “smarginatura dell’io” associata a sensazione di forte interconnessione con l’ambiente sia descritta come effetto tipico da assunzione di sostanze provenienti proprio da organismi maestri dell’interconnessione (i funghi appunto).
Questi organismi costruiscono e disfano reti nel sottosuolo, dove troviamo anche il famoso wood wide web, la rete di connessione nascosta che i vegetali instaurano attraverso le radici mediante l’azione dei funghi. Sotto i nostri piedi brulicano collegamenti tra diverse forme di vita e non vita che noi stentiamo a comprendere. Una rete vitale (dove non manca la competizione, sia chiaro) che ci ricorda, grazie alla scienza, che i sistemi sono molto più forti degli individui. Attraverso questi studi possiamo esplorare col pensiero angoli dell’esperienza sconosciuti e accrescere in consapevolezza della realtà complessa in cui siamo immersi.
Il mondo intorno a noi ci mostra in innumerevoli e fantasiose possibilità che la semplificazione non coglie l’intreccio della vita né il successo delle sue manifestazioni che continuano a evolversi. La cultura umana, soprattutto quella occidentale, ha enfatizzato moltissimo il concetto di individuo e di differenza (di sesso, di status ecc.). Individuare significa potare tutte le connessioni che intralciano la riduzione all’unità minima, non più divisibile. Eppure, se semplificare è utile per fare ordine e consentire una certa operatività, porta anche a quella rigidità che si rivela una pericolosa distorsione della realtà. Una finzione che può anche diventare pericolosa, se sfocia in certi contesti pratici. Basti pensare all’ostinazione di chi non reputa la questione ambientale un fenomeno urgente per tutta la comunità dei viventi; problema che palesa la sua gravità quando ci fanno notare che la spesa militare supera di svariate volte i fondi stanziati per il clima.
In natura non c’è netta e definitiva separazione tra le parti, non ci sono binarismi e nemmeno individui. Questi concetti si annidano nel nostro microcosmo cognitivo e attraverso essi ci ostiniamo a filtrare la realtà, spesso fuorviandola. Non occorre abbandonare in toto categorie di pensiero sulla quale si fonda la nostra identità, ma basterebbe riuscire a pensare in modo sistemico: un po’ meno “io” e un po’ più “noi”, un noi che si allarga sempre più.
Pamela Boldrin
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È dipendente presso ULSS 6 Euganea di Padova ed è membro del comitato etico per la pratica clinica. Si è laureata nel 2004 a Padova in Tecniche di neurofisiopatologia. Nel 2010 ha conseguito la laurea triennale di Filosofia e nel 2013 la laurea magistrale in Scienze filosoche, entrambe a Ca’ Foscari, Venezia. Dal 2015 insegna, come docente a contratto, bioetica ai corsi triennali di Tecniche di laboratorio biomedico e Scienze infermieristiche della Facoltà di Medicina all’Università di Padova. Ha conseguito il titolo di perfezionamento in bioetica nel 2016 presso l’Università di Padova.