Un anno fa la sentenza numero 10 della Consulta sanciva che ai detenuti non può essere negata l’intimità. Ma ad oggi non è stata applicata in nessun penitenziario. Il “gruppo di studio” creato da Nordio è la foglia di fico che nasconde la volontà di disapplicare la delibrazione dei giudici.
1. Un anno fa, il 31 gennaio, veniva pubblicata in gazzetta ufficiale la sentenza costituzionale n. 10/2024. Una decisione scandalosa: non per il suo oggetto, il diritto all’intimità dietro le sbarre, semmai per il divieto di esercitarlo, quel diritto, in ragione del controllo a vista degli agenti di custodia durante i colloqui tra la persona detenuta e il partner. Sempre. Inderogabilmente. La sessualità estirpata dal corpo recluso è una sanzione priva di base legale.
Eppure, rappresenta una pena accessoria regolarmente inflitta, senza eccezioni: presunti innocenti e rei condannati, detenuti e detenute, “quintali di [corpi] inutili, ammucchiati a irrancidire” (Maurizio Torchio, Cattivi, Einaudi 2015, 79). Alla reclusione si somma così una primitiva punizione corporale, causa di una “desertificazione affettiva”, d’ostacolo al finalismo rieducativo della pena, lesiva della dignità della persona, sproporzionatamente contraria al rispetto – imposto anche dalla Cedu – della vita privata e familiare.
È per questi motivi che, dodici mesi fa, l’obbligo di quel perenne controllo visivo è stato rimosso dall’ordinamento penitenziario per decisione della Consulta. L’Italia si è allineata così alla larga maggioranza dei paesi europei che già prevede spazi per l’affettività in carcere. Il sesso in galera non è più una pretesa inaudita, un’imbarazzante esigenza, un desiderio da reprimere, addirittura un atto osceno da punire (art. 527 c.p., ora depenalizzato). Dopo la sent. n. 10/2024, è un diritto della persona detenuta. 2. Per quanto sia tutto vero, è tutto falso. Ad oggi, infatti, nessun detenuto in alcun istituto di pena lo ha mai potuto esercitare. La vita sessuale che, occasionalmente e clandestinamente, si consuma dietro le sbarre continua a replicare le modalità ruminanti del sesso immaginato e solitario. O le forme del rapporto omosessuale, spesso rassegnate, talvolta subite. Il giudicato costituzionale? Uno sbuffo di vapore. L’azione “combinata del legislatore, della magistratura di sorveglianza e dell’amministrazione penitenziaria, ciascuno per le rispettive competenze”, auspicata in sentenza per darvi attuazione? Non pervenuta. Lo sfregio al volto costituzionale della pena? Che sarà mai. Le legittime aspettative dei detenuti? Hanno già la tv in cella, s’accontentino.
Va avanti così da un anno, nel disinteresse generale, in un immobile surplace delle autorità che dovrebbero agire altrimenti, ben sapendo che quando la Corte ne dichiara l’illegittimità costituzionale, la norma di legge “cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione” (art. 136, 1° comma, Cost.). E invece?
3. Il Guardasigilli, il 28 marzo 2024, ha istituito un “Gruppo di studio” multidisciplinare, impegnato nella ricognizione di spazi per le visite intime in carcere e nell’elaborazione di una proposta complessiva tramite cui dare esecuzione alla sent. n. 10/2024. Un gruppo di studio è come il the delle cinque o l’ultima sigaretta del condannato a morte: non si nega a nessuno. È il minimo sindacale. Evoca la tattica di tergiversare davanti ai problemi più seri, guadagnando tempo: “Per ora rimando il suicidio/e faccio un gruppo di studio”, come ironizzava Giorgio Gaber (Far finta di essere sani).
La sua pletorica composizione di venti membri include di tutto e di più, ma non esponenti del volontariato carcerario. Ignorando così il codice del Terzo settore che prevede la co-programmazione e la co-progettazione per attività di interesse generale, in “espressa attuazione” del principio di sussidiarietà orizzontale (sent. n. 131/2020). È un’assenza deliberata: la loro presenza, infatti, avrebbe agito da sprone per il lavoro di gruppo, monitorandone gli esiti. Dell’istruttoria fin qui svolta, poco si sa. Quel poco si apprende da una burocratica e interlocutoria risposta del Guardasigilli sollecitata da un’interrogazione parlamentare (n. 4-03685, on. Serracchiani). Risultanze concrete? Ad oggi, nessuna. Ma non importa, perché l’autentico scopo del gruppo ministeriale è un altro: quale?
4. È presto detto: deve semplicemente esistere, per fornire l’alibi necessario a bloccare sul nascere qualsiasi esperienza-pilota negli istituti di pena dove, già ora, sarebbe possibile ricavare spazi adeguati a colloqui riservati. Infatti, quando e dove se n’è ipotizzata una sperimentazione, lo stop ministeriale è stato immediato, negando le autorizzazioni necessarie, in attesa degli esiti del lavoro dell’equipe ministeriale. Ecco perché non è dato sapere qual è il tempo massimo a sua disposizione: più se ne prolunga l’esistenza, più resterà tutto come prima. Cioè com’è adesso.
Eppure, quella della Consulta è una decisione “auto applicativa” (così il suo presidente Barbera), sia pure ad attuazione progressiva. Come un vademecum, contiene precise e vincolanti linee operative. Indica per nome e cognome i soggetti che – “nelle more dell’intervento del legislatore” – sono chiamati subito a implementarla: prima tra tutti “l’amministrazione della giustizia, in tutte le sue articolazioni, centrali e periferiche, non esclusi i direttori dei singoli istituti” penitenziari. Il Guardasigilli teme un’attuazione a singhiozzo del giudicato costituzionale? Promuova allora una legge. Il Consiglio dei ministri deliberi un regolamento. Il capo del Dap emani una circolare. Su questi fronti, invece, lo zero è assoluto.
5. Ignorare un’incostituzionalità accertata equivale a perpetrarla. È un grave capo d’accusa che pesa anche sulle Camere. Da una decisione di accoglimento della Consulta, infatti, deriva per il legislatore un doppio divieto: non può conservare in vita la norma dichiarata incostituzionale, né può “perseguire e raggiungere, anche se indirettamente, esiti corrispondenti a quelli già ritenuti lesivi della Costituzione” (sent. n. 223/1983). La latitanza del Parlamento produce entrambe le conseguenze vietate.
Si tratta, anche qui, di una scelta deliberata. Risale al 2002 il primo disegno di legge in materia di affettività in carcere (A.C. n. 3020, Boato e altri). Da allora, sono state insabbiate tutte le proposte legislative in tema, anche quando d’iniziativa regionale (Lazio e Toscana). Così come si è lasciata andare alla deriva la delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario (legge n. 103 del 2017), laddove prevedeva “il riconoscimento del diritto all’affettività delle persone detenute e internate e la disciplina delle condizioni generali per il suo esercizio”.
Nel frattempo, ciò che accadeva continua ad accadere. Come se dal monito dei giudici costituzionali, affinché il legislatore affronti con urgenza il problema dell’affettività in carcere (sent. n. 301/2012), non fossero trascorsi inutilmente tredici anni. Come se il giudicato costituzionale di un anno fa fosse un inutile svolazzo. Sterilizzarne le decisioni. Ignorarne i moniti. Ritardarne l’elezione dei giudici mancanti (ad oggi, ancora quattro). È così che il Parlamento si sottrae alla leale collaborazione con il Giudice delle leggi, trattato come un inciampo da scavalcare. Senza capire che l’ineffettività di un diritto costituzionalmente riconosciuto sottrae credibilità all’ordinamento e fiducia nelle sue garanzie.
6. Che fare, allora? Nuovi appelli accorati alle istituzioni mostrerebbero presto la propria insostenibile leggerezza. Meglio agire su un’altra leva, nella disponibilità di tutti i detenuti: provocare una valanga di reclami rivolta ai magistrati di sorveglianza, “cui spetta l’esercizio della tutela giurisdizionale nei confronti degli atti dell’amministrazione penitenziaria lesivi dei diritti dei detenuti” (come ricorda la sent. 10/2024). Tra questi, il diritto soggettivo all’intimità inframuraria (Cassazione, sez. I penale, 11 dicembre 2024-2 gennaio 2025, n. 8). I giudici di sorveglianza hanno il potere-dovere di ordinare all’amministrazione penitenziaria l’ottemperanza alla legittima pretesa del recluso: lo esercitino. Sarà il modo per introdurre la Costituzione dietro le sbarre, finalmente e non solo a parole.
fonte: l’Unità da Ristretti Orizzonti