Con il nostro aiuto ai Territori Palestinesi Occupati, abbiamo in realtà sovvenzionato l’occupazione militare destinando fondi inizialmente riservati a progetti di sviluppo a lungo termine in progetti di emergenza per sostenere i costi delle violazioni di Israele. In questo modo abbiamo inoltre ignorato irresponsabilmente il Parere consultivo della Corte internazionale di giustizia del 2004 che prescrive di “Non sostituirsi alla responsabilità della potenza occupante” e “Fare in modo che Israele rispetti il diritto internazionale umanitario”.
[Nota introduttiva: Questo articolo è stato scritto nelle ore che hanno preceduto l’accordo sulla tregua a Gaza. Il sospiro di sollievo che il mondo ha tirato è mitigato dalla vastità della morte e della distruzione, dalle profonde incertezze dell’accordo e dal fatto che le questioni di fondo che hanno alimentato la sofferenza umana a Gaza e in tutti i territori palestinesi da molto prima dell’inizio di questa guerra rimangono irrisolte. Per i sopravvissuti la guerra non è finita, si è semplicemente trasformata, ora con tremenda violenza anche in Cisgiordania. È necessario insistere nel fare pressione per evitare che il genocidio continui in una forma meno visibile frenando, come vogliono Israele e Stati Uniti, l’indignazione e riducendo boicottaggi e sanzioni. È fondamentale che il sistema di aiuti internazionali faccia tesoro degli errori del passato e inizi a ritenere Israele responsabile del rispetto del diritto internazionale, invertendo così le conseguenze negative non intenzionali della dipendenza dagli aiuti e aprendo nuovi percorsi per una pace guidata dai palestinesi con giustizia e sviluppo sostenibile.]
“Venni a sapere che avevo avuto un ruolo indiretto nella morte di migliaia di persone; che avevo persino provocato la loro morte approvando atti e principi che non potevano che finire in quel modo. Altri non sembravano imbarazzati da tali pensieri, o comunque non li esprimevano mai di loro spontanea volontà. Ma io ero diverso; quello che avevo capito mi si era bloccato in gola. Ero con loro, eppure ero solo. Quando mi capitava di esprimere i miei scrupoli, mi dicevano che dovevo considerare la posta in gioco e spesso mi davano ragioni impressionanti per ingoiare qualcosa che non potevo tollerare…” (Jean Tarrou all’amico dr Rieux in La Peste, 1947)
Fu durante il mio periodo come coordinatore dell’Organizzazione Mondiale della Sanità nei territori palestinesi occupati (TPO) in piena 2a Intifada che iniziai a rendermi conto di come mi ritrovassi pienamente in questa citazione da “La Peste” di Albert Camus. Gli anni seguenti, in forza all’allora Cooperazione Italiana (ora AICS – Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo), non hanno fatto che confermarmi tale sensazione. Nel suo primo romanzo, allegoria dell’occupazione bellica della Francia, Camus insiste nel porre la responsabilità morale individuale al centro di tutte le scelte pubbliche. La confessione del giovane Tarrou esprime con forza il suo pensiero:
“Siamo tutti nella peste… Tutto quello che so è che bisogna fare del proprio meglio per non essere vittime della peste… Ed è per questo che ho deciso di rifiutare tutto ciò che, direttamente o indirettamente, fa morire le persone o giustifica gli altri nel farle morire”.
Alla luce di queste parole, quanto sta succedendo a Gaza e nella Palestina occupata mi costringe a riflettere sulle circostanze che l’hanno reso possibile e sulla necessità di individuare anche le mie personali responsabilità di un tale esito.
Già diversi anni fa un giornalista esperto di questioni internazionali[i] si chiedeva se il negoziato israelo-palestinese fosse una vera e propria trattativa e non invece un “teatro allestito per l’opinione pubblica internazionale che serve a perpetuare lo status quo”. Quello stesso “status quo” che, ad ogni periodico incontro, noi direttori delle agenzie ONU presenti nella Palestina occupata dovevano penosamente riconoscere immutato, a conferma dell’inefficacia della nostra presenza. Oggi più di allora, appare d’obbligo interrogarsi sull’operato del sistema degli aiuti alla Palestina occupata, prima e dopo il 7 ottobre 2023.
Prima del 7 ottobre 2023
La violenza nella Striscia di Gaza non è iniziata il 7 ottobre 2023[ii] [iii]. Da almeno 76 anni, con la nascita dello stato di Israele nel 1948, per i palestinesi la violenza è una realtà estrema e quotidiana, privati di una vita dignitosa, sicura e rispettosa dei diritti umani. Almeno dal 2007, a causa del blocco imposto da Israele, l’80% dei gazawi per sopravvivere faceva affidamento sull’aiuto internazionale, più del 50% era disoccupata, gli ospedali erano costantemente a corto di medicinali, circa il 95% dell’acqua era inquinata, l’elettricità era disponibile solo sporadicamente. Incursioni militari israeliane avvenivano settimanalmente, con sistematici bombardamenti. Tra il 1° gennaio 2008 e il 19 settembre 2023, più di 5.365 palestinesi erano stati uccisi, tra cui 1.206 bambini.[iv]
Soprattutto dopo gli Accordi di Oslo del 1993, gli abitanti dei TPO hanno ricevuto una mole considerevole di aiuti sotto forma di cooperazione allo sviluppo e soccorso umanitario. Il fatto che il cosiddetto “processo di pace” non ne abbia beneficiato chiama in causa anche la nostra responsabilità di Paesi donatori e agenzie umanitarie. È opinione diffusa che quegli stessi aiuti abbiano finito per rafforzare l’occupazione israeliana della Palestina sollevando Israele dai suoi obblighi di potenza occupante, servendo a ricostruire quello che distruggeva e quindi consentendo che queste azioni continuassero. Per i palestinesi il nostro aiuto, limitato a risorse finanziarie per cibo, servizi, ecc., è servito semplicemente a mantenere stabili i livelli di povertà causata dalle politiche repressive di Israele. È servito a depoliticizzare il conflitto sostituendo la categoria politica di “profugo” e “oppresso” (normata dal Diritto internazionale) da quella umanitaria di “vittima” (priva di uno status giuridico, indifesa e sfruttata per raccogliere fondi).In linea di massima, abbiamo rispettato le restrizioni e i diktat israeliani al fine di mantenere l’accesso, per poi pagare il conto senza opporci più di tanto all’accordo complessivo e tanto meno alle politiche israeliane.
Questa presa di coscienza ci ha creato un profondo senso di malessere nell’avere di fronte due opzioni estreme:
- continuare a fornire aiuti continuando ad accettare lo status quo di occupazione e le politiche repressive di Israele,
- ritirarci completamente.
Nessuno ha mai osato optare per la seconda. Nonostante preso in considerazione più volte, infatti, l’abbandono totale del campo non è mai stata considerata un’alternativa accettabile sia per i costi materiali e psicologici che sarebbero ricaduti sulla popolazione sia per l’inevitabile percezione di perdita della solidarietà internazionale. Il ritirarci dalla regione avrebbe potuto accrescere la disperazione e un popolo disperato non aiuta a fare la pace. Come ha scritto Eyal Weizman, evitare il confronto con Israele, ossia il “male minore”[v] della complicità, ha rappresentato per noi, operatori umanitari, l’argomento costitutivo, il nostro alibi.
Anche se ignorate dai principali media, conoscevamo bene le vere ragioni della drammatica situazione umanitaria:
- La prima causa di povertà e crisi umanitaria era l’occupazione militare che privava i palestinesi della libertà di movimento e del controllo sulle proprie vite[vi];
- Provvedere al benessere della popolazione occupata era obbligo della potenza occupante, Israele, e non della comunità internazionale[vii];
- A beneficiare maggiormente degli aiuti ai palestinesi era lo stesso Israele[viii] che, a sua volta, faceva di tutto per ostacolarli.[ix]
Eppure, abbiamo taciuto.
Con il nostro aiuto ai TPO, abbiamo anche, in realtà, sovvenzionato l’occupazione militare destinando fondi inizialmente riservati a progetti di sviluppo a lungo termine in progetti di emergenza per sostenere i costi delle violazioni di Israele. In questo modo abbiamo inoltre ignorato irresponsabilmente il Parere consultivo della Corte internazionale di giustizia del 2004 che prescrive di “Non sostituirsi alla responsabilità della potenza occupante” e “Fare in modo che Israele rispetti il diritto internazionale umanitario”.[x] Oltretutto, noi donatori internazionali non abbiamo mai agito in modo sistematico per chiedere riparazioni o compensazioni per i danni causati da Israele alle opere da noi finanziate.[xi] Al contrario, abbiamo continuato con fondi per la ricostruzione, esonerando in tal modo Israele dalla responsabilità per le proprie azioni.
Assegnare gli aiuti permettendo a Israele di trarre profitto dalle sue violazioni dei diritti dei palestinesi significa incentivare in pratica ulteriori violazioni. Il “Gaza Reconstruction Mechanism” (GRM) ne è un esempio eclatante. Istituito nel 2014 come mezzo per accelerare il processo di ricostruzione attraverso un maggiore flusso di materiali edili a Gaza, in pratica consentiva a Israele di controllare ciò che entrava e usciva dalla Striscia, con un’artificiosa lista di cosiddetti articoli “a doppio uso”.[xii] Normalizzando il blocco israeliano, il GRM in realtà mostrava come presunti aiuti umanitari possano avere effetti politici negativi su un popolo oppresso.[xiii] I fallimenti di questo accordo, mediato dalle Nazioni Unite, sollevano interrogativi sul nostro ruolo nella “prossima” ricostruzione post-bellica.
Anziché ammettere le nostre responsabilità, molti di noi donatori hanno addirittura preso pubblicamente le distanze da iniziative della comunità civile palestinese come il movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS). Uno studio del 2011[xiv] a Gaza ha rilevato la nostra mancata opposizione alle politiche repressive di Israele che ostacolavano gli aiuti. Altri studi hanno evidenziato come ci siamo passivamente adeguati alle gravose richieste israeliane, anche quando comportavano costi maggiori.
Dopo il 7 ottobre 2023
Ricordando come ci siano voluti 50 anni perché il Comitato Internazionale della Croce Rossa ammettesse il suo “fallimento morale riguardo all’Olocausto”, l’agenzia giornalistica indipendente The New Humanitarian accusa le organizzazioni umanitarie di complicità nel caso di Gaza[xv]. Dopo che la Corte Internazionale di Giustizia, un anno fa, ha ritenuto che le azioni israeliane nella Striscia costituiscano un genocidio plausibile,[xvi] dopo che una serie di professori di crimini di guerra, studiosi dell’Olocausto, la Relatrice speciale delle Nazioni Unite[xvii] e ora Amnesty International,[xviii] hanno concluso che esistono prove sufficienti per dichiarare che Israele stia commettendo un genocidio, ebbene ancora una volta noi “agenzie umanitarie” non riusciamo a farci sentire.
A tale silenzio si aggiunge a Gaza quello che tre noti studiosi chiamano “camuffamento umanitario”, ossia “l’appropriazione e la distorsione del diritto internazionale umanitario per giustificare e rivendicare come lecite le molteplici pratiche di annientamento portate avanti da Israele nella Striscia.”[xix] Esempio di tale camuffamento è propagandare come misura di protezione civile l’ordine di evacuare il nord di Gaza in 24 ore verso le “zone sicure” (poi sistematicamente bombardate) designate da Israele nel sud della Striscia, oppure una serie di concetti del diritto internazionale umanitario, come gli scudi umani e gli “scudi ospedalieri”, utilizzati da Israele come strumenti di pulizia etnica e genocidio. Tutto ciò “dimostra in definitiva che l’ordine internazionale ha raggiunto un punto di svolta in cui l’acquiescenza politica verso Israele e la sua legittimazione come stato rispettoso del diritto internazionale svuota di significato gli strumenti legali chiave che la comunità internazionale ha sviluppato per prevenire i crimini internazionali. Se tollerato, condonato e impunito”, continuano gli esperti, “questo processo potrebbe inaugurare una nuova era di atrocità di massa contro i gruppi protetti nel Sud del mondo, in cui le grandi potenze saranno in grado di descrivere i genocidi come mezzi ‘incidentali’ e ‘proporzionati’ per raggiungere i loro obiettivi di guerra.”[xx]
L’acquiescenza politica verso Israele deriva dal fatto che noi occidentali, denuncia il chirurgo britannico-palestinese Ghassan Abu-Sittah intervistato dal Lancet[xxi], possediamo un “apparato di istituzioni” che aiuta e favorisce il genocidio. Non soltanto il settore umanitario, ma anche le nostre università, i nostri media e il nostro settore sanitario pubblico stanno assistendo passivamente, facendo quasi finta di non vedere e di non sapere, a una “guerra genocida coloniale contro nativi problematici”.
Non c’è bisogno di attendere che l’accusa di genocidio, “il crimine dei crimini”, sia legalmente stabilita per condannare le azioni di Israele. Le prove che Israele sta commettendo crimini di guerra su intere generazioni a Gaza sono schiaccianti: l’intento dichiarato dei massimi esponenti politici israeliani; la percentuale di popolazione e territorio colpiti; il numero di morti, feriti e orfani civili; la mancanza di capacità di fuga; il controllo totale di Israele su ogni aspetto della vita nell’enclave; l’impatto psicologico dell’essere costretti a vivere in una condizione di privazione forzata per così tanto tempo; lo sfacciato beneplacito concesso da alcuni dei paesi più potenti del mondo.[xxii]
Di fronte a tutto questo, appare singolare il silenzio del mondo della sanità pubblica italiana. Associazioni e gruppi professionali da anni molto attivi nella promozione della pace, soprattutto in seguito all’invasione russa dell’Ucraina, sembriamo riluttanti a dichiararci apertamente sui fatti di Gaza. Perché?
Angelo Stefanini, Medico volontario del PCRF (Palestine Children’s Relief Fund)[xxiii]
Riferimenti
[i] Lucio Caracciolo sulla Repubblica del 25 gennaio 2011
[ii] https://www.ohchr.org/en/special-procedures/sr-palestine
[iii] https://www.hrw.org/news/2022/06/14/gaza-israels-open-air-prison-15
[iv] https://www.ochaopt.org/data/casualties
[v] Il minore dei mali possibili, https://www.lavoroculturale.org/eyal-weizman-il-minore-dei-mali-possibili/redazione-lc/2013/
[vii] 1907 Hague Regulations (arts 42-56) e la 4a Convenzione di Ginevra (GC IV, art. 27-34 and 47-78).
[viii] Shir Hever, How Much International Aid to Palestinians Ends Up in the Israeli Economy? https://www.shirhever.com/wp-content/uploads/2018/01/InternationalAidToPalestiniansFeedsTheIsraeliEconomy.pdf
[x] https://www.un.org/unispal/document/auto-insert-204033/
[xi] L’unica volta che la comunità internazionale ha chiesto il pagamento dei danni da parte di Israele è stato per quelli causati nel conflitto del 2008-09 contro Gaza. Tuttavia, le richieste non sono state fatte da o per conto delle vittime palestinesi, ma dall’ONU per i danni alle sue strutture. È significativo il fatto che Israele abbia pagato.
[xii] https://www.theguardian.com/world/article/2024/jun/24/gaza-blockade-israel-banned-items
[xiii] https://pomeps.org/normalizing-the-siege-the-gaza-reconstruction-mechanism-and-the-contradictions-of-humanitarianism-and-reconstruction
[xiv] http://palthink.org/en/2011/11/651/
[xv] https://www.thenewhumanitarian.org/editorial/2024/12/12/aid-agencies-history-will-judge-your-failure-call-out-israel-war-crimes-gaza-palestine?utm_source=The+New+Humanitarian&utm_campaign=358a202ffa-RSS_EMAIL_CAMPAIGN_ENGLISH_CONFLICT&utm_medium=email&utm_term=0_d842d98289-358a202ffa-75726662
[xvi] https://www.icj-cij.org/node/203454
[xix] Luigi Daniele, Nicola Perugini, Francesca Albanese, Humanitarian Camouflage – Israel Rewrites The Laws Of War To Legitimize Genocide In Gaza, Institute for Palestine Studies, 2024.
[xx] Ibid.
[xxi] https://www.thelancet.com/journals/lancet/article/PIIS0140-6736(24)02554-6/fulltext
[xxiii] https://www.pcrf.net/italy
fonte: https://www.saluteinternazionale.info/2025/01/genocidio-a-gaza-le-mie-responsabilita/