La denuncia di Paolo Cognetti, delle sue sofferenze durante il TSO e sulla contenzione subita, ci sollecitano alla riflessione e all’azione oltre il suo doloroso caso. Per prima cosa, guardando al dibattito intorno alla vicenda Cognetti, osservo una certa confusione nell’opinione pubblica fra il regime di Trattamento Sanitario Obbligatorio psichiatrico e la contenzione: quasi quest’ultima fosse il “necessario” corollario del Tso.
Il TSO come situazione straordinaria
In maniera simile, c’è una tendenza a equivocare il Tso come “l’intervento sulla crisi” per eccellenza, laddove il Tso è invece una situazione straordinaria di cura in regime di sospensione della libertà personale, non a caso accompagnata da una serie di garanzie di legge a tutela del paziente. Una prima precisazione in merito alla “sospensione della libertà personale”. Mi sono riletta con attenzione gli articoli 33 e 34 della legge 833/78, che disciplinano rispettivamente i trattamenti sanitari volontari e obbligatori in linea generale e i trattamenti obbligatori per malattia mentale: il dettato di legge parla di “obbligatorio”, non di “forzato”. Anzi, si sottolinea non solo che i trattamenti sanitari sono “di norma volontari”, ma che in caso di Tso, questo deve avvenire “nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici”.
E che inoltre “i Tso devono essere accompagnati da iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi vi è obbligato”. È anche ribadito il diritto dell’infermo “a comunicare con chi ritenga opportuno”. Dunque, la coincidenza di “obbligatorio” e “forzato” è una interpretazione. Il fatto che le forze dell’ordine si presentino alle porte di un paziente psichiatrico per “catturarlo” e portarlo in manette in ospedale è una prassi, più che una conseguenza insita nella norma. Infatti, sono a conoscenza di prassi differenti, perlopiù attuate nel periodo immediatamente successivo all’approvazione della 180, in conformità al suo spirito: ad esempio, la costituzione di unità di “pronto intervento sulla crisi” in forza presso i servizi territoriali, composte esclusivamente da personale sanitario, che intervengono a domicilio cercando di evitare il trasferimento in ospedale e comunque cercando di “assicurare il consenso e la partecipazione” del paziente secondo indicazione di legge (art.33/833).
È lecito allora chiedersi quale idea del malato mentale – o meglio della persona con disabilità psico-sociale, per usare una definizione più recente in linea coi documenti internazionali – guidi le pratiche al limite della compatibilità con le norme, parrebbe.
La contenzione
Veniamo allo spinoso problema della contenzione. La contenzione meccanica non è il corollario del Tso se non altro perché non è affatto un trattamento medico e non è una cura. Va sempre tenuto a mente che esistono Servizi di Diagnosi e Cura ospedalieri che escludono del tutto l’uso di legare i pazienti ai letti, tanto da non avere neppure gli strumenti per metterla in pratica (gli Spdc no restraint).
Il caso Lavorgna vs Italy
Sulla contenzione si è espressa di recente la Corte Europea per i Diritti Umani (Cedu) nel caso Lavorgna vs.Italy (novembre 2024; 8436/21). È una sentenza di straordinaria importanza, perché circoscrive in modo sostanziale l’ambito in cui i sanitari possono essere esentati da sanzioni penali, nel caso decidano di legare i pazienti. La vicenda inizia col ricovero volontario in ospedale di un giovane paziente che lì rimane volontariamente per una settimana. Al settimo giorno, in presenza dei genitori in visita, il giovane chiede di tornare a casa. I sanitari rifiutano la dimissione e trasformano il ricovero volontario in Tso.
Di fronte al trattenimento coatto, il paziente aggredisce prima il padre, poi la madre e il medico. Viene perciò legato al letto per otto giorni (e sottoposto a sedazione farmacologica per 20 giorni). La Corte osserva che, secondo quanto registrato dai medici, già dal pomeriggio del secondo giorno di contenzione il giovane appariva tranquillo. Tuttavia, rimane legato al letto per altri sei giorni per “ragioni precauzionali” di “rischio di ulteriori episodi aggressivi”. La Corte ribadisce che queste non sono ragioni valide per applicare la contenzione.
Legare al letto una persona va dunque considerato un “trattamento inumano e degradante” a meno che non rientri nelle previsioni dell’art.54 del codice penale, ossia in presenza di “stato di necessità per salvare sé o altri dal pericolo attuale di danno grave alla persona”. La sentenza è interessante anche per altri aspetti, come la censura dei tempi lunghi della giustizia italiana (cui si era rivolta in prima istanza l’avvocata di Lavorgna) che suggeriscono una sottovalutazione della gravità della denuncia di maltrattamenti da parte di un’autorità pubblica (l’ospedale in questo caso).
I registri dei medici
Scelgo però di soffermarmi in particolare sui registri dei medici: a loro avviso, il paziente non deve essere slegato perché “non sembra pentito” (secondo giorno). E ancora, nel pomeriggio sempre del secondo giorno: “È arrabbiato, non capisce perché è legato e riferisce che ciò che è accaduto ieri aveva lo scopo di tornare a casa”…”Rimane un alto rischio di violenza verso altri alla luce del suo atteggiamento “acritico”…Rimane perciò legato mani e piedi”.
Il registro parla eloquentemente della cultura del servizio. Da un lato, l’accenno al “pentimento” rivela un approccio di “terapia morale”, dove la contenzione assume valore punitivo, più che preventivo. Dall’altro, l’episodio aggressivo è letto solo come espressione della malattia del paziente. Per un “non malato psichiatrico”, l’aggressione sarebbe stata inquadrata facendo riferimento in primis alle ragioni addotte dalla persona e al contesto dell’evento: ad esempio, in un caso simile allo stress e al trauma di vedersi trattenuto contro la sua volontà, alla paura di essere sottoposto a un potere e volere altro, al “sentirsi tradito” dai genitori che non lo spalleggiano.
Ovviamente, queste sono spiegazioni, non giustificazioni. Tuttavia, da queste si partirebbe per instaurare una relazione umana, anche terapeutica. Invece, per il malato psichiatrico, la persona con le sue ragioni e sentimenti scompare, sostituita dalla malattia. In altre parole, salta agli occhi l’aspetto “disumanizzante” di una certa cultura psichiatrica.
Conclusioni sul TSO
Praticare il terreno giudiziario è importante e ci rinvia a una continua verifica della cultura dei servizi. Ma non è il solo. Nel caso della contenzione, già nel 2015 il Comitato Nazionale per la Bioetica, in un lungo parere motivato, concludeva che era necessario superare la contenzione, nell’ambito “della promozione di una cultura della cura rispettosa dei diritti e della dignità delle persone”; e auspicava che le Regioni e il governo “predisponessero programmi finalizzati al superamento della contenzione”. Al tempo, il parere fu salutato positivamente, da più parti. Possiamo aprire una vertenza per andare a vedere a che punto stanno questi programmi finalizzati a Contenzione Zero? Possiamo chiedere un monitoraggio in tutta Italia dei registri della contenzione, per verificare se i criteri della recente sentenza CEDU siano rispettati?