Un freno al regionalismo differenziato. di Federico Pallante.

Nel non facile tentativo di ricondurre il regionalismo differenziato, introdotto con la riforma costituzionale voluta dall’Ulivo nel 2001, ai principi di solidarietà, uguaglianza e unità della Repubblica, la sentenza n. 192 del 2024 della Consulta sulla legge Calderoli opera una ricostruzione che va oltre la questione della devoluzione dei poteri alle regioni.


Centrale, nel ragionamento della Corte costituzionale, è l’insistenza sulla necessità che qualsiasi decisione in tema di ripartizione territoriale delle funzioni risponda non a interessi particolari, siano essi ascrivibili a partiti o a enti territoriali, ma «al modo migliore per realizzare i principi costituzionali». Con la conseguenza – esiziale per la bulimia di potere dei fautori del regionalismo differenziato – che saranno ammissibili solo richieste regionali «giustificate e motivate con precipuo riferimento alle caratteristiche della funzione e al contesto (sociale, amministrativo, geografico, economico, demografico, finanziario, geopolitico ed altro) in cui avviene la devoluzione, in modo da evidenziare i vantaggi – in termini di efficacia e di efficienza, di equità e di responsabilità – della soluzione prescelta».

Forse ancora più rilevante, per l’incisività delle sue conseguenze, è il passaggio della sentenza in cui la Corte costituzionale sottolinea la differenza tra i livelli essenziali delle prestazioni (Lep) concernenti i diritti costituzionali, da un lato, e il nucleo minimo dei diritti costituzionali, dall’altro. Spiega la Corte: «in sintesi, il nucleo minimo del diritto è un limite derivante dalla Costituzione e va garantito da questa Corte, anche nei confronti della legge statale, a prescindere da considerazioni di ordine finanziario: “[è] la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione” (sentenza n. 275 del 2016). Invece, i Lep sono un vincolo posto dal legislatore statale, tenendo conto delle risorse disponibili, e rivolto essenzialmente al legislatore regionale e alla pubblica amministrazione; la loro determinazione origina, poi, il dovere dello stesso Stato di garantirne il finanziamento». Significa che il nucleo minimo di un diritto costituzionale è un dato oggettivo, ancorché mutevole nel tempo, ricavabile dalla Costituzione; mentre il livello essenziale delle prestazioni concernenti lo stesso diritto è un dato soggettivo fissato dal legislatore. Tale Lep può essere corrispondente o anche superiore al nucleo minimo del diritto, a seconda di quel che discrezionalmente deciderà il legislatore; non può invece mai essere inferiore, perché in tal caso si verrebbe a verificare la violazione del diritto costituzionale.

Il punto decisivo è che, una volta sancito un diritto nella Costituzione, l’attuazione quantomeno del suo nucleo minimo non è rimessa alla buona volontà delle autorità competenti, ma si pone come un vero e proprio vincolo giuridico. A esserne gravato è specialmente il legislatore, che risulta tenuto tanto alla predisposizione della normativa di attuazione (dalla cui esecuzione per mano della pubblica amministrazione deriverà, poi, la concreta “messa in atto” del diritto), quanto all’allocazione nella legge di bilancio delle risorse economiche necessarie (dal momento che, come scrive la Corte costituzionale ancora nella sentenza n. 275/2016, l’effettività di un diritto «non può che derivare dalla certezza delle disponibilità finanziarie per il soddisfacimento del medesimo»). Alla Corte costituzionale spetterà, quindi, controllare che le leggi, inclusa quella di bilancio, siano effettivamente rispettose del vincolo giuridico volto a dare effettiva attuazione ai diritti: quantomeno, con riguardo al loro contenuto minimo; ma, se il legislatore ha definito i Lep, anche con riguardo a questi ultimi (rileva, in proposito, la pregressa giurisprudenza che annulla alcune leggi di bilancio regionali per aver distolto verso altre spese risorse destinate al finanziamento dei Lea: vale a dire, i livelli essenziali delle prestazioni inerenti al diritto alla salute).

A pochi giorni dalla “pronuncia Calderoli”, dando seguito allo schema ivi definito, la Corte costituzionale è quindi intervenuta con la sentenza n. 195/2024 per annullare la legge di bilancio per il 2024 nella parte in cui procede a una riduzione generalizzata «delle risorse a qualsiasi titolo spettanti a ciascuna regione».vLa legge, sancisce la Corte, avrebbe dovuto distinguere tra risorse destinate ad alimentare la «spesa costituzionalmente necessaria» – quella, cioè, rivolta al «finanziamento dei diritti sociali, delle politiche sociali e della famiglia, nonché della tutela della salute» – e risorse finalizzate a sostenere spese «che non rivestono la medesima priorità», concentrando i tagli solo su queste ultime.

È la conferma di quel che in dottrina da tempo sosteneva Lorenza Carlassarele spese pubbliche non sono tutte poste sullo stesso piano. Alcune sono necessarie, altre facoltative. Altre ancora – si può aggiungere – sono vietate: per esempio, quelle con cui dovesse essere deciso l’acquisto di strumenti atti a comminare la pena capitale, essendo la condanna a morte vietata dalla Costituzione. Il punto delicato – ostico non solo per la politica, ma anche per una parte non così circoscritta della dottrina giuridica – è che le spese necessarie non possono essere ridotte al di sotto della soglia essenziale per garantire l’erogazione dei Lep (o, se non individuati, il contenuto minimo del diritto). La discrezionalità del legislatore risulta, in tal modo, limitata alle spese facoltative: e – dice la Corte costituzionale – sono queste ultime a dover essere ridotte in caso di necessità, pena la violazione dei diritti costituzionali. Nel quadro di un ordinamento costituzionale improntato sull’effettiva garanzia dei diritti, lo spazio decisionale rimesso alla discrezionalità del legislatore è, dunque, circoscritto tra le spese necessarie (quelle che devono essere sempre previste) e le spese vietate (quelle che non devono mai essere previste).

In effetti, è questo il modo migliore per attribuire un significato normativo alla formula che ricorre nel secondo comma dell’art. 1 Cost.: quella per cui il potere decisionale scaturente dalla sovranità popolare non consente né al popolo, né ai suoi rappresentati eletti di decidere quello che vogliono, ma «si esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Le «forme»: vale a dire, le procedure che devono essere seguite pena l’invalidità formale della decisione. E i «limiti»: vale a dire, i divieti di contenuto che devono essere rispettati pena l’invalidità sostanziale della decisione. Chi nega questa conclusione vorrebbe vedere la legge di bilancio prevalere sul dettato costituzionale: un capovolgimento del corretto rapporto gerarchico tra le fonti del diritto che, a partire dalla prima sentenza pronunciata dalla Corte costituzionale – la n. 1 del 1956, incentrata sul riconoscimento della prescrittività di tutta la Costituzione, incluse le sue norme di principio e le sue norme programmatiche – non ha più diritto di cittadinanza nel dibattito dottrinario.

Coerenza vorrebbe che la Corte costituzionale giungesse a dichiarare incostituzionali le spese facoltative decise dal legislatore nonostante l’insufficienza delle spese necessarie (per esempio, nel caso dei finanziamenti alla scuola privata, stante il disastroso sottofinanziamento della scuola pubblica): cosa che le consentirebbe di riorientare il bilancio verso l’attuazione necessaria dei diritti costituzionali. Lo stesso potrebbe accadere con riguardo alle eventuali spese vietate: in proposito, sarebbe opportuno interrogarsi sulle spese militari eccedenti le strette esigenze di garanzia del dovere di difesa della Patria sancito dall’art. 52 Cost. Il problema è che il ruolo della Corte è più agevole quando si tratta di eliminare violazioni commissive, frutto di antinomie: lo farà tramite sentenze di accoglimento totale o parziale. È meno agevole quando si tratta invece di eliminare violazioni omissive, prodotte da lacune: in questo caso ricorrerà a sentenze additive (siano esse di principio, a rime possibili o di regola). È chiaro che eliminare dalla legislazione qualcosa che non deve esserci, ma c’è, è più agevole che aggiungere qualcosa che deve esserci, ma non c’è: elaborare testi normativi è compito del legislatore, non della Corte costituzionale. Ciò non toglie, tuttavia, che non cambia nei due casi la cornice concettuale: quello delle violazioni omissive è un problema pratico, non teorico.

La stessa Corte costituzionale ha, d’altronde, affermato il proprio potere di intervento anche sulla legge di bilancio. È ancora la sentenza n. 275/2016 ad averlo fatto, ricordando quanto già stabilito nella sentenza n. 10/2016 (e, ancor prima, nella sentenza n. 260/1990): «in sede di redazione e gestione del bilancio, vengono determinate, anche attraverso i semplici dati numerici contenuti nelle leggi di bilancio e nei relativi allegati, scelte allocative di risorse “suscettibili di sindacato in quanto rientranti ‘nella tavola complessiva dei valori costituzionali, la cui commisurazione reciproca e la cui ragionevole valutazione sono lasciate al prudente apprezzamento di questa Corte’ (sentenza n. 260 del 1990)”». Non si può, dunque, «ipotizzare che la legge di approvazione del bilancio o qualsiasi altra legge incidente sulla stessa costituiscano una zona franca sfuggente a qualsiasi sindacato del giudice di costituzionalità, dal momento che non vi può essere alcun valore costituzionale la cui attuazione possa essere ritenuta esente dalla inviolabile garanzia rappresentata dal giudizio di legittimità costituzionale» (sentenza n. 260 del 1990).

In definitiva, come ha scritto Gustavo Zagrebelsky, per le spese che corrispondono a veri e propri diritti di prestazione sanciti dalla Costituzione «non c’è politica (e quindi nemmeno dipendenza da interpositio di valutazioni discrezionali del legislatore) ma solo giurisdizione in nome della Costituzione».

Francesco Pallante, Professore di Diritto Costituzionale, Università di Torino

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