La possibilità per le regioni a statuto speciale di ottenere più autonomia attraverso una legge ordinaria è tra i punti della legge Calderoli bocciati dalla Consulta. Ma si crea così una differenza di status con quelle ad autonomia differenziata.
Lo stop della Consulta
La Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionali (sentenza n. 192/2024) diverse disposizioni della legge n. 86 del 26 giugno 2024 – la legge Calderoli. Tra quelle dichiarate illegittime, vi è anche l’articolo 11, comma 2, attraverso il quale il legislatore statale ha voluto estendere alle regioni a statuto speciale la facoltà di beneficiare della previsione dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione, grazie alla clausola di “maggiore autonomia” già prevista per tali regioni dall’articolo 10 della legge costituzionale n. 3/2001.
Il tentativo è stato fermato dal giudice delle leggi per via di una serie di rilevanti differenze. La Corte costituzionale, che ha riunito tutti ricorsi presentati dalle regioni, ha potuto in via pregiudiziale interpretare la disposizione in questione solo a seguito del ricorso presentato dalla Regione Sardegna (a statuto speciale). Ciò significa che, sulla base del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, se tra le regioni ricorrenti non ci fosse stata la Sardegna, la Corte non avrebbe avuto l’occasione di sindacare la legittimità costituzionale della controversa disposizione legislativa e la sua applicazione avrebbe generato non poche difficoltà.
Le regioni a statuto speciale
Le regioni a statuto speciale sono espressamente individuate dall’articolo 116, comma 1, della Costituzione. Friuli Venezia Giulia, Sardegna, Sicilia, Trentino-Alto Adige/Südtirol e Valle d’Aosta dispongono di forme e condizioni particolari di autonomia, secondo i rispettivi statuti speciali adottati con legge costituzionale. Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia sono poi riconosciute dalla Costituzione alle altre regioni in forza del comma 3 del medesimo articolo 116. Non vi è dubbio che si faccia riferimento solo alle restanti regioni a statuto ordinario.
Il principio di “maggiore autonomia”
Con la legge costituzionale n. 3/2001, che ha riformato il titolo V della Costituzione, sono già state riconosciute alle regioni a statuto ordinario “forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite”. In forza dell’art. 10 di tale legge, le regioni a statuto speciale potevano, peraltro fino all’adeguamento dei rispettivi statuti, godere di una “maggiore autonomia”, ma esclusivamente per quelle parti disciplinate dalla stessa legge costituzionale. Non conforme a Costituzione è quindi il tentativo di annoverare nell’attuale testo sull’autonomia differenziata anche le regioni a statuto speciale, appunto sulla base dell’art. 10 della legge costituzionale n. 3/2001 che, peraltro, “ha una finalità essenzialmente transitoria”.
Il procedimento di revisione dello statuto speciale
Inoltre, non è ipotizzabile l’inserimento di nuove forme di autonomia attraverso un procedimento legislativo che non è conforme a quello previsto per la revisione di uno statuto speciale che è dotato di rango costituzionale. Nel contesto delle regioni speciali, l’ulteriore specializzazione e il rafforzamento dell’autonomia devono scorrere sui binari della revisione statutaria e, entro certi limiti, delle norme di attuazione degli statuti speciali.
La sentenza della Corte costituzionale
Fornendo per la prima volta un’interpretazione dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione, il giudice delle leggi ha chiarito che tale strumento consente, e solo su richiesta, di “rompere”, attraverso il grimaldello offerto dall’autonomia differenziata, l’uniformità delle regioni ordinarie, consentendo loro di negoziare singolarmente con lo stato forme più avanzate di autonomia legislativa e funzionale.
In questo processo di specializzazione e rafforzamento dell’autonomia differenziata non si possono includere le regioni speciali perché sarebbe come conferire il carattere di specialità a regioni che tali già sono per espressa previsione costituzionale. Peraltro, la “declinazione identitaria” sottesa al riconoscimento dell’autonomia speciale per le cinque regioni è stata definita un elemento portante dell’ordinamento italiano ovvero un portato della storia, che, in quanto tale, non rimane esposto alla volatilità delle dinamiche politiche invece previste da una siffatta “autonomia differenziata e congiunturale”.
Una questione da chiarire
Mentre la Corte costituzionale ci fornisce una chiave di lettura in ordine all’applicabilità del procedimento di differenziazione previsto dall’art. 116, comma 3, Cost. alle regioni a statuto speciale, emerge l’esigenza di un intervento chiarificatore del legislatore costituzionale sulla complessa dialettica tra autonomia speciale e autonomia differenziata, anche per porre rimedio al differente ruolo riservato alle regioni nei due diversi procedimenti, un ruolo meramente consultivo nella modifica degli statuti speciali e, invece, del tutto paritario, nel procedimento in base all’art. 116, comma 3, Cost.
Una discriminazione che avrebbe dovuto allarmare tutte le regioni a statuto speciale, costrette alla ben più gravosa approvazione di una legge costituzionale per richiedere ulteriori spazi di autonomia (che peraltro potrebbe anche non tenere conto delle indicazioni date dalla stessa regione), a fronte di una legge ordinaria, ancorché rinforzata, richiesta nell’ambito del procedimento di differenziazione per le regioni a statuto ordinario.