Dolore burocratico. Un dolore che abbraccia una serie di sofferenze e di disagi causati da una condizione di marginalità. Vi si trovano relegate persone incapaci di far fronte a norme e procedure che le allontanano dai servizi socio-assistenziali, dei quali hanno bisogno e ai quali avrebbero diritto, e rispetto ai quali finiscono per scomparire. Il docufilm “Speranze dal sottosuolo” del regista Valerio Finessi.
Alcuni problemi ci stanno davanti agli occhi, ma non li vediamo. Spesso quello che manca è la parola giusta per nominarli. Un’associazione culturale e sociale bolognese, “Gli incontri di S. Antonino”, ci viene incontro suggerendoci il termine appropriato per rendere evidente una situazione di bisogno alla quale cercano di dare, con un’opera di volontariato, una risposta efficace. Accogliendo la loro proposta, la chiameremo, d’ora in poi, “dolore burocratico”; e non potremo far finta di non vedere questa particolare forma di bisogno. Il dolore in questo caso abbraccia una serie di sofferenze e di disagi causati da una condizione di marginalità. Vi si trovano relegate persone incapaci di far fronte a norme e procedure che le allontanano dai servizi socio-assistenziali, dei quali hanno bisogno e ai quali avrebbero diritto, e rispetto ai quali finiscono per scomparire.
Che la burocrazia costituisca un ostacolo per chi si trovi perso nel suo labirinto non è una novità. In maniera elegante, ma molto efficiente, ti respinge, in nome di un’insormontabile non competenza. “Non è questo lo sportello giusto, deve rivolgersi a un altro ufficio, in un altro edificio…”. Chi desiderasse un’immagine della burocrazia impiegatizia che soffoca la vita cittadina non ha che da riguardarsi Vivere, di Akira Kurosawa. È un vecchio film del 1952, che alcuni critici hanno considerato tra i 100 film mai prodotti. Chi fa l’esperienza della paralisi burocratica è l’anziano Watenabe, burocrate lui stesso. Quando gli viene diagnosticato un carcinoma e sa che gli rimane poco da vivere, vuol dedicare il tempo residuo a un’opera meritevole. Fa proprio il progetto di un gruppo di madri che cercano un luogo dove possano giocare i propri figli. Si tratta di far partire un progetto per trasformare un terreno paludoso, abbandonato, in un giardino per i bambini. Il film mostra la spola che fanno le donne, da un ufficio all’altro del comune: ognuno dichiara di non essere competente e le rimanda da qualche altra parte. Girano come palline di un flipper nei meandri burocratici, finché Watenabe non decide di prendere in mano la situazione. Con l’ostinazione di dare un senso ai suoi ultimi giorni di vita, riesce a portare a felice compimento il progetto.
Fatte salve tutte le differenze dell’organizzazione sociale, il dolore burocratico dei nostri giorni affonda le radici nella stessa struttura. La burocrazia è necessaria, ma può creare distanziamento dai bisogni; la suddivisione dei compiti è funzionale al raggiungimento degli obiettivi, ma può tradursi in un distanziamento (“Non spetta a me”) che produce la paralisi. Le persone fragili colpite dal dolore burocratico sono spinte ai margini della vita sociale e rischiano di diventare invisibili, così da non essere più presi in carico o in cura dai servizi esistenti. Pensiamo, certo, ai senza tetto, ai gravi disabili, a migranti senza le necessarie competenze linguistiche, ad anziani soli e a persone non integrate nella comunità. Ma non solo: anche persone per le quali etichette di questo genere sono inappropriate possono trovarsi nella condizione di non poter accedere a servizi socio-sanitari indispensabili. Fanno parte di questa categoria, per esempio, anziani senza competenze informatiche.
Accedere alle strutture pubbliche per loro è come scalare una parete di sesto grado. Pec, spid? Linguaggi familiari come il sanscrito. La burocrazia, che è già una sfida anche per i cittadini più acculturati, per loro diventa una realtà respingente, che li esautora.
Oppure pensiamo al pellegrinaggio da un ufficio a un altro in un labirinto di competenze ben demarcate, ognuna rivolta a definire i limiti della propria prestazione, piuttosto che a rispondere ai bisogni di chi bussa alla loro porta. Riguarda i servizi socio-sanitari, così come tanti altri percorsi di galleggiamento nel mare tempestoso della vita sociale dei nostri giorni.
Dolore burocratico è dunque la formula trasparente che fa emergere la sofferenza legata a queste particolari forme di marginalità. Si tratta di un dolore diverso da quelli fisici o emozionali che sono oggetto di cure sanitarie, eppure strettamente imparentato con esse. Traduce il senso di estraneità, inadeguatezza e oggettiva difficoltà nell’accedere ai servizi legati al welfare. Come ogni forma di dolore, va combattuto. Le attività che lo contrastano possono essere anche semplici, come il fornire un clic di connessione informatica. Altre più complesse. Tutte presuppongono però l’aver intercettato quella particolare forma di dolore creato dalla nostra società parcellizzata e aver dato un volto, mediante un’etichetta, a degli invisibili, spinti ai margini dall’organizzazione.
Ben venga il volontariato a dare una mano, favorendo l’accesso a servizi previdenziali e di welfare, come l’Inps, oltre che ai servizi sanitari. Il docufilm prodotto dall’associazione a cui facciamo riferimento: Speranze dal sottosuolo: un viaggio attraverso il dolore burocratico, del regista Valerio Finessi, nell’ambito del progetto “Cura delle relazioni per la prevenzione del disagio”, illustra efficacemente gli effetti benefici di questa azione del volontariato. Purché siamo anche disposti a rivedere i rapporti burocratici, creando una nuova alleanza tra coloro che erogano i servizi e quelli che soffrono per una fragilità che impedisce loro di accedervi. Non è accettabile che delle persone rinuncino ai servizi socio-sanitari perché impossibilitate a seguire percorsi assurdi. Per declinare in concreto il dolore burocratico: chi è affetto da una patologia inguaribile, non dovrebbe essere periodicamente costretto da una burocrazia cieca e sorda a fare la fila per dimostrare, ancora e ancora, di essere malato. Come, per dire, se un arto amputato potesse ricrescere.
È davvero utopico pensare a una burocrazia non ostile, ma dal volto amico? Combattere il dolore burocratico significa anche attendersi, grazie alla collaborazione tra volontariato e istituzioni, una vita comunitaria più solidale e inclusiva.
fonte: https://www.saluteinternazionale.info/2024/12/ammalarsi-di-burocrazia/