Intervista al neuroscienziato Fausto Caruana e l’etologa Elisabetta Palagi sul loro recente saggio dedicato alla risata, per capire come un comportamento così quotidiano da essere dato per scontato sia arrivato dalle indagini puramente filosofiche che lo hanno accompagnato per secoli a quelle biologiche (di Scienza in Rete)
Scienza in Rete: “Di recente abbiamo pubblicato la recensione di Perché ridiamo. Alle origini del cervello sociale (il Mulino, 2024): un saggio che esplora un comportamento quotidiano, ma che ben di rado la letteratura scientifica ha indagato dal punto di vista evolutivo.
Oggi facciamo una chiacchierata con gli autori, il neuroscienziato Fausto Caruana, Primo Ricercatore presso l’Istituto di Neuroscienze del CNR di Parma professore all’Università di Parma, e l’etologa Elisabetta Palagi, professoressa all’Università di Pisa, per capire com’è nato il loro lavoro”.
Vi occupate di due campi che non è scontato vedere insieme. Com’è nata la vostra collaborazione?
Elisabetta Palagi. Ci siamo conosciuti di persona fin da convegno dedicato alle emozioni, nostre e delle altre specie, organizzato dal primatologo Frans de Waal e dal neuroscienziato Pier Francesco Ferrari, a Erice nel 2016. Entrambi lavoravamo sulla risata, ma in modo diverso: nel tempo abbiamo iniziato a scambiarci opinioni e riflessioni sul lavoro. Finimmo per pensare a un volume speciale della Philosophical Transactions of the Royal Society curato da noi e de Waal, con vari contributi da neuroscienze a etologia, interdisciplinare, per parlare del riso da un punto di vista naturalistico ed evoluzionistico. Oggi è infatti chiaro che la risata è un fattore biologico, non culturale – anche se questo aspetto è stato tutt’altro che scontato per secoli, durante i quali è stata considerata un comportamento esclusivamente umano e culturale. Così è nato il nostro libro, come tentativo di dare spiegazione biologica a concetti filosofici costruiti in precedenza.
In che senso lavoravate entrambi sulla risata? In cosa consistono i vostri studi?
Fausto Caruana. Ho iniziato a studiare il riso per caso, collaborando con il centro di chirurgia dell’epilessia “Claudio Munari” dell’Ospedale Niguarda. Tra le procedure di indagine pre-chirurgica per lo studio dell’epilessia farmaco-resistente vi è la stimolazione cerebrale; è emerso così che alcune aree, quando stimolate, determinavano la risata. Sulle basi e i meccanismi cerebrali coinvolti nel riso c’era poco e nulla in letteratura scientifica (e tutt’oggi gli studi sono limitati), per cui ho iniziato ad approfondire questi studi. Anche perché sono vari – seppur rari – i contesti anche medici che coinvolgono la risata: è il caso per esempio della cataplessia, una perdita improvvisa e transitoria del tono muscolare, spesso scatenata da emozioni forti, inclusa la risata; oppure la sindrome pseudobulbare, resa celebre dal personaggio interpretato da Joaquin Phoenix in Joker, che scatena attacchi di risate (o pianto) incontrollabili, o infine le crisi gelastiche, attacchi epilettici che si manifestano proprio con il riso.
EP. Mentre Fausto era interessato a quella che chiamo la “centralina” della risata, cioè i meccanismi cerebrali che la determinano, io ero invece interessata all’output comportamentale. Studiando il comportamento degli animali non umani, in particolare, volevo capire cosa succede quando un individuo mette in atto un particolare comportamento, come una risata o uno sbadiglio: come reagiscono gli altri? Come reagisce il gruppo sociale?
In particolare, porto avanti varie ricerche dedicate alla play face, un’espressione facciale caratteristica di primati e altri mammiferi sociali caratterizzata da una bocca aperta e rilassata, spesso associata al gioco sociale. Proprio da quest’ultimo, infatti, nascono gli studi sulla risata nelle specie non umane: pur essendo a sua volta un comportamento rimasto a lungo trascurato, nel tempo ci si è resi conto di quanto fosse pervasivo – anche che è un modello perfetto per gli studi di comportamenti complessi. Da lì è nato anche l’interesse per la comunicazione messa in atto durante il gioco e, con esso, la risata. Importante ricordare, però, che il riso ha una natura dualistica: serve per comunicare agli altri, certo, ma rimane allo stesso tempo un’espressione delle emozioni del singolo individuo.
Nel vostro libro appare in modo marcato come la risata sia rimasta, in un certo senso, appannaggio del mondo filosofico per diversi secoli. Solo in tempi più recenti sembra essere aver attirato anche l’interesse della comunità scientifica, grazie all’avanzare delle tecnologie d’indagine neuroscientifica da una parte e alle scoperte etologiche che evidenziano come molti comportamenti e capacità storicamente considerati propri dell’essere umano non sono affatto tali.
FC. È vero, la risata è stata molto a lungo materia d’indagine strettamente filosofica, ma in realtà già Darwin è stato – in questo come il altri campi – un apripista: fu tra i primi a considerarlo come una caratteristica condivisa con altre specie animali, che vedeva come il risultato dell’evoluzione e di meccanismi neurologici comuni. In particolare, aveva fatto un tentativo interessante di spiegare la risata dal punto di vista evolutivo osservando come i cuccioli di scimpanzé emettano suoni simili a risate quando vengono solleticati e suggerendo che dunque sia risposta automatica e involontaria a situazioni di piacere o sollievo che si sviluppa come meccanismo di comunicazione sociale.
Ma anche dal punto di vista delle neuroscienze contemporanee è stato necessario del tempo per iniziare a indagarlo con una prospettiva evolutiva. Per molto tempo, infatti, l’interesse per il riso si concentrava sulla sua manifestazione motoria: non a caso la maggior parte della letteratura era focalizzata sul tronco dell’encefalo, una delle strutture più antiche e conservate del sistema nervoso centrale. Di fatto, era stato ereditato il messaggio, alla base della stragrande maggioranza dei lavori filosofici sulla risata, secondo il quale questa è strettamente legata allo humor: ma quest’ultimo sarebbe elaborato a livello corticale, mentre la coordinazione “di bassa lega” avviene in una struttura meno evoluta, cioè il tronco encefalico.
Con il superamento dell’approccio filosofico tradizionale, si è aperta la strada a una maggiore collaborazione interdisciplinare. Ma come si integrano oggi le prospettive di filosofia, neuroscienze ed etologia nello studio della risata?
FC. Soprattutto negli ultimi trent’anni circa, la collaborazione tra neuroscienze ed etologia è cresciuta molto. Personalmente, ritengo che questo sia legato anche al fatto che all’incirca fino agli inizi del Duemila gli studi neuroscientifici tendevano a ispirarsi a quella che chiamo “metafora del computer”, cioè vedevano il cervello come un computer. E se questo ci ha permesso di capire i meccanismi di alcuni processi cognitivi, ignorava appunto quanto anche i processi cognitivi più complessi siano legati alla dimensione corporea (quindi al fatto di avere un sistema motorio, un sistema emozionale e un sistema sensoriale), e plasmati dall’evoluzione congiunta tra cervello e corpo. Questo ha riportato l’attenzione anche per la componente evoluzionista: così, sono cresciuti gli studi di neuroetologia.
EP. In campo umanistico sembra essere invece rimasta una visione nella quale la mente prevale sul corpo, come fossimo un cervello su due gambe. Ma non possiamo ignorare le nostre connessioni con il mondo esterno: anzi, ogni organismo vive immerso in stimoli che devono essere processati. Anche la connessione tra due individui che ridono è motoria, prima che mentale: ridi tu e viene da ridere a me.
Genovese, si è laureata in biologia molecolare a Pavia. Oggi scrive di scienza e ricerca, soprattutto nell’ambito biomedico ed etologico. Su Twitter è @anna_romano90