Katia Poneti presenta la sentenza della CEDU sulla contenzione per la rubrica di Fuoriluogo su il manifesto
La Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 3 della Convenzione (divieto di trattamenti inumani e degradanti) in un caso di utilizzo della contenzione meccanica e farmacologica in un reparto psichiatrico (SPDC di Melzo). La Corte EDU è stata supportata dalle associazioni L’Altro diritto ODV, La Società della Ragione e Fondazione Franca e Franco Basaglia, che hanno inviato un intervento congiunto di terza parte.
Il sig. Lavorgna, protagonista della vicenda, era appena diciannovenne all’epoca dei fatti: durante la sua degenza in SPDC il paziente era stato legato agli arti e gli erano stati somministrati dei sedativi a causa di alcuni episodi di aggressività. La contenzione meccanica e farmacologica era durata per otto giorni consecutivi, nonostante l’aggressività fosse cessata e il paziente fosse descritto nella cartella clinica come “calmo”. Si sottolineava, piuttosto, come dato critico, il suo mancato riconoscimento del disvalore dell’atto compiuto, ovvero dell’aggressione fisica verso la madre e uno dei medici. Alle richieste di prenderne coscienza, il sig. Lavorgna reagiva, a volte, sottolineando che anche lui si era sentito aggredito, altre volte, dicendosi “pentito” per il comportamento tenuto.
Lo staff sanitario ha utilizzato la contenzione come mezzo di pressione per ottenere una revisione critica del fatto commesso, dunque come strumento disciplinare: questa emerge in controluce come la pratica che ha portato alla violazione. Nella sentenza Lavorgna c. Italia (ricorso n. 8436/21), la Corte ha ritenuto, all’unanimità, che vi sia stata una violazione sostanziale dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani, per quanto riguarda il trattamento a cui è stato sottoposto il ricorrente. La Corte ha considerato giustificato l’utilizzo della contenzione nella sua applicazione iniziale, per proteggere il paziente e le altre persone dagli accessi di violenza, ma non il suo prolungamento, ritenuto non giustificato. Facendo proprie le argomentazioni sostenute nell’intervento di terza parte da L’Altro diritto, dalla Società della Ragione e dalla Fondazione Franca e Franco Basaglia, la Corte ha affermato che la contenzione può essere considerata legittima solo quando presenta le caratteristiche dello “stato di necessità”, di cui all’art. 54 del Codice penale, ovvero quando è volta a scongiurare il pericolo attuale di un danno alla persona che vi è sottoposta o ad altre persone. La decisione della Corte EDU ha fatto perno sulla importante sentenza Mastrogiovanni della Corte di Cassazione (n. 50497 del 20 giugno 2018) con la quale si è chiarito che la contenzione non è un atto medico e che non può essere usata in via preventiva: la contenzione deve essere considerata uno strumento di extrema ratio, a cui si ricorre solo in circostanze eccezionali e per il tempo strettamente necessario. La Corte EDU ha precisato che: “come sottolineato dal ricorrente e dai terzi intervenienti, la Corte di Cassazione italiana ha escluso l’uso della contenzione meccanica su base ‘precauzionale’, e ha specificato che la natura chiara e attuale del pericolo in questione in un determinato caso deve essere concretamente provata attraverso la verifica di elementi oggettivi che il medico deve indicare in modo preciso e dettagliato”.
Poiché l’indagine della Procura di Milano non è stata svolta in tempi ragionevoli e non ha investigato sulle questioni dirimenti per accertare le violazioni, non offrendo, quindi, un rimedio effettivo al sig. Lavorgna, lo Stato italiano è stato condannato anche dal punto di vista procedurale.
Un importante passo in avanti è stato fatto con la decisione Lavorgna c. Italia, verso l’abbandono della pratica di utilizzare la contenzione senza una valutazione stringente dello stato di necessità e contro l’idea che si possa legare per scopi punitivi e/o “pedagogici”.