Il carcere secondo Delmastro e Piantedosi. di Livio Pepino

Il carcere scoppia: il 31 ottobre i detenuti hanno raggiunto il numero di 62.110 superando di nuovo, dopo 13 anni, la soglia, delle 62.000 presenze; i suicidi di persone detenute sfiorano le 80 unità; gli atti di autolesionismo non si contano; l’ordine nei luoghi di detenzione è assicurato solo da una violenza diffusa e dall’uso generalizzato di psicofarmaci.

A fronte di questa emergenza – che, in attesa di più ampi interventi di sistema, richiederebbe, quantomeno, un provvedimento di amnistia e indulto – la risposta del disegno di legge governativo n. 1660 attualmente in discussione al Senato (dopo essere già stato approvato dalla Camera il 18 settembre scorso) è la previsione di 14 nuovi reati e di altrettanti aumenti di pena, in continuità con una scelta che ha portato, negli ultimi due anni, all’introduzione di 48 nuovi reati. Ciò comporterà un maggior numero di condanne e pene più elevate e, dunque, più carcere: superfluo dirlo, accentuandone contemporaneamente il carattere classista, posto che i soli reati depenalizzati sono quelli tipici dei “colletti bianchi”, a cominciare dall’abuso d’ufficio. Ciò sollecita qualche puntualizzazione.

L’aumento del carcere non è la conseguenza di una crescita dei reati ma una scelta politica di governo della società, come dimostra la circostanza che il tetto della criminalità, nel nostro paese, è stato raggiunto nel 1991, quando i detenuti erano circa 35.000 (35.469 al 31 dicembre) e, dunque, la metà (o poco più) di quelli odierni. Il modello di riferimento è quello degli Stati Uniti dove il diritto penale classico (che commisura la pena in base all’entità del reato) è stato sostituito da un diritto d’autore che punisce le persone non per quello che hanno fatto ma per quello che sono, sino all’assurdo di punire con il carcere a vita, in caso di recidiva, il furto di tre mazze da golf, di una pizza o di una merendina (cfr. E. Grande, Il terzo strike. La prigione in America, Sellerio, 2007). La conseguenza è che i condannati all’ergastolo presenti nelle carceri statunitensi sono, oggi, oltre 200.000 (pari a uno ogni 1.500 abitanti), che i penitenziari sono gestibili solo con un surplus di coazione e di violenza e che questo compito viene spesso delegato ai privati.

Il Governo è, evidentemente, consapevole della ingovernabilità di un carcere sovraffollato. E dunque, in attesa di importare il modello americano (evocato implicitamente dal sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro: quello che – in una con la presidente del Consiglio – gioisce alla prospettiva di “togliere il respiro ai detenuti in regime di massima sicurezza”), corre ai ripari, prevedendo una stretta repressiva anche al suo interno. Lo fa con lo stesso disegno di legge 1660, prevedendone una drastica blindatura attraverso la previsione del delitto di “rivolta” in istituto penitenziario, sanzionato con pene da due a otto anni di reclusione per gli organizzatori e da uno a cinque anni per chi vi partecipa. Il termine “rivolta” evoca strutture messe a ferro e fuoco, inferriate e cancelli divelti, agenti di custodia presi in ostaggio e quant’altro. Niente di tutto questo, peraltro, nel nuovo reato che ha come oggetto “atti di violenza o minaccia o di resistenza all’esecuzione degli ordini impartiti, commessi da tre o più persone riunite”, con l’esplicita precisazione che “costituiscono atti di resistenza anche le condotte di resistenza passiva che, avuto riguardo al numero delle persone coinvolte e al contesto in cui operano i pubblici ufficiali o gli incaricati di un pubblico servizio, impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza”. In concreto dunque, se sarà approvato il disegno di legge, incorreranno nel reato di “rivolta”, per esempio, i detenuti che, in gruppo (anche minuscolo) e disattendendo gli ordini ricevuti, rifiuteranno, per protesta, di rientrare in cella dall’aria, o di assumere il cibo, o di recarsi alle docce, impedendo così al personale penitenziario di chiudere le celle, di liberare la mensa etc.

La novità normativa è dirompente sotto molteplici profili, che vanno oltre le stesse mura del carcere. In particolare:

a) viene, per la prima volta in modo esplicito, considerata illecita la “resistenza passiva”, sino ad oggi ritenuta, anche in giurisprudenza, penalmente irrilevante. Non a caso la norma è stata definita, nel dibattito giornalistico, “emendamento anti Gandhi”. Merita aggiungere che la previsione, oltre ad essere grave in sé proprio perché colpisce soggetti già privati della libertà personale, introduce nel sistema un precedente dotato di potente capacità espansiva, che potrebbe ripetere la (triste) esperienza del Daspo, introdotto inizialmente (nel 1989) per una categoria marginale come quella dei tifosi violenti e diventato negli anni uno strumento ordinario di governo del territorio;

b) sempre per la prima volta vengono sostanzialmente equiparati al carcere, con estensione delle pene per il reato di “rivolta” (con una piccola diminuzione), tutti i luoghi di accoglienza per migranti (e, dunque, non solo i Cpr, ma anche i Cara e gli hotspot), così cristallizzando il processo in forza del quale i migranti sono considerati non potenziali autori di reati ma “reati in sé”, per il solo fatto di esistere;

c) nella disciplina del reato di istigazione a disobbedire alle leggi si introduce un’aggravante in forza della quale la pena (della reclusione da sei mesi a cinque anni di reclusione) è aumentata fino a un terzo “se il fatto è commesso all’interno di un istituto penitenziario o a mezzo di scritti o comunicazioni diretti a persone detenute”. Si completa così l’iter di disciplinamento e gestione separata del carcere (anch’essi suscettibili di estensione ad altre istituzioni totali) e di creazione di terra bruciata intorno allo stesso.

Il governo repressivo del carcere e della società è sempre più una realtà.

fonte: volerelaluna.it su Ristretti Orizzonti

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