L’autonomia differenziata, Calderoli e Maradona. di Francesco Pallante

Dando, ancora una volta, mostra della sofisticata sensibilità giuridica e istituzionale che lo contraddistingue, il ministro Calderoli ha festeggiato l’annunciata sentenza della Corte costituzionale sull’autonomia regionale differenziata dichiarando che la legge «ha 11 articoli e 45 commi, sono state presentate un centinaio di eccezioni su 43 commi e ne hanno accettate 7. Si può dire che la partita è finita 45 a 7». Non è chiaro quale sia lo sport di riferimento del ministro, ma le sue parole equivalgono a dire che il Napoli del primo scudetto avrebbe anche potuto rinunciare a Maradona, dal momento che sarebbero comunque rimasti in squadra altri dieci giocatori.

In effetti, quello che la sentenza va a colpire è il fondamento stesso del disegno perseguito dalla Lega: l’idea, cioè, che «regionale sia, sempre e comunque, meglio di statale». Un’idea costitutiva dell’identità leghista, ma, a ben vedere, capace negli ultimi decenni di trovare ascolto trasversalmente agli schieramenti politici: non è difficile coglierne l’influenza nella riscrittura del Titolo V della Costituzione decisa dall’Ulivo nel 2001, nell’avvio delle trattative con le regioni intenzionate a differenziarsi, tra cui l’Emilia Romagna, disposto dal Pd nel 2018, nella prosecuzione delle stesse condotta anche dal M5S nel biennio successivo.

Sin dall’inizio, nonostante gli allarmati avvertimenti di Leopoldo Elia, ad accompagnare l’introduzione del regionalismo differenziato nella Costituzione è stata la tesi che fosse nella facoltà delle regioni chiedere, in blocco, tutte le competenze apparentemente chiedibili, senza onere alcuno di argomentare né le motivazioni delle richieste, né gli effetti attesi dal loro accoglimento. Di qui, il coinvolgimento di 23 materie, articolate in quasi 500 funzioni: un’enormità, suscettibile di provocare la completa ridefinizione degli equilibri di potere tra i livelli territoriali di governo, con decisivo impatto sugli equilibri generali della finanza pubblica. Una visione irriducibile al testo costituzionale – che parla di «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» (art. 116, comma 3) – basata sul preconcetto per cui trasferire alle regioni competenze sinora statali non può che produrre effetti positivi, in qualsiasi ambito: inclusi quelli più esposti alle dinamiche della globalizzazione, come le infrastrutture, i trasporti, l’energia, il commercio con l’estero, l’ambiente, la ricerca ecc.

Riportando al centro del discorso pubblico i principi costituzionali di unità della Repubblica, solidarietà, uguaglianza e sussidiarietà (che – si tende troppo spesso a dimenticarlo – opera, a seconda dei casi, non solo verso il basso, a beneficio delle regioni e degli enti locali, ma anche verso l’alto, a beneficio dello Stato), la Corte costituzionale fa definitivamente piazza pulita di tale bizzarra interpretazione della Costituzione. Nel determinare l’assetto dei rapporti istituzionali, le preferenze delle regioni – o, meglio, gli appetiti delle classi politiche regionali – non rivestono rilievo alcuno: le competenze, eventualmente, si spostano «in funzione del bene comune della società e della tutela dei diritti garantiti dalla nostra Costituzione» e, qualora Stato e regioni dovessero ostinarsi a proseguire in direzione contraria, a subirne le conseguenze saranno le leggi di differenziazione che stabilissero all’eccesso i nuovi poteri regionali: così, esplicitamente, il comunicato del giudice delle leggi.

In concreto, ciò significa che ciascuna regione ordinaria – le speciali sono escluse – potrà domandare poche circoscritte competenze solo qualora dimostri: 1) di avere un’esigenza peculiare non affrontabile attraverso le ordinarie competenze (se l’esigenza è generale – come, per esempio, la carenza di personale o la lentezza di procedure autorizzative statali – la soluzione deve anch’essa essere generale) e 2) di poter far fronte a quell’esigenza solo attraverso la particolare competenza richiesta. Alle ulteriori stringenti condizioni: 3) che sia il Parlamento a decidere sull’attribuzione delle competenze alle regioni (con il potere di modificare l’intesa), 4) che, se una competenza coinvolge diritti costituzionali, siano prima definiti dal Parlamento i livelli essenziali delle prestazioni da garantire uniformemente sul territorio nazionale, 5) che l’ammontare delle risorse necessarie a esercitare le nuove competenze sia determinata in base ai costi standard (anziché alla spesa storica), 6) che l’assegnazione di tali risorse alla regione non ostacoli il conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica e 7) che il loro impiego risulti economicamente efficiente.

Due questioni si aprono ora.

La prima riguarda il Parlamento, chiamato all’arduo compito di recepire le indicazioni della Corte costituzionale: difficile immaginare come potrà riuscire a raddrizzare una legge nata tanto storta.

La seconda riguarda il referendum abrogativo totale proposto da 1,3 milioni di cittadini: che fine farà? Impossibile azzardare previsioni, tanto più sulla base di un mero comunicato stampa. Toccherà alla Corte di Cassazione valutare se l’intervento di ridefinizione della legge alla luce della Carta fondamentale effettuato dalla Corte costituzionale abbia fatto venire meno le condizioni perché possa tenersi la consultazione referendaria. Se così non fosse, spetterà quindi alla Corte costituzionale esprimersi sulla ammissibilità del referendum alla luce dell’art. 75 Costituzione, valutando le obiezioni – in verità assai forzate – che escludono l’ammissibilità per via del collegamento della legge con la manovra di bilancio, della sua necessarietà e della sua disomogeneità. Quel che si può dire con certezza è che la destra teme non poco quest’ulteriore potenziale prova cui potrebbe essere sottoposta la legge Calderoli, com’è dimostrato dall’affanno con cui molti dei suoi esponenti si sono precipitati a escluderne la praticabilità: mirabili, in particolare, le considerazioni del ministro Nordio, che, avendo letto la «sentenza» (sic!) «a spanne» (sic!) ne ha tratto la conclusione della sicura impossibilità del referendum. Gli studiosi e i commentatori più seri ragionano in queste ore di “spirito” della richiesta referendaria, di volontà degli elettori firmatari a sostegno del quesito, del ruolo e dei poteri del comitato promotore. La tesi che abrogare l’autonomia differenziata nella versione fanaticamente configurata da Calderoli sia altro dall’abrogare l’autonomia differenziata nella versione rimodulata in senso restrittivo dalla Corte costituzionale, con la conseguenza della non trasferibilità del quesito da un testo all’altro, può meritare considerazione. Sembra tuttavia assai più lineare attenersi al dato formale, accontentandosi di rilevare che la legge su cui è stata formulata una richiesta di referendum abrogativo totale è stata solo parzialmente interessata dalla pronuncia della Corte costituzionale sulla sua illegittimità, con la conseguenza che la richiesta di referendum rimane ferma sulle parti sopravvissute al vaglio d’incostituzionalità.

fonte: https://salutedirittofondamentale.it/lautonomia-differenziata-calderoli-e-maradona/

Francesco Pallante

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