Siamo troppi o troppo pochi? di di Stefano Nespor, Luca Carra

Rivoluzione verde e miglioramenti nella gestione delle risorse hanno indebolito i timori legati alla sovrappopolazione che si erano diffusi a partire dagli anni ’60. Oggi, il problema è opposto e siamo forse entrati nell’“Age of Depopulation,” un nuovo contesto solleva domande sull’impatto ambientale: un numero minore di persone potrebbe ridurre le risorse disponibili per la conservazione della natura e la gestione degli ecosistemi.


Nel 1962, John Calhoun, un giovane biologo statunitense, pubblicò su Scientific American un articolo concernente un suo esperimento. Calhoun aveva constatato che i topi immessi all’interno di un ampio granaio si riproducevano rapidamente ma, giunti a un certo punto, la popolazione si stabilizzava: i topi più anziani morivano perché era loro precluso dai più giovani l’accesso al cibo, mentre la maggior parte dei nuovi nati erano eliminati. Calhoun concluse che l’esperimento offriva utili indizi anche in riferimento all’aumento della popolazione umana (sull’esperimento si veda Alan Dugatkin, Dr Calhoun’s Mousery: The strange Tale of a celebrated scientist, a rodent Dystopia and the future of Humanity, University of Chicago Press, 2024).

Lo studio costituisce il primo segnale del diffondersi della paura per la sovrappopolazione: molti nei paesi industrializzati accusano i paesi poveri, dove l’aumento della popolazione era più consistente, di essere i principali responsabili della distruzione delle risorse naturali e dell’ambiente. Due libri alimentano questa paura. Famine 1975! America’s Decision: Who Will Survive? di William e Paul Paddock, pubblicato nel 1967, afferma che, a causa del rapido aumento della popolazione nel mondo, entro pochi anni si sarebbe verificata una carestia di enormi proporzioni con milioni di vittime. Dell’anno seguente è The Population Bomb, di un ambientalista ed entomologo statunitense, Paul Ehrlich. L’autore avverte che, a causa dell’incontenibile aumento della popolazione mondiale, «Nei prossimi 15 anni arriverà la fine. E con la parola fine intendo il crollo nell’intero pianeta della possibilità di nutrire l’umanità».

Queste affermazioni crearono un vasto allarme sociale, ma si sono rivelate prive di fondamento. Il problema, ammonisce la FAO, non è tanto la sovrappopolazione mondiale e la mancanza di risorse, quanto la cattiva gestione delle risorse esistenti. Danneggiano l’ambiente i consumi incontrollati, la riduzione della biodiversità dovuta all’estendersi degli allevamenti e il cambiamento climatico provocato dall’uso di combustibili fossili. La fame non è prodotta dalla mancanza di risorse ma dalla disuguaglianza, ricorda l’economista premio Nobel Amartya Sen. Peraltro, proprio in quegli anni si stavano manifestando gli effetti della Rivoluzione verde lanciata anni prima dall’agronomo e genetista statunitense Norman Borlaug, basata su tre strumenti: la ricerca e l’utilizzazione di sementi più resistenti o più produttive, l’applicazione di adeguate tecniche di irrigazione e l’uso di fertilizzanti appropriati. Peraltro il tasso di fertilità globale, da 4,8 nascite per donna nel 1950, comincia a diminuire fino a raggiungere quota 2,2 nel 2021.

Da anni l’idea che siamo troppi è stata accantonata. Nel 2013 lo studioso di sistemi ambientali Erle C.Ellis pubblicava sul New York Times “La sovrappopolazione non è il problema”. Oggi, al contrario, l’allarme è dato dal calo della popolazione in diversi contesti, come in molte regioni d’Europa. Ma se nel 1300 la riduzione era stata causata da cause naturali, la pandemia di peste, oggi è prodotta da scelte delle persone che non fanno più figli. Quella era una storia di fallimento e di incapacità nel contenere la diffusione dell’epidemia; il declino della popolazione attuale è una storia di successo che riflette i progressi nell’accesso a moderni metodi contraccettivi, nell’istruzione femminile e nell’estendersi dei diritti per le donne. Sempre più donne scelgono di ritardare la maternità o di avere meno figli per perseguire l’obiettivo dell’indipendenza e opportunità di istruzione e di lavoro. Questa tendenza si rileva chiaramente, per esempio nella ricerca del Global Burden of Disease Study pubblicato da Lancet nel 2020, in cui si prevede che la crescita globale della popolazione si invertirà nel 2064, e dai 9,7 miliardi scenderà  a 8,7 miliardi nel 2100. Alla luce di queste proiezioni, solo un pugno di Paesi avrà ancora un numero di figli per donna superiore a 2,1 (tasso di sostituzione). Al punto che nelle nuove stime del Global Burden of Disease Study pubblicate su Lancet nel 2024, a fine secolo i paesi che avranno un tasso di fertilità sotto il tasso di sostituzione di 2,1 saranno solo sei: Samoa, Somalia, Tonga, Niger, Chad, e Tagikistan.

Va detto che l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di popolazione (UNDP) fa culminare l’aumento della popolazione un po’ dopo, nel 2084, e a un livello più alto (10,4 miliardi di persone, vedi sintesi di Our World in Data). Ma è anche vero che buona parte dei modelli utilizzati dall’IPCC per gli scenari climatici a fine secolo impiegano un metodo più vicino allo studio che prevede una diminuzione demografica più netta, perché considerato più robusto. L’IPCC sottolinea anche che una diminuzione della popolazione resta un presupposto importante per ridurre le emissioni e quindi positiva per il constrasto dei cambiamenti climatici. Peraltro, anche considerando l’adattamento agli impatti climatici, ridurre le nascite nei paesi più popolosi e più poveri come quelli dell’Africa subsahariana esporrebbe meno persone alle condizioni ambientali insostenibili che ormai caratterizzano quelle latitudini.

Ma se guardiamo all’altra parte del mondo dove la cosiddetta Age of Depopulation è in pieno corso, non è detto che i benefici ambientali siano altrettanto assicurati. Non bisogna dimenticare infatti che la natura e l’ambiente non sono ormai entità indipendenti nelle quali l’essere umano conduce la sua esistenza. Sono oggi, come avvertiva Bill McKibben in The End of Nature, in gran parte prodotti e plasmati dall’essere umano e mantenuti grazie ai suoi sforzi e ai suoi investimenti. Sforzi e investimenti in un mondo dove ci saranno sempre meno persone in età lavorativa e sempre più anziani da accudire e assistere, e dove le diminuite risorse finanziarie degli Stati dovranno essere utilizzate prioritariamente per pensioni, sanità e assistenza, riducendo così i finanziamenti destinati alla tutela dell’ambiente.

Questo significa che il mondo futuro nell’Age of Depopulation sarà da scoprire e da costruire. E così pure il suo ambiente.

fonte: https://www.scienzainrete.it/articolo/siamo-troppi-o-troppo-pochi-dalla-sovrappopolazione-allage-depopulation/stefano-nespor-luca

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