“E mi no firmo”, così cominciò la rivoluzione gentile della “180”. di Toni Jop

Un po’ si giocava e un po’ no. Ma Franco stava steso sul suo letto, da un tempo che lui non percepiva con chiarezza, nella casa di Piscina San Samuel, a Venezia e attorno a lui andavano e venivano Franca (Ongaro, la moglie), Rayr Terzian (neurologo di fama, amico intimo di famiglia), Alberta (la figlia), Enrico (il figlio), Enrica (moglie di Enrico), io, marito di Alberta. Sapeva che le cose non sarebbero andate bene per lui, ma riusciva a scherzare, quando non dormiva. Così, pensando che presto se ne sarebbe andato da questa terra, rifletteva su quel che avrebbe lasciato, incompiuto. E cercava di capire chi, dopo di lui, avrebbe portato avanti quell’immenso lavoro, quella lotta infinita, quella vera rivoluzione culturale, politica e solo in terzo luogo sanitaria, che stava rannicchiata alle spalle di una legge, la 180 – 1978 – , quella con cui aveva, lui sopra ogni altro essere umano, demolito i manicomi, restituito dignità ai sofferenti psichici, messo l’umanità italiana in condizione di affrontare senza panico e disperazione alcune tra le sue paure più forti. Franca arrivava con la teiera calda in mano e un paio di giornali, guardava Franco e gli diceva: “Dunque, vedemo, – parlava anche in veneziano – femo un elenco di persone che faranno bene il loro lavoro di liberazione e di cui ci si può fidare, Franco, vustu che scrivemo, anca?”, sì dai stendiamo un elenco, borbottava pallidissimo il padre della legge.

Chissà che fine ha fatto quella lista – stesa anche ridendo, giuro – di paladini di una nuova tavola rotonda cui affidare la prosecuzione della liberazione. Si sghignazzava anche perché Franco dava di tanto in tanto risposte, o sentenze, sorprendenti sui nomi che gli venivano proposti. Alcuni li accoglieva senza esitazioni – Agostino Pirella, Antonio Slavich, Franco Rotelli, Beppe Dell’Acqua, Mario Tommasini, Domenico Casagrande, Sergio Piro, Maria Grazia Giannichedda, Giovanni Berlinguer ad esempio – su altri, dopo aver scosso la testa e aver illuminato i suoi occhi acqua marina, poneva veti del tutto inattesi: di quelli, nonostante le apparenze, non si fidava. E non dirò mai chi fossero gli esclusi. Franca, raramente, insisteva: “Dai, Franco, non puoi metterlo fuori: è uno bravo che si è mosso bene…”, e lui invece non si spostava “E mi no me fido…”. Il gioco finì quando fu chiaro a tutti che l’elenco pareva abbastanza numeroso e solido, tranquillizzante: c’era un piccolo esercito pronto a tenere alta la bandiera, anche quando Basaglia fosse sparito dalla circolazione. Un compito enorme: nessuno aveva capito quanto nella riforma attuata ci fosse espressamente di Franco Basaglia e quanto dovesse essere accreditato ad un parterre di intelligenze davvero notevoli che lo avevano seguito lungo la strada, facendo tremare benpensanti, classe medica, istituzioni. Di più: la legge 180 aveva decretato che l’Italia era il solo posto al mondo di una certa rilevanza in cui la sofferenza psichica non veniva, e non viene, ghettizzata d’istituto.

Pazzesco, no? Dopo l’abolizione della pena di morte, certificata nel Settecento in Toscana prima che in ogni altro angolo della terra, ecco che questo paese sul quale si sputa volentieri poteva vantare di aver demolito i manicomi e ogni contenzione psichiatrica in netto anticipo sul resto del mondo. Muovendo le pedine senza mostrare soldi, senza impugnare potere, guadagnando nessun ruolo strategico nel consesso dei potenti: la rivolta basagliana era innervata di scienza e di inattaccabili principi di umanità che assieme avevano scardinato vecchi ordini delle cose, a cominciare dalle relazioni di potere che ne consentivano la conservazione. Ordini profondi, molto profondi che stanno alle radici della percezione individuale e della società. Il medico non era più il medico in camice bianco che intimidisce e ferisce armato di aghi e bisturi, l’infermiere non era più il butta-dentro di un campo di concentramento per espulsi sociali, il paziente smetteva di essere detenuto e il suo problema cessava di essere il solo riferimento dell’attenzione sanitaria per dare spazio e centralità al corpo e alla sua complessiva esperienza sociale trattenuta dalla mente.

Un mondo nuovo, sì, che aprendosi lasciava intravvedere mille possibili connessioni con la rete di rapporti su cui si fonda la fenomenologia umana, a cominciare dalla struttura della sanità, e che metteva in discussione più complessivamente il potere, i poteri e i loro bisogni. La 180 aveva e conserva la natura di un passepartout utile e funzionale a carico, ai danni, di tutti i sistemi ai quali tira giù le gonne o i pantaloni e finalmente di loro si vede ciò che sta preferibilmente nascosto nella trama istituzionale: la violenza, la stupidità, la vanità, il conformismo, il controllo, il costo reale, anche economico, di questi lacci di contenzione, delle porte chiuse a chiave, delle pratiche mediche degne più di una medicina gotica che di un processo di recupero di un io sofferente annullato dalla segregazione e da una spaventosa oggettivazione. La “180” è stata ed è tutto questo, effetto e motore di civiltà e di scienza. La legge 180 ha demolito non solo le mura dei vecchi lager: ha abolito un incubo che afferrava tutto e tutti, anche i bimbi ai quali poteva accadere di essere minacciati, certo all’interno di un paradosso tuttavia niente educativo, di venire rinchiusi in manicomio se non avessero smesso di comportarsi in un certo modo. E quando ci si serviva di questi orrendi grimaldelli nel tentativo di ricomporre un ordine che si riteneva minato dall’indisciplina non si faceva appello all’indimostrabilità dell’”uomo nero” che sarebbe venuto a prelevare il “cattivo”, ma ad un modello di mostro perfettamente reale, concreto, replicato in mille città con crudeltà variabile, nota, temuta. Antonio Slavich, psichiatra della prima onda, ricorda, di questa storia di liberazione, il primo passo compiuto presso il manicomio di Gorizia, nel 1961. Franco si stava insediando da direttore, i suoi nuovi sottoposti gli avevano presentato l’elenco delle contenzioni da sottoscrivere e Basaglia rispose loro, in veneziano: “E mi no firmo”. “E mi no firmo”, una battuta anti-accademica che suona come incidente grave sulla strada del potere, nonché immenso rifiuto degno di un’epica nuova che stava aprendosi alla storia del nostro paese e del mondo intero. Si capisce anche perché a Basaglia molte Università chiusero la porta e la cattedra in faccia: sapeva come garantirsi l’ostracismo dei suoi colleghi che alla storia non passeranno comunque mai. A molti di questi era invece molto caro lo stile di uno psichiatra come Mario Tobino, buon letterato, autore di un testo abbastanza “chiave”:“Per le antiche scale”, dolente viaggio nella sua professione e nel luogo della sua professione. A Tobino piaceva l’umanizzazione dell’istituzione ma amava in qualche modo quella dolenza, amava perfino la culla di quel dolore, amava le mura e le scale del manicomio. Fosse dipeso da lui, i manicomi avrebbero perduto piacevolmente i tratti mostruosi che ne disegnavano l’esercizio di potere, ma sarebbero rimasti in piedi in virtù di un riformismo zuccherato che a molti sarebbe piaciuto, al sistema politico e sanitario, intanto.

Franco era convinto invece che non si potesse abbellire il mostro, che andasse distrutto, mentre veniva impostata una nuova attenzione al disagio psichico e le istituzioni dovevano piegarsi a quella attenzione che dignità della persona, libertà, l’obiettivo di una sanità finalmente capace di cogliere senso e cause profonde della sofferenza anche psichica, imponevano con molta evidenza. Erano altri tempi, verissimo, e Franco non nasceva dal nulla, ma nel campo di una critica delle istituzioni e del potere, tra Sartre, Foucault e Laing – per citarne tre, tutti suoi amici – mentre si scaldavano i motori del Sessantotto. L’enorme differenza tra un pensiero imponente per bellezza e per lucidità e la 180 sta tutta in Franco Basaglia con i suoi collaboratori: gli altri – pensatori, i filosofi – pensavano e pensano, ma lui pensava e intanto cambiava le carte in tavola, operava, agiva, modificava l’assetto della materia. Franco faceva la rivoluzione, la facevano Beppe Dell’Acqua, Rotelli, medici, infermieri e pazienti, tutti assieme. A Trieste, dopo i primi fuochi di Gorizia e Parma. Ma è proprio quel tappeto di pensieri di liberazione così fervido nell’era che si definisce “Sessantotto” a garantire il supporto “logistico” all’azione di Basaglia. Tanto che artisti, intellettuali, scrittori, politici, uomini di spettacolo lo caldeggiarono, lo difesero, da mille luoghi volarono spesso a Trieste per seguire da vicino lo svolgimento della sola vera rivoluzione, del tutto incruenta, combattuta in Europa nel Dopoguerra. Fu Franco, quarant’anni fa, a presentarmi Dario Fo, uno che a Trieste “militava” spesso e volentieri e sarebbe diventato un mio caro amico. Curioso, poi, che a volerlo a Trieste fosse stato il presidente della Provincia democristiano, Michele Zanetti, e che a picchiarlo più avanti, nel corso di uno degli abituali réseau triestini aperti ad un mondo curioso, interessato, fossero state frange autonome che lo accusavano di lavorare alla normalizzazione delle contraddizioni sepolte sotto il terreno del disagio mentale. Basaglia non era solo: quel che accadeva a Trieste mentre il manicomio veniva fatto a pezzi e i “matti” se ne andavano a spasso per la città era seguito ovunque, era un fatto globale.

Ora quel contesto non esiste più e i pensieri più brevi e tristemente marginali sembrano governare il presente. Basaglia se n’è andato tanti anni fa, i suoi collaboratori, quelli che hanno praticato sul campo la liberazione stanno soprattutto nel fortino di Trieste, dove le cose funzionano. I manicomi sono stati cancellati, è vero, ma pochi hanno fatto ciò che sarebbe stato necessario per rendere fluida, funzionale ovunque l’articolazione dell’assistenza e dei percorsi terapeutici. Lo Stato non ha dato corpo a quella che si poneva come una legge quadro, che aveva bisogno di strumenti attuativi per respirare a pieni polmoni. Ci pensano le Regioni, spesso con stile molto trasandato, i servizi di diagnosi e cura presso gli ospedali sono chiusi a chiave, la chimica si limita a rendere in apparenza obsoleta, anti-estetica la contenzione fisica, quella dei legacci. I centri di salute mentale raramente restano aperti come dovrebbero 24 ore su 24, il personale spesso non è motivato, formato, riemergono le vecchie spaccature tra classe medica e infermieri, le cliniche private fanno quello che vogliono al chiuso dei loro cancelli, drenando denaro pubblico, l’assistenza domiciliare – decisiva per sollevare le famiglie da un carico davvero enorme – è troppo spesso un miraggio, la connessione tra impianti terapeutici e vita aperta sul lavoro quasi non esiste più. Sembra un rapporto di guerra, e forse lo è davvero, una guerra. Staremo a vedere cosa produrranno lungo questa trincea i nuovi padroni della scena, trecce di pensiero di estrema destra comunque declinato dall’Italia all’Ungheria, alla Polonia. Aria di riflusso, eccome. Chi sbaglia paga, chi rompe le balle deve andarsene, il più forte giustamente massacra il più debole, ogni mezzo è buono per conquistare il successo, chi ha commesso un reato serio deve essere rinchiuso e si deve buttar via la chiave, se sei una vittima – immigrato, malato, malmenato – vuol dire che te lo sei meritato: scomparsi Sartre, Foucault, Laing e Cooper, questa è la piattaforma ideologica alla quale si ispirano vecchi marpioni e nuove generazioni. Franco sapeva che sarebbe accaduto, nonostante quell’allegro elenco di militanti della liberazione stilato sul suo letto di morte. Sapeva, e lo scrisse, che sarebbero venuti tempi grami, in cui la rivoluzione sarebbe stata inghiottita, i suoi successi insonorizzati, i suoi orizzonti cancellati, ma spiegò che “noi avremo comunque dimostrato che si può fare” e da questa certezza non si torna più indietro. A dispetto della restaurazione e di qualunque bolso congresso di Vienna.

Fonte: STRISCIAROSSA

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