E’ stato pubblicata da alcuni mesi la seconda edizione di Canapa Medica, il libro che Fabrizio Dentini, giornalista che si occupa di cannabis da molti anni anche collaborando a riviste e giornali di settore, aveva dato alle stampe nel 2013. Nella nuova edizione cambia il sottotitolo. Se allora il volume era un “viaggio nel mondo del farmaco proibito” oggi il libro racconta “frammenti di resistenza sanitaria” visto che il farmaco non è più così “proibito” ma restano enormi problemi per ottenerne la prescrizione e per procurarselo in modo legale.
Abbiamo incontrato Fabrizio durante una delle presentazioni del suo libro in giro per l’Italia (oggi viene presentato a Ravenna) e gli abbiamo chiesto di raccontarci la sua esperienza in giro per l’Italia per raccogliere testimonianze dei pazienti che hanno trovato nella cannabis una cura per le proprie patologie. Sono storie dure e che mettono in evidenza come lo stigma per la cannabis spesso si trasferisca sui suoi utilizzatori, anche se per fini terapeutici.
[FL] Nel tuo libro racconti le storie di oltre sessanta pazienti che nonostante tutto e tutti in questi anni sono riusciti a curarsi con la cannabis. Dal glaucoma alla fibromialgia, dalla sclerosi multipla all’epilessia sono storie di “resistenza sanitaria”, come le definisci tu nel sottotitolo del libro. Centinaia di persone, oggi migliaia, che dal 2007 (e molti anche prima) hanno trovato nelle preparazioni a base di cannabis una terapia per le proprie malattie e si sono scontrati con un sistema che difficilmente li ha aiutati in questo percorso di cura. Il perchè hai scritto il libro è quindi evidente, ma cosa ti hanno insegnato le persone che hai incontrato e le 350 pagine scritte?
Durante questo viaggio ho imparato molto dalle persone intervistate: ci si aspetterebbe di trovare rassegnazione in pazienti malati con patologie gravi e trattati con farmaci da effetti collaterali spesso invasivi e raramente risolutivi. Al contrario, invece, ho riportato storie di persone coraggiose perché nonostante il fardello aggiuntivo previsto loro dalla vita, sono state e sono tutt’ora capaci di lottare per la loro esistenza domandando con forza e determinazione che le loro richieste di dignità vengano ascoltate ed accolte. Non voglio mitizzare i testimoni della mia inchiesta, in fondo sono persone normalissime di diverse età e con diversi background, quello che voglio sottolineare però è che, nella maggioranza dei casi, abbiano scelto di non volersi ridurre alla passività con la quale il resto della società crede si debbano inquadrare. La passivitá che ci si aspetta da un malato, che dovrebbe percorrere docilmente il cammino terapeutico riservato alla sua patologia, senza prodigarsi oltre il territorio della propria costernazione. Senza rivendicare alternative. Le storie che ho ascoltato invece, ricordano che è diritto di ciascuno di noi anelare ad una quotidianità piú serena anche se apparentemente la possibilitá di raggiungere tale serenità attraverso la cannabis viene messa in discussione dal pregiudizio e dalla mancanza di reale empatia nel rapporto medico paziente. Il punto principale è che il tempo di un malato è essenzialmente piú denso di quello di un giornalista sano, di un medico sano o di un sano legislatore: il loro tempo è impregnato di sofferenze, dolore e frustrazioni. Per loro vedere che, nonostante esista una sostanza che spesso riduce al minimo tali vicissitudini, il resto della societá non ha interesse a farsi carico delle loro vite semplicemente ascoltando onestamente questi scomodi punti di vista, è motivo di grande e ulteriore patimento. De André diceva che il dolore degli altri è un dolore a metà e questo grande poeta della mia terra aveva davvero colto nel segno.
[FL] La cannabis è ancora nell’immaginario dei media mainstream, a seguito di troppi anni di proibizionismo, una “droga dello sballo“, e coloro che la usano, drogati. Quanto lo stigma nei confronti delle persone che la usano, anche per scopo terapeutico, pesa ogni giorno nelle loro vite?
Devo dire che negli ultimi anni, anche se lentamente, troppo lentamente per i malati, questo stigma sta cominciando a scemare e credo che con la nostra battaglia odierna perlomeno si permetterà alla prossima generazione di usufruire di questo medicamento senza troppe difficoltà, potendo contare, nel futuro prossimo, su di una classe medica finalmente ricettiva e interessata a informarsi sulle proprietá di questa pianta. Il fatto che lo Stato italiano, pur con moltissimi limiti, abbia cominciato a produrre cannabis per scopi terapeutici è sicuramente un ottimo passo avanti. Adesso sta a noi lavorare con le parole ed ai ricercatori lavorare con le evidenze scientifiche per restituire alla cittadinanza una risorsa dalle potenzialitá mediche inestimabili e tutte da sviluppare. I pazienti stanno facendo la loro faticosissima parte, i primi medici cominciano ad interessarsi, quello che davvero oggi manca nel nostro paese è una classe politica che abbia il coraggio di investire nel futuro e che non si dimostri pavida nello scommettere sulla cannabis come uno dei fattori che potrá rivoluzionare l’offerta terapeutica contemporanea. Si dice che mancano gli studi clinici, perché il Ministero della Salute non si adopera in questa direzione? Nel nostro paese, da oramai più di 10 anni a questa parte, la cannabis ha dato solo risultati positivi e cambiato in meglio la vita di migliaia di persone. Questo è un dato di fatto. Serve quindi la determinazione politica di credere in questo percorso e facilitare ricercatori e medici mettendoli nelle condizioni di lavorare con la cannabis senza le attuali restrizioni dovute nonostante tutto all’attuale contesto legislativo vecchio di 30 anni.
[FL] Dal punto di vista legislativo italiano qualcosa si è mosso a fine legislatura scorsa, e dal punto di vista culturale e sociale è evidente che c’è un processo internazionale che va verso una normalizzazione dell’uso, anche ludico, della cannabis. Quanto questo può incidere sull’Italia, e sui pazienti che si curano sulla cannabis.
Penso inevitabilmente alla conversazione con un giovane studente di medicina avuta pochi giorni orsono: questo futuro professionista era assolutamente aperto a interessarsi e a scoprire i vantaggi terapeutici offerti dalla cannabis, ma non le riconosceva ancora abbastanza evidenze per considerarla un medicinale a tutti gli effetti. Probabilmente le sue remore erano sensate, però d’altra parte come è possibile che in un paese come il Canada i pazienti in cura con questa pianta, con le sue infiorescenza o con i suoi estratti, siano stati a fine dicembre 2017 quasi 270 mila? Perché sempre nello stesso periodo il Ministero della Salute canadese ha registrato quasi 13 mila persone con il diritto di coltivare la propria medicina? I medici che hanno prescritto questo rimedio forse non si basavano su concrete evidenze scientifiche? Purtroppo da questo lato dell’oceano ci sono ancora difficoltá nell’accettare quello che dall’altro lato del mondo è ormai recepito come pacifico. In fondo, non lo possiamo negare, è proprio sulle coste dall’altra parte dell’Atlantico che si sta facendo la storia e noi, come sempre, seguiremo un cammino solcato da altri pionieri. Tornando alla tua domanda, quello che succede dall’altro lato del mare ci dice che se vogliamo facilitare l’accesso a questa cura bisogna aprire il mercato ai produttori privati ( 104 attualmente in Canada) e depenalizzare immediatamente la produzione personale.
[FL] La ricerca sulle proprietà terapeutiche della cannabis sta finalmente uscendo dall’ostracismo del proibizionismo, e grazie ai processi di legalizzazione dell’uso terapeutico in corso in tutto il mondo, la pianta della cannabis (insieme anche ad altre sostanza psicoattive), come hai detto prima anche tu, ritorna all’attenzione del mondo scientifico. Quali sono gli studi più promettenti in corso?
Voglio dirti che conosco ricercatori che da 20 anni studiano l’effetto del THC sui tumori che confermano che tale cannabinoide abbia, in vitrio e su modelli animali, un indiscusso potente effetto anticancerogeno. Considerata tale dichiarazione scientifica mi domando come mai non si faccia di tutto per finanziare studi che sondino tali evidenze a livello umano. La cannabis in medicina apre prospettive di ricerca con potenzialità immense, ma è anche giusto dire che ci troviamo, nonostante tutto, ancora gli albori di una scienza con la S maiuscola. Le evidenze raccontante dai pazienti sono comunque talmente interessanti che, a differenza di tutte le altre medicine, per questa pianta sono stati i malati stessi ad imporsi, aprendo una breccia nella quale adesso è il compito di ricercatori e medici, fedeli al loro giuramento, entrare. La cannabis in primis riproduce una relazione medico-paziente differente da quella che va per la maggiore, dove il medico è comunque il latore di una scienza estranea al proprio assistito. Nel caso di questo medicamento la relazione narrativa e di ascolto fra medico e paziente si ripropone nella sua importanza proprio perché il medico segue gli sviluppi terapeutici attraverso la relazione del suo paziente. Questo approccio è in totale controtendenza rispetto alla maniera contemporanea di amministrare l’offerta medica. Per la prima volta i medici non prescrivono una molecola X con un effetto Y, per questo non si parla di medicina ma di medicamento, l’effetto curativo della pianta infatti non è riconducibile ad un unica sua molecola, ma al suo insieme, il suo fitocomplesso, che opera sinergicamente sul paziente in questione. L’effetto entourage è come un accordo musicale, non si apprezza un risultato terapeutico se non nel suo complesso come nell’accordo musicale l’esperienza estetica è data dalla totalità dei suoni espressi e dalla loro lunghezza e tonalità.
Canapa medica
Frammenti di resistenza sanitaria
Iacobelli
2017
Pagine 280
15 €
ISBN 978-88-6252-358-5
FONTE: FUORILUOGO