New England Journal of Medicine (NEJM), la più antica e autorevole rivista medica, ha avuto il coraggio di mettere in discussione la sua storia editoriale, riconoscendo di avere per lungo tempo alimentato o tollerato pregiudizi razziali nella ricerca e nella pratica medica. Ora gli studiosi mettono in discussione le tassonomie utilizzate per studiare le differenze umane e sottolineano il ruolo dei fattori sociali ed economici nel generare le disuguaglianze di salute.
New England Journal of Medicine (NEJM) ha dedicato una serie di articoli dedicati alle radici storiche delle diseguaglianze nella salute e dei pregiudizi razziali nella ricerca e nella pratica medica (1), con l’intento di far emergere come le sue pubblicazioni ne siano state permeate sin dall’anno della sua fondazione, il 1812 (2). Gli autori sostengono che la rivista ha storicamente aiutato a perpetrare le narrazioni di gerarchie razziali, non affrontando adeguatamente i pregiudizi contro i gruppi emarginati e anzi promuovendo tali narrazioni. Infatti da secoli circolavano tesi sulle differenze in termini di anatomia, fisiologia e suscettibilità alle malattie tra le diverse popolazioni umane. La persistente convinzione dei medici che queste differenze fossero innate ha per lungo tempo distolto l’attenzione da altre possibili cause di disuguaglianze in salute. Il lavoro è uno sforzo di fare i conti con questa storia – e interpella la classe medica stessa ad intraprendere questa strada – e di agire per affrontarne i retaggi nella ricerca e nella pratica medica. Ritiene che la comprensione e l’attenuazione dei pregiudizi basati sulla razza, così come di altre forme di discriminazione, dovrebbero essere al centro dei processi decisionali in campo medico.
Nel corso dei secoli, sono state descritte disuguaglianze di salute, per quanto riguarda i rischi di contagio e gli esiti delle principali malattie umane, dal vaiolo nel XVII secolo al cancro e alle malattie cardiache di oggi (3). Questo primo lavoro si concentra sugli articoli del NEJM riguardanti i neri e gli indigeni americani nel corso della storia. Successivi lavori si sono concentrati sui pregiudizi nei confronti di altri gruppi, tra cui quelli legati al genere. Editori e autori condividono tali responsabilità. Infatti, per la maggior parte della storia della rivista, il giornale ha deciso in autonomia cosa pubblicare. Le revisioni esterne sono diventate la prassi solo dagli anni 70, negli anni ’30 vi si faceva ricorso solo occasionalmente. Con l’acquisizione di un pubblico nazionale e poi internazionale dopo la Seconda Guerra Mondiale, le decisioni editoriali del Journal hanno avuto un impatto sempre più ampio (4,5).
Nella prima metà del 1800, molti medici, influenzati da Benjamin Rush, ritenevano che malattie come la follia e la tubercolosi fossero rare tra gli africani e gli indigeni americani. Attribuivano ciò a fattori quali lo stile di vita e la dieta, e alcuni lodavano i comportamenti considerati “primitivi” di questi gruppi. I medici, infatti, invocavano la razza nel discutere le origini della follia, spesso offrendo spiegazioni poco lusinghiere basate su stereotipi razziali. Ad esempio, alcuni sostenevano che le menti presumibilmente “poveri e ignoranti…arrugginite dal non utilizzo” delle popolazioni indigene e degli schiavi di origine africana rendessero tali gruppi meno suscettibili ai problemi di salute mentale (6). Tuttavia, le disuguaglianze in salute agivano in entrambe le direzioni: ecco che se si riteneva esistesse un qualche fattore protettivo nei confronti di tubercolosi o follia, qualcos’altro esponeva alcuni gruppi ad essere più vulnerabili agli effetti negativi dell’alcol. Le generalizzazioni razziste erano comuni e prendevano di mira non solo gli africani e gli indigeni americani, ma anche altri gruppi emarginati come gli ebrei, i cattolici, gli immigrati irlandesi, i tedeschi e i messicani americani. Tali ideologie razziali si sono evolute nel tempo, dando forma al concetto di élite bianca negli Stati Uniti.
Nell’affrontare i periodi successivi, a seguito della Guerra Civile Americana, riporto solo alcune testimonianze di scrittori e scienziati dell’epoca a titolo di esempio dei pensieri dominanti. Thomas Mays, scrivendo nel 1897, fu colpito dall’aumento sia delle patologie psichiche che della tubercolosi e scrisse che quando i neri sono “precipitati in mezzo a una civiltà superiore“, si sono dimostrati “inadeguati al compito” e sono caduti “preda della malattia“: “Il peso maggiore della battaglia in questa competizione ricade e vizia il cervello e il sistema nervoso, poiché queste strutture sono gli strumenti attraverso i quali l’uomo compie i suoi principali sforzi per armonizzarsi con le sue mutate relazioni (7). A questo punto, il discorso medico si polarizzò: alcuni enfatizzarono il ruolo dell’ambiente e delle abitudini, mentre altri attribuirono la suscettibilità razziale a differenze intrinseche nell’immunità o nella resistenza a malattie come la tubercolosi. Parlando nel 1907, un medico sostenne che, sebbene gli indigeni americani “non siano intrinsecamente più soggetti all’infezione da tubercolosi di quanto non lo sia un bianco in circostanze simili, le loro abitudini estremamente sporche e la loro predilezione per i liquori e le abitazioni non ventilate rendono la mortalità per la tisi molto elevata” (8,9). L’ereditarietà giocava “un ruolo secondario“: “La causa principale sono le abitudini di vita dell’uomo“. Altri cronisti non erano d’accordo. Un medico di Baltimora affermò che “il grande aumento della suscettibilità dei neri non può essere ascritta solo alle condizioni di ignoranza e alla mancanza di norme igieniche, e può essere spiegato solo ipotizzando che nell’evoluzione della razza non abbia acquisito le stesse capacità di resistenza o immunità al bacillo della tubercolosi, acquisite da alcuni dei popoli bianchi” (10). Un altro medico sostenne tesi simili nei confronti degli indigeni americani.nNonostante queste teorie contrastanti, le affermazioni sulla “suscettibilità razziale” persistevano, influenzando le prospettive mediche fino all’inizio del ventesimo secolo. I medici dell’esercito che studiarono i dati sulla tubercolosi dopo la Seconda Guerra Mondiale notarono che i “neri” e gli indigeni americani erano sovrarappresentati: “sembra giusto concludere che sono più suscettibili della media dei soldati” (11).
Si arriva poi al ventesimo secolo, in cui nonostante l’emergere di narrazioni differenti rispetto a quella dominante, le idee razziste erano lungi dall’essere state debellate. “Un uomo bianco istruito sotto l’influenza dell’alcol è uno spettacolo triste e disgustoso. Un negro nelle stesse condizioni è una tigre liberata, un vulcano da cui tutti devono fuggire. Solo il proibizionismo poteva garantire la sicurezza delle mogli e delle figlie di ogni uomo” (12). Anche il cancro e le malattie cardiache sono stati letti attraverso una lente razzista, con stereotipi che hanno modellato le evidenze mediche: entrambe considerate “malattie della civiltà”, si riteneva fossero rare tra le persone non bianche. Tuttavia, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo si fecero avanti voci che contestavano il razzismo medico, tra essi spiccano il sociologo W.E.B. Du Bois e i medici neri. Du Bois aveva richiamato l’attenzione sulle origini sociali delle scarse condizioni di salute dei neri già nel 1899. Verso la fine del XX secolo, prove solide hanno messo in discussione le affermazioni sulle differenze razziali e sul determinismo. Quando il Dipartimento della Salute e dei Servizi Umani lanciò la campagna “Healthy People 2000”, proclamò che: “Ridurre il divario tra le aspettative di vita delle diverse popolazioni, compresi i neri, gli ispanici, gli indiani d’America, gli asiatici e le persone a basso reddito, è un obiettivo primario dei nostri sforzi” (13). Non sono stati sufficienti l’aumento di appelli di questo tipo e i progressi attuati (14) a eliminare le disuguaglianze in salute (15).
Nel corso della storia, di fronte all’evidenza delle disuguaglianze in salute, la comunità scientifica ha generalmente attribuito tali esiti a differenze intrinseche tra i gruppi (ad esempio, genetica, ereditarietà), a comportamenti individuali che influiscono sulla salute (quali la dieta o l’abitudine al fumo) o a condizioni ambientali (ad esempio, la povertà). Nonostante la mole di dati disponibili, c’è stato poco consenso su quali fattori privilegiare. Alcuni perseverano nell’enfatizzare le cause intrinseche, che esonerano i ricercatori dalla responsabilità di affrontare le condizioni sociali ed economiche (ad esempio, fornire assistenza sanitaria o agire sulle condizioni sociali ed economiche), altri invece sottolineano il ruolo dei determinanti sociali (16). Questa tensione è evidente nelle discussioni su condizioni quali il diabete, la tubercolosi e la mortalità infantile. Gli interrogativi sul ruolo dell’ereditarietà rispetto ai determinanti sociali quali fattori causali delle malattie sono persistite nel Journal per due secoli, con pochi commenti editoriali coerenti.
Arriviamo poi al 21secolo con un dibattito recente – pubblicato sulla rivista nel 2003 – sul ruolo della razza in medicina quale indicatore per spiegare la variazione genetica e sostenere la ricerca biomedica (17). Uno dei redattori del giornale ha preso posizione, pur riconoscendo che la razza era “irta di sensibilità e alimentata da abusi passati e dal potenziale di abusi futuri”, alla fine vedeva un valore nel suo uso: “non sembra saggio abbandonare la pratica di registrare la razza quando abbiamo appena iniziato a comprendere l’architettura del genoma umano” (18). Quindi pur ammettendo il potenziale di abuso associati alla razza, ne ha fatto prevalere il valore legato al suo uso. Questo dibattito continua con il progredire della ricerca genomica.
Ora gli studiosi mettono ora in discussione le tassonomie utilizzate per studiare le differenze umane e sottolineano il ruolo dei fattori sociali ed economici nel generare le disuguaglianze di salute.
La pandemia di Covid-19 ha ulteriormente intensificato questi dibattiti, rivelando disuguaglianze e alimentando le richieste di una presa di coscienza (19). È ormai noto come i fattori sociali ed economici generano disuguaglianze in salute e come le élite economiche e politiche utilizzino le teorie basate sulla razza per difendere privilegi e potere, nonostante sempre più crescenti evidenze sottolineano il ruolo del razzismo come potente motore delle disuguaglianze, un tempo attribuite a differenze razziali intrinseche (20). Posto che la medicina americana ha a lungo accettato narrazioni razziali che alimentano la convinzione in merito alla superiorità bianca, sono imperative e necessarie un’azione e riflessione decise per resistervi.
L’articolo si conclude invitando a decidere con attenzione quali politiche e pratiche possono essere giustificate – scientificamente ed eticamente – quando ci si confronta con la natura e il significato delle differenze umane. Il NEJM può e deve agire per l’equità in salute non solo pubblicando le migliori e più rigorose ricerche su questo importante argomento, ma anche interrogando i presupposti razziali e le conseguenze sociopolitiche di tutto ciò che pubblica.
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fonte: https://www.saluteinternazionale.info/2024/09/la-storia-del-razzismo-in-medicina/
Autrice dell’articolo: Chiara Milani, medica specialista in Igiene e Medicina Preventiva, Dipartimento di scienze della salute, Università degli studi di Firenze