Un nuovo modo di guardare al liberalismo. di Elena Granaglia

In Che cosa significa essere liberali (Raffaello Cortina, 2023) M. Walzer, filosofo importante della sinistra statunitense, torna a ricordarci le tante virtù del liberalismo, aggiungendo, però, una qualificazione importante e innovativa. Anziché come teoria compiuta, il liberalismo va inteso in una declinazione aggettivata, in quanto qualificazione delle diverse posizioni politiche sostantive. Scrive Walzer (p.21), “nel suo significato originario il liberalismo era un’ideologia occidentale, il prodotto dell’Illuminismo e il trionfo… dell’individuo emancipato”… Ma gli aggettivi ‘liberale’ e ‘illiberale’ possono utilmente descrivere i membri di altre culture che utilizzano sostantivi diversi per dare un nome ai propri impegni… L’aggettivo non può stare in piedi da solo. Ha bisogno dei suoi sostantivi. Ma i sostantivi, gli impegni sostantivati, non saranno mai ciò che dovrebbero essere senza l’aggettivo ‘liberale’.

Abbiamo così un socialismo liberale, un nazionalismo/comunitarismo liberale, un femminismo liberale, una democrazia liberale… Diversamente, “senza l’aggettivo, i democratici, i socialisti, i nazionalisti e tutti gli altri possono essere e, spesso, sono monisti, dogmatici, intolleranti e repressivi”. In breve, l’aggettivazione obbliga chi segue le diverse posizioni esaminate (o anche altre) a “essere o aspirare a essere di mentalità aperta, generosa e tollerante…. in grado di convivere con le ambiguità… “

Focalizzando l’attenzione su cosa l’aggettivo aggiunga al socialismo, vorrei ricordare due esempi riportati nel libro. Il primo concerne l’esperienza, ai tempi della guerra nel Vietnam, della redazione di Dissent, una rivista di “politica e idee” della sinistra democratica nordamericana fondata nel 1954 da Irving Howe e Lewis Coser. Cosa aspettarsi, prima facie, da una rivista di sinistra? Una netta posizione a favore del Vietnam del Nord e contro l’invasione americana. E, invece, in Dissent ci fu un’intensa discussione, poiché la guerra poneva domande difficili. Da un lato, c’erano tra i fondatori della rivista, ex trotzkisti a disagio con il settarismo comunista e altri dissidenti di sinistra critici nei confronti sia dell’Unione Sovietica, allora alleata del Vietnam, sia di chi ne trascurava i crimini o li giustificava come necessità storica. Conoscendo anche diverse persone di sinistra uccise dai vietcong, avevano difficoltà a schierarsi per il Vietnam del Nord. Dall’altro, c’era la seconda, più giovane, generazione di redattori che non conosceva i morti, era più lontana dall’esperienza sovietica ed era più toccata da cosa vedeva quotidianamente, ossia, la crudeltà americana. Alla fine, quest’ultima posizione, sostenuta dallo stesso Walzer, ha avuto più seguaci nella rivista. Ma, aggiunge Walzer, l’elemento che segna l’importanza di un atteggiamento liberale, è stata la capacità della redazione di mantenere uno spazio di disaccordo su ciò che Silone chiamò “le scelte dei compagni”.

Il secondo esempio concerne l’approccio all’uguaglianza, il valore centrale del socialismo. Al riguardo, l’aggettivazione liberale ci porta non solo a riconoscere la complessità del valore. L’uguaglianza ha, sì, una dimensione economica, ma tale dimensione non è tutto. Cruciale è la dimensione relazionale. Come scrive Walzer (p.71),” questa è l’eterna speranza nominata dalla parola uguaglianza: mai più inchini e prostrazioni, mai più adulazioni e servilismi, mai più altezza ed eccellenza, mai più servi né padroni”. Inoltre, una volta convenuto sull’illegittimità di livelli di disuguaglianza che pregiudichino i diritti, quale sia il livello di uguaglianza economica da ricercare è controverso. Spazio deve essere assicurato al dissenso anche in questo ambito.

L’aggettivazione liberale ci porta anche a seguire quanto disse Rosselli ossia che “il fine vive nelle nostre azioni nel presente”. E aggiunge Walzer (p.61), “è meglio che viva lì perché non c’è altro posto. L’aggettivo liberale è ostile ai finali veri e propri”. Ciò significa, fra l’altro, che l’impegno per l’uguaglianza è un lavoro senza fine. Sempre si verificheranno nuove disuguaglianze da contrastare. Emblematica al riguardo è la storiella ricordata da Walzer relativa a un uomo che gli abitanti di uno shetl dell’Europa dell’Est avevano posto ai bordi del paese affinché avvertisse gli abitanti dell’arrivo del Messia. Quando qualcuno chiede all’uomo se si tratti di un buon lavoro, l’uomo risponde dicendo che non è male: almeno è un lavoro fisso. Ebbene, anche essere socialisti è un lavoro fisso.

Mi sono concentrata sul socialismo, ma in ogni capitolo del libro troviamo spunti che ci fanno riflettere. Fra questi, mi limito a ricordare il caso dell’invito a Farrakham, persona nota per le sue posizioni antisemite, da parte di un’associazione di studenti neri. Un gruppo di studenti ebrei andò a lamentarsi da Walzer. Walzer, ebreo, rispose che l’invito era un atto politico e l’unico modo per reagire era un atto politico, “combinando insieme rabbia, argomentazione e conciliazione. Dovevano puntare a essere rispettati non consolati. Le sensibilità, se incoraggiate diventano poi ancora più sensibili… Dobbiamo unirci al dibattito, non tentare di reprimerlo” (p.138-139).

Vorrei concludere affrontando quella che mi sembra l’obiezione più forte che si potrebbe muovere alla proposta di Walzer e che Walzer stesso in parte affronta. Tutta l’attenzione alla tolleranza, al pluralismo, all’impossibilità di arrivare all’ultima parola che l’aggettivazione liberale impone non ci conduce dritto dritto al relativismo e alla sostanziale accettazione dello status quo?

Walzer è netto nell’affermare che la sua proposta non implica in alcun modo “vivi e lascia vivere”. I liberali non sono relativisti. Entrando più nel dettaglio, offrirei almeno quattro ragioni.

Primo, l’aggettivazione liberale non è applicabile a tutte le posizioni. Ad esempio, non è applicabile al razzismo. L’aggettivazione aggiunge, però, alcuni caveat per gli antirazzisti. Diversamente dalle posizioni wokepiù estreme, richiede di evitare test di verifica nel profondo, a prescindere dalle adesioni formali, se le persone siano veramente antirazziste. Aveva invece ragione, secondo Walzer, la regina Elisabetta 1°, quando diceva “non aprirei le finestre sull’anima degli uomini per tormentarli” (p.167). Ricordando la definizione biblica di Noè quale “un virtuoso nella sua generazione” (corsivo mio), l’aggettivazione richiede altresì di tenere conto del contesto. Dunque, di non applicare a personaggi come Jefferson e Voltaire che pure erano rispettivamente schiavista e razzista, gli stessi metri di valutazione che applichiamo oggi.

Secondo, quando l’aggettivazione è applicabile, la scelta della teoria sostantiva rimane dirimente. Ad esempio, scrive Walzer, un socialista liberale, proprio perché è socialista, sarà sempre “più reattivo (dei democratici liberali) nel riconoscere i modi in cui forme specifiche di disuguaglianza sono radicate in pratiche e istituzioni di lunga data.… “ (p.64). Per questa ragione, pur riconoscendo l’importanza delle azioni positive, sarà assai più consapevole che “da sole le azioni positive non modificano il carattere gerarchico della società capitalistica; muovono solo alcune persone verso posizioni più elevate. Creano una gerarchia più difendibile, ma non ancora una società giusta. Altre politiche di regolazione dell’economia sono necessarie”.

Terzo, l’aggettivazione, qualora applicabile, non implica accettare qualsiasi declinazione delle diverse teorie sostantive. Si consideri il multiculturalismo. Essere liberali significa, certamente, accettare il multiculturalismo, ma al contempo non significa accettare tutte le pratiche radicate nelle diverse culture, come se qualsiasi intervento di contrasto segnalasse colonialismo occidentale. Al contrario, sostiene Walzer, l’aggettivazione ci chiede di procedere in modo “morbido” e per gradi, vietando alcune pratiche, quali matrimoni precoci, delitti d’onore, forme estreme di mutilazione genitale, dipendenza giuridica delle donne e aggiunge l’uso del niqab in quanto mostrare il viso è essenziale per facilitare le relazioni democratiche. I liberali iniettano, però, sempre un elemento di preoccupazione nei confronti di un potere statale che restringa il pluralismo sociale.

Quarto, qualsiasi sia la scelta delle posizioni sostantive, l’aggettivazione impone sempre una politica specifica: un’educazione civica finalizzata a promuovere l’ethos liberale e, con esso, la capacità di coesistenza fra persone diverse che si rapportano come uguali in quanto tutte titolari di diritti.

Mi sembra una lezione assai utile per tutti e tutte noi.

fonte: https://eticaeconomia.it/un-nuovo-modo-di-guardare-al-liberalismo/

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