In ricordo di Don Luigi Mazzucato (Cuamm). di Adriano Cattaneo

Don Luigi Mazzucato (1927-2015) ha diretto per più di 50 anni la ONG Medici  Con l’Africa  – Cuamm. A distanza di circa 10 anni dalla sua scomparsa la sua splendida figura rivive nel ricordo delle tante persone che lo hanno incontrato e conosciuto.


Nell’estate del 1969, dopo un burrascoso ’68 e alla vigilia dell’autunno caldo, mi accingevo a iniziare il quarto anno di medicina a Padova. Per non fare il pendolare da Vicenza, dove sono nato e cresciuto, ma soprattutto perché avevo già preso in considerazione la possibilità di lavorare in qualche paese del cosiddetto terzo mondo, mi rivolsi al Cuamm (allora Collegio Universitario Aspiranti Medici Missionari, ora Medici con l’Africa). Conoscevo già il collegio; nei primi anni di medicina avevo assistito ad alcuni incontri con medici in partenza o appena rientrati. Chiesi un appuntamento e incontrai per la prima volta faccia a faccia il direttore, Don Luigi Mazzuccato, per chiedergli di essere ammesso.

Prima impressione: persona gentile, aperta, accogliente, che ti fa sentire a tuo agio, alla quale puoi aprire il cuore sapendo di non essere giudicato. Non mi chiese se ero cattolico (non lo ero), da che parte stavo (era implicito), se ero fidanzato o sposato (non lo ero). Mi chiese se ero interessato a partire dopo la laurea (lo ero) e se avevo già qualche idea di dove andare (l’avevo; con un gruppo di appoggio di Vicenza stavamo sostenendo un progetto in una comunità rurale del Kenya). Mi informò delle procedure per partire. Bisognava trovare un accordo con il vescovo locale: l’ospedale era della diocesi. Mi ragguagliò sulla legge Pedini (1966), che permetteva a chi obiettava contro il servizio militare di sostituirlo con due anni di servizio civile nei cosiddetti paesi in via di sviluppo. Mi diede essenziali informazioni sul collegio e mi stimolò a partecipare alla vita interna ed esterna dello stesso. Mi raccomandò di impegnarmi nello studio per diventare un medico cosciente e preparato. Il tutto guardandomi sempre negli occhi, ma con affetto, senza secondi fini inquisitivi. Evidentemente si fidava di me, e io non potevo non fidarmi di lui.

Entrai in collegio pochi mesi dopo. Erano anni caldi e tra gli studenti c’erano vivaci discussioni su come stavano cambiando università e società. Erano anche gli anni di Don Lorenzo Milani (morto due anni prima), dell’obbedienza che non è più una virtù, della lettera a una professoressa, della scuola di Barbiana. Che senso aveva voler andare in Africa per partecipare alla liberazione di quei popoli dall’eredità coloniale, se non si agiva nello stesso senso anche a Padova? Nelle ore libere dallo studio andavo, con altri due studenti, a insegnare in una scuola popolare di un quartiere periferico. Rispetto alla media degli altri ospiti del collegio, eravamo dei facinorosi, ma Don Luigi appoggiava queste e simili iniziative. Continuavano anche gli incontri con medici partiti o rientrati. Risale a quell’epoca il mio primo incontro con Gregorio Monasta, che lavorava in un ospedale del Kenya vicino a quello dove sarei andato io. Gregorio mi colpì perché ampliava lo sguardo dal sanitario al politico, cercando di farci capire come non bastasse essere dei bravi medici, come fosse anche necessario collaborare allo sviluppo e alla realizzazione di buone politiche sanitarie e generali, senza le quali si rischiava di remare controcorrente e con grande fatica, per raggiungere scarsi risultati. Lo avrei rivisto in Mozambico alla fine degli anni ’70, e di questo incontro, come di molti altri, devo ringraziare Don Luigi.

La permanenza in collegio durò solo un anno, ma mantenni il contatto con Don Luigi. Dopo la laurea e l’esame di stato, pensai di passare un periodo a Londra, per migliorare l’inglese e frequentare il St Pancras Hospital for Tropical Diseases. Sapendo che sarei andato a lavorare in un ospedale dei missionari della Consolata, Don Luigi mi mise in contatto con la congregazione, che si offrì di ospitarci (mi ero nel frattempo sposato) nella loro casa di Camden Town, a 30 minuti a piedi dal St Pancras. Da settembre 1973 a gennaio 1974, oltre a praticare diagnosi e cura per malaria, lebbra, leismaniosi etc, ho conosciuto colleghi, docenti e ricercatori che avrei ritrovato qualche anno dopo alla London School of Hygiene and Tropical Medicine. Ho anche messo assieme una biblioteca (il Lewis Medical Bookshop non era lontano) che mi sarei portata dietro per anni nei miei vagabondaggi per Africa e America Latina.

Febbraio 1974: partenza per il Consolata Hospital di Nkubu, distretto di Meru, Kenya, dopo aver ricevuto le ultime raccomandazioni di Don Luigi: è ben organizzato, ci ha lavorato per anni Anacleto Dal Lago (altra figura storica del Cuamm), ci sono bravi medici e ottime infermiere, chi comanda è la sister matron, ti troverai bene e saprai fare il tuo dovere. Dopo pochi mesi, però, mi sentivo al posto sbagliato. L’ospedale era fin troppo organizzato, diretto col pugno di ferro dalla sister matron e dal suo piccolo esercito di suore, pulitissimo, con giardini fioriti e casette da fiaba per i medici. Un po’ troppo coloniale per i miei gusti. Era poi privato, gli utenti dovevano pagare, mentre a 10 km, a Meru, c’era l’ospedale distrettuale pubblico e gratuito, sporco e male organizzato, frequentato da tutti coloro, la maggioranza, che non potevano pagare. Inoltre, l’ospedale di Nkubu faceva solo attività curative, con priorità alla chirurgia, senza occuparsi di prevenzione e di medicina di comunità. Gregorio Monasta, che all’epoca aveva già lasciato il Consolata Hospital di Kyeni, a una sessantina di km a sud di Nkubu, mi aveva accennato a questi problemi e alle lotte con il suo vescovo per rendere gratuito almeno il ricovero in pediatria. Lotte che non avevano portato a cambiamenti. Non volevo che mi succedesse lo stesso. Ne scrissi a Don Luigi; conosceva il problema e per non farmi andar via mi propose di trasferirmi a Igoji, dove c’era un cosiddetto cottage hospital, sempre di proprietà della diocesi, ma al momento sguarnito di operatori professionali. A sistemare le cose con il vescovo ci avrebbe pensato lui.

Pochi giorni dopo ci trasferimmo a Igoji. Una sala parto, una quindicina di letti di ostetricia, altrettanti usati al 95% per ricoveri brevi di bambini, una piccola farmacia, 2-3 stanzette per ambulatori e vaccinazioni, un magazzino, 7-8 ausiliarie in uniforme bianca, 3-4 inservienti in azzurro, un tuttofare per acqua, luce, manutenzione, giardino e orto, un guardiano notturno, un autista per una Land Rover corta nel retro della quale si potevano sistemare pazienti da trasferire a Nkubu o Meru (a Igoji non c’era sala operatoria). Anche al cottage hospital si pagava, ma eravamo liberi di stabilire le tariffe. Prime misure: visite ambulatoriali a 2 scellini per i bambini e a 10 per gli adulti, ridotti a 1 e 5 per le visite di controllo; flat rate anche per visite in gravidanza, assistenza al parto e controlli in puerperio; prezzi tutto incluso, farmaci e mini-laboratorio (fatto da me) compresi, in modo che gli utenti sapessero prima di entrare quanto dovevano pagare, senza sorprese a posteriori. Poi, una serie di attività gratuite: antenatal care, vaccinazioni, controlli periodici dei bambini sani. Con un po’ di formazione, le ausiliarie appresero rapidamente a fare educazione sanitaria. Ci inventammo anche degli schemi di diagnosi e trattamento per le malattie più frequenti, precursori molto imperfetti di quegli algoritmi che 20 anni dopo sarebbero stati alla base dell’Integrated Management of Childhood Illness dell’OMS; con un po’ di formazione e supervisione le ausiliarie iniziarono a diagnosticare e trattare. Infine, costituimmo una specie di comitato di rappresentanti della popolazione di Igoji per discutere e decidere assieme cosa fare, come e dove. Queste riunioni periodiche ci permisero di migliorare l’organizzazione delle attività, fino a istituire delle cliniche mobili: con la Land Rover, una o due volte a settimana, ci recavamo in villaggi sperduti a vaccinare, fare educazione sanitaria e visitare pazienti vicino a casa loro, sotto un albero di mango, senza che dovessero camminare per ore fino a Igoji.

Si trattava di prove di Primary Health Care (PHC), 4-5 anni prima della Dichiarazione di Alma Ata. Tenevo informato Don Luigi per lettera, mi sembrava d’accordo con l’approccio. Non so se abbia conservato quelle lettere e si trovino in qualche archivio (quelle che ricevevo sono state perse in uno dei miei tanti traslochi), ma ricordo che alcuni brani o estratti sono stati pubblicati sui bollettini del Cuamm, evidentemente su iniziativa di Don Luigi. Eravamo soddisfatti del lavoro, con voglia di continuare. Don Luigi era d’accordo, per cui procedemmo con le richieste formali al vescovo, proprietario del cottage hospital, e al governo, per il rinnovo del visto. Con nostra sorpresa, la richiesta fu rifiutata. Non so dire se fu il governo a rifiutare, a causa dei comitati popolari in concorrenza con le autorità locali, o se fu il vescovo. Il parroco di Igoji gestiva un dispensario nel villaggio e la nostra presenza forse nuoceva ai suoi affari. Non so nemmeno se Don Luigi ne sapesse qualcosa (probabilmente sì) né se sia intervenuto. Se sì, non poteva certo stare dalla mia parte e contro il vescovo, per ovvie ragioni. Ce ne tornammo in Italia e con Don Luigi non parlai più della vicenda. Devo confessare di non essermi sentito proprio bene, e forse per questo i miei rapporti con il Cuamm, per qualche anno, si raffreddarono.

Nel 1978 andai a lavorare in Mozambico, prima a contratto con il locale Ministero della Salute, poi alle dipendenze del nostro Ministro degli Affari Esteri. Con il Cuamm non avevo relazioni formali, ma ero amico di e collaboravo con i suoi medici, all’epoca concentrati nelle stesse province del nord dove lavoravo io. Ricordo anche di aver partecipato a qualche riunione di coordinamento, alla presenza di Dal Lago e forse anche di Don Luigi. Il quale deve aver saputo, non da me, che avevo scritto su richiesta del Ministro della Salute, una guida per pianificare e valutare le attività dei centri di salute (a proposito di PHC). Fatto sta che quando rientrai a Vicenza nel 1985 (la guerra civile mi aveva costretto prima a trasferirmi a Maputo, poi a non rinnovare il contratto) Don Luigi e Dal Lago mi convocarono e mi chiesero di scrivere una guida per pianificare e valutare i progetti del Cuamm. Ci pensai per molti mesi, mentre decidevo cosa fare nella vita e avevo nel frattempo iniziato a lavorare come medico di distretto. Poi dissi di sì. Con un finanziamento della mia nuova famiglia colombiana (avevo divorziato e mi ero risposato) acquistai uno dei primi pesantissimi e costosissimi Toshiba portatili, con floppy disk da 3.5”. Cominciai a scrivere. Ero ben oltre la metà dell’opera quando, sbadatamente, lasciai cadere il portatile che si ruppe in maniera irrecuperabile (i capitoli già pronti della guida erano per fortuna in salvo su floppy). Chiamai Don Luigi e lo informai del disastro e dei conseguenti possibili ritardi. Qualche giorno dopo mi chiamò per consegnarmi un nuovo Toshiba, seguito dal solito sorriso e sguardo d’intesa. Fu possibile finire rapidamente la guida che poi il Cuamm si incaricò di stampare e usare. Il Toshiba lo portai con me in Nicaragua e alla fine del contratto, nel 1990, lo lasciai in regalo a un collega epidemiologo locale. Un piccolo pezzo di Don Luigi anche in America Latina.

Dal 1990 al 1994 ho lavorato all’OMS di Ginevra. Al rientro in Italia mi sono istallato a Trieste e ho ripreso a collaborare con il Cuamm, in particolare con la formazione dei medici in partenza. Durante i corsi mi fermavo a pranzo e mi sedevo sempre a tavola con Don Luigi; ci scambiavamo informazioni e opinioni, non c’era tema su cui non riuscisse a dire qualcosa di importante. A volte mi accompagnava mia moglie Sofia e Don Luigi la faceva sempre sedere alla sua sinistra, segno di amicizia e rispetto, anche se io ero divorziato ed entrambi non eravamo cristiani. Un giorno Sofia fu invitata dagli studenti a fare una riunione sul boicottaggio Nestlé; ne informò Don Luigi dicendo che avrebbe espresso opinioni molto radicali sul capitalismo di rapina; lui le diede il suo assenso, sembrava anzi soddisfatto che si parlasse di questi temi.

Nel 1997 morì mio padre, nel 2010 mia madre. In entrambi i casi Don Luigi venne a celebrare il rito funebre a Vicenza, facendoci sentire concretamente la sua vicinanza e quella di tutto il Cuamm. Immancabili poi, a ogni ricorrenza di quelle morti, una sua chiamata o un suo messaggio. Credo che abbia lasciato l’incarico di proseguire a Don Dante, il nuovo direttore, che è venuto a celebrare a Vicenza il rito per la morte di mia sorella nel 2020 e che continua a mandarmi messaggi a ogni ricorrenza.

Io e Sofia abbiamo visto per l’ultima volta Don Luigi a settembre del 2015, poche settimane prima che morisse. Don Dante ci accompagnò per la breve visita nella residenza in cui ha passato l’ultimo periodo della sua vita. Era a letto, ma lo sguardo era lo stesso di quando lo avevo incontrato la prima volta nel 1969. Parlava poco, come sempre del resto, ma le sue poche parole erano intrise di rispetto e di affetto. Ci siamo salutati sapendo che non ci saremmo rivisti.

Non ricordo se l’ho ringraziato per tutto quello che ha fatto per me. In tutto quello che ho fatto nella vita, ci ho messo del mio, ma non so come sarebbe andata senza l’aiuto di Don Luigi.

Adriano Cattaneo, Epidemiologo in pensione, Trieste, Giugno 2024

Foto di copertina. Don Luigi Mazzucato e il Prof Anacleto Dal Lago incontrano Julius Nyerere, presidente della Tanzania (Dar es Salaam, 12 giugno 1982). Archivio Medici con l’Africa – Cuamm

fonte: https://www.saluteinternazionale.info/2024/09/in-ricordo-di-don-luigi/

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