Dopo la chiusura dell’OPG: i residui del modello manicomiale e la sopravvivenza del binario “speciale” di giustizia per i “folli rei “. di Grazia Zuffa

Sommario

La riforma (l.81/2014) che ha chiuso gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG) ha previsto un sistema di intervento terapeutico alternativo alla istituzionalizzazione per i cosiddetti “folli rei”, secondo il modello di salute mentale di comunità. Non è però stato modificato il “binario speciale” di giustizia che precedentemente conduceva all’OPG, fondato su concetti quali “incapacità di intendere e volere” e “pericolosità sociale”. Questi costrutti sono in sintonia col vecchio “modello manicomiale”, che la riforma ha voluto superare col nuovo approccio sociosanitario. L’articolo analizza le contraddizioni che impediscono la applicazione del modello di salute mentale di comunità previsto dalla legge e offre indicazioni per superare il “binario speciale” di giustizia per le persone con disabilità mentali che hanno commesso reati.

Abstract

The law (l.81/2014) which has abolished the forensic psychiatric hospitals has provided a new therapeutic system for the so called “insane criminals”, following a mental health community-based approach (alternative to the psychiatric institutionalization model).  Nonetheless, the special criminal system for the “insane criminals” has not been changed. This system is grounded on concepts like “incapacity of acting rationally” and “social dangerousness” (as attributes of mental disorders). These ideas are rather consistent with the psychiatric institutionalization than with the community-based model promoted by the new law. The article addresses the inconsistencies that prevent the full implementation of a mental health community- based approach and suggests legislative solutions to overcome the “special” justice system for authors of criminal acts with mental disabilities.

Grazia Zuffa


L’eliminazione degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari – OPG è avvenuta molti decenni dopo la chiusura dei manicomi civili, tramite norme che intervengono sulle modalità di presa in carico delle persone affette da patologia psichiatrica che hanno commesso un reato. La normativa penale per questi autori di crimini con disturbi mentali è però rimasta intatta: così che il codice penale distingue in modo netto la condizione di coloro che manifestano la patologia al momento del fatto e, considerati “incapaci di intendere e volere”, sono giudicati non imputabili ma sottoposti a misura di sicurezza in quanto “socialmente pericolosi” (i cosiddetti folli rei); da coloro che, condannati per un reato, manifestino la patologia durante la detenzione (i cosiddetti rei folli).

Gli OPG sono stati chiusi a seguito delle leggi che disegnano un nuovo approccio terapeutico per i “folli rei” (i non imputabili), senza menzionare la sorte dei “rei folli[1] (e già questo potrebbe suggerire che il legislatore considerasse quei provvedimenti come un primo passo sulla via di una riforma complessiva) (Poneti, 2018). Da qui la “doppia faccia” della fine degli OPG: da un lato, gli OPG sono sostituiti da un sistema terapeutico radicalmente alternativo (ricalcato sui principi della cosiddetta legge Basaglia e della riforma sanitaria), che però interessa solo i folli rei, come detto; dall’altro, la chiusura impatta in maniera rilevante sui rei folli, poiché in passato anche i rei folli erano destinati all’OPG. Così come le porte degli OPG si aprivano anche per i sospetti folli rei/rei folli, che erano in attesa di perizia psichiatrica.

L’ombra del manicomio

In breve, il cosiddetto “doppio binario” che sul piano penale separava (e continua a separare) nettamente i “folli rei” dai “rei folli”, si riunificava – per così dire- nella destinazione finale, rappresentata dall’ istituzione “speciale”, con finalità di cura e custodia, quale era il manicomio criminale (solo successivamente, pudicamente ribattezzato Ospedale Psichiatrico Giudiziario). Esattamente lo stesso connubio, di cura/custodia, che connotava il manicomio civile per i folli non rei fino al 1978, l’anno della chiusura. Al fondo, il doppio binario si riunificava nel collante dell’ideologia manicomiale, imperniata sulla pericolosità del malato di mente: in virtù della quale la custodia si sovrappone e si confonde “naturalmente” con la cura.

Per i riformatori, è una matassa difficile da dipanare, perché i fili del sistema terapeutico si intrecciano con quelli del sistema giudiziario e carcerario. Per districarla appieno, occorre intanto decifrare le ombre che il fantasma manicomiale ancora proietta.

L’OPG non c’è più, ma il linguaggio giuridico per i folli rei è saldamente ancorato alla cultura manicomiale, con termini quali “internamento”, “infermo di mente”, “seminfermo di mente”; e postulati quali l’“incapacità di intendere e volere” e la “pericolosità sociale” [2].

L’OPG non c’è più, ma il ricorso eccessivamente ampio dei giudici alle misure detentive di sicurezza psichiatriche (basate sull’assunto di “pericolosità sociale” collegata alla disabilità psicosociale di chi ha commesso reato) rischia di fare delle REMS (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza) la regola nel programma terapeutico per i folli rei, invece dell’eccezione (la extrema ratio, secondo le previsioni della legge 81).

L’OPG non c’è più, ma la sorte dei rei folli è alla pari segnata perché è mancato l’impegno pubblico  a colmare il vuoto che si è aperto dopo la chiusura dell’OPG, normando in maniera organica le alternative terapeutiche al carcere per le patologie mentali, specie le più gravi; e nonostante l’opportuno intervento della Corte Costituzionale a parziale rimedio dell’inerzia del legislatore, è mancato l’impegno dei giudici a implementare le cure sul territorio seguendo le nuove possibilità aperte dalla sentenza della Corte[3].

L’OPG non c’è più, e ciò porta impietosamente allo scoperto la mancanza di cultura e di pratiche per gestire la salute mentale in carcere: proprio sul “retroterra” dell’OPG l’amministrazione penitenziaria faceva affidamento per sbarazzarsi dei soggetti “disturbanti”, cui veniva opportunamente fornita una diagnosi psichiatrica in ambito sociopatico, atta ad aprire le porte manicomiali[4]. Al contempo, un sistema sanitario pubblico ancora debole non riesce a trarre vantaggio dal vuoto del manicomio per imprimere un nuovo indirizzo.

Inoltre, la riforma stessa innesta nuove contraddizioni: il nuovo sistema dedicato ai folli rei, centrato sulla cura e dunque allineato in via di principio con i dettati dell’etica medica (nel rispetto della libertà di cura e dell’autonomia del paziente) deve fare i conti nelle REMS con la condizione di internamento/detenzione della persona. Tale condizione giuridica configura una obbligatorietà alle cure? E se del caso, con quali garanzie? La questione, delicata e controversa, è stata affrontata nella sentenza della Corte Costituzionale 22/2022, che esamineremo a breve.

Da qui la domanda principale: è possibile chiudere davvero gli OPG (come luoghi e come “spirito”) senza ripensare l’intero sistema di trattamento (terapeutico ma anche penale) delle persone con “disabilità psicosociale” che hanno commesso un reato? Quanto si può ancora rimandare una rivisitazione complessiva della questione, sia dal punto di vista del diritto alla salute sia del “diritto alla parità e alla non discriminazione” di fronte alla giustizia, ovvero del diritto alle garanzie di cui tutti gli individui e le individue dovrebbero allo stesso titolo godere in un sistema penale[5]?

La chiusura degli OPG ha rappresentato un colpo decisivo nella demolizione dell’edificio manicomiale- è vero. Nonostante ciò, pezzi di quell’edificio, nella veste di vecchie idee e vecchie pratiche, rimangono in piedi: col rischio di perpetuare il paradigma manicomiale, nella dimensione culturale e simbolica (oltre quella materiale) del vecchio OPG.

Alle radici della “cura e punizione” del folle

Nella prospettiva bioetica, è centrale il superamento di quel paradigma, su cui si sono fondate sia la privazione di diritti civili, sia una pratica di “cura” segregante e violenta per il malato mentale. E dunque l’attenzione si concentra nell’individuare quelle vecchie pratiche e quelle vecchie idee ispirate al modello manicomiale (e magari ammantate di nuovo).  Per comprenderne il radicamento, è utile risalire alle origini.

Nel secolo dei lumi, nasce la concezione del folle come “anormale”, poiché non in grado di seguire le vie della ragione, sulla quale si configura la “normalità” degli umani (Foucault, 1961). Dall’idea di “estraneità alla ragione” discendono i caratteri di quella “anormalità” rappresentata dalla follia: il folle è incomprensibile, non prevedibile, perciò stesso “pericoloso” (Ongaro Basaglia, 1982).

Quale novità rispetto al passato, il folle anormale è consegnato nelle mani della scienza medica. Il famoso gesto simbolico di Philippe Pinel, che “libera” i folli dalle catene cui erano destinati negli asili insieme a delinquenti e devianti sociali di vario genere, va compreso nella sua doppia faccia: se da un lato riconoscere il folle come malato risponde a un richiamo umanitario che sostituisce la cura alla punizione, dall’altro la malattia identificata nell’ “altro dalla ragione” iscrive il malato a una umanità separata, segnata da un difetto di personalità morale. Il folle è pericoloso, al tempo stesso è irresponsabile. L’ambivalenza è ben colta da Franca Ongaro Basaglia: “la pietà che porta a riconoscere alla malattia il diritto a uno spazio proprio, si traduce nella cura/punizione che consiste nel dovere di entrare in uno spazio estraneo, separato”, diverso rispetto all’umanità razionale (Ongaro Basaglia, 1982, 125).

Se il folle “pericoloso e irresponsabile” non può essere punito perché malato, sono proprio quelle caratteristiche della malattia – di pericolosità e irresponsabilità- a far sì che la cura non si distacchi dalla punizione. Il folle deve essere ricondotto con la coercizione nei binari dell’ordine sociale, oppure, più frequentemente, è segregato a vita. Se il folle è esentato dalla responsabilità morale delle sue azioni, quella stessa presunzione di “irresponsabilità/pericolosità” lascia il curando indifeso nelle mani del curante, quale oggetto inerte del trattamento (Gargani, 2021). Centrale è il ruolo della scienza, qui rappresentata dalla psichiatria: le pratiche punitive nei confronti del malato di mente (si pensi alle camicie di forza, ai bagni freddi, a interventi chirurgici permanentemente invalidanti, fino all’uso della contenzione, non ancora scomparsa) hanno avuto corso in contrasto con ogni principio di umanità perché convalidate come “cura” dal sapere psichiatrico (Zuffa, 2022). Conclude Ongaro Basaglia: “di fatto l’intervento psichiatrico e il rapporto della scienza (della ragione) con la malattia mentale resta un rapporto di punizione, esattamente come quello che la teneva confusa con la criminalità e la delinquenza” (ibidem, 125). E non è un caso che nel manicomio giudiziario – così come nel manicomio civile- si riproducesse quella confusione di soggetti sofferenti e degradati, affetti da “patologie” mentali e più spesso sociali non bene decifrabili.

Queste brevi annotazioni storiche ci permettono di capire in primo luogo la lunga vita degli ospedali psichiatrici giudiziari, anche dopo l’abolizione del manicomio civile. La spiegazione sta nella figura emblematica del “pazzo criminale”, a suggellare il legame malattia/pericolosità. Se il malato di mente ha in sé una potenzialità criminale prima ancora di commettere un crimine, il pazzo criminale (il folle reo) la attualizza, riconfermando il postulato. Sul piano del trattamento, il diritto ha dalla sua la scienza, come detto. La psichiatria, proprio in quanto opera sul terreno della “anormalità” (per riportare il folle al “comportamento normale”), è la naturale alleata del penale, in uno spazio, segnato dalla coercizione, che è “medico-giudiziario” e “patologico-normativo” (Foucault, 2019, 147 sg.). Da questo punto di vista, le leggi 9/2012 e 81/2014 segnano una rottura fondamentale, poiché la cura si svincola radicalmente dalla punizione, attraverso la “normalizzazione” della malattia mentale e il conseguente allineamento ai principi terapeutici che presiedono alla pratica di cura in generale.

Ripercorrendo le caratteristiche salienti del nuovo sistema di presa in carico sociosanitaria del “folle reo”, così come disegnato dalla riforma legislativa, meglio se ne comprende la portata di rottura. Al tempo stesso, guardando alle pratiche, si coglie l’azione di resistenza del vecchio paradigma.

Nuovo sistema di cura e vecchio sistema giudiziario

In premessa, va ribadito che la riforma non consiste nella sostituzione dell’OPG con le REMS, come spesso si dice, bensì – se di sostituzione si deve parlare – con l’intera rete dei servizi sanitari e sociali di comunità, con un ruolo particolare del Dipartimento di Salute Mentale-DSM. Come di recente ribadito in un documento a cura dei ministeri competenti, la riforma disegna “un insieme di interventi che sono organizzati secondo principi di appropriatezza, efficacia, efficienza, intensità di cura sanitaria e sociale e basati sul consenso, la partecipazione e il protagonismo della persona coinvolgendo la sua famiglia e il contesto” (Corte Costituzionale-Risposta ai quesiti, 2021, 6)[6]. Sulla base di tali principi, la opzione detentiva in REMS non può che rappresentare la extrema ratio, mentre hanno assoluta priorità gli interventi erogati nel contesto della comunità territoriale. Anche le stesse REMS, nonostante siano destinate ad accogliere persone in misura di sicurezza in quanto giudicate “socialmente pericolose”, hanno una valenza nettamente terapeutica.

Da ciò le loro caratteristiche organizzative/operative così sintetizzabili[7]: la responsabilità di gestione in carico all’autorità sanitaria; la centralità del progetto terapeutico personalizzato; il principio di territorialità su base regionale (per cui la presa in carico è affidata, di norma, ai servizi del territorio di residenza della persona); il numero chiuso e la ridotta capienza della struttura REMS, con un massimo di 20 posti letto (per non riprodurre le logiche manicomiali); la durata massima della misura di sicurezza non superiore alla pena edittale massima per il reato compiuto.

Queste linee operative rimandano chiaramente alla centralità del mandato curativo, anche se aspetti ambigui permangono, relativi alla posizione giudiziaria dei ricoverati/internati sottoposti a misura di sicurezza detentiva: ad esempio, le REMS accolgono anche persone in misura di sicurezza provvisoria (pur se la precedenza deve essere data ai soggetti in misura di sicurezza definitiva).

Con ogni evidenza, la “provvisorietà” è coerente con la logica giudiziaria, che assimila la misura di sicurezza provvisoria alla custodia cautelare, mentre il concetto non ha alcun significato da un punto di vista terapeutico; anzi la “provvisorietà” contrasta con il compito di predisporre e dare avvio a un progetto terapeutico personalizzato, che ha una sua ratio specifica di sviluppo temporale. Lo stesso si può dire per la durata della misura di sicurezza che, secondo logica di giustizia, viene ricondotta e proporzionata al reato commesso, in qualche modo riconoscendo la contiguità fra pena e misura di sicurezza nello stato detentivo (Corleone, 2020). Rimane però aperto il problema di conciliare il tempo della cura col tempo della giustizia, come vedremo.

Tocchiamo così con mano le contraddizioni derivanti dall’innesto del nuovo sistema di cura, ispirato al paradigma di psicologia e psichiatria di comunità, sul vecchio regime giudiziario ritagliato sulla pericolosità della persona “inferma di mente”. Da un lato la cura si sgancia completamente dai dispositivi giudiziari/custodiali, poiché in ambito terapeutico decade l’idea della “pericolosità sociale”. In conseguenza, nel nuovo sistema di presa in carico, le REMS sono una contraddizione e rimangono in piedi solo perché rimane in piedi il sistema giudiziario “speciale” per “infermi di mente” e la presunzione di “pericolosità sociale” con relative misure di sicurezza psichiatrica detentive. La riforma che abolisce l’OPG opera- per così dire – una mediazione, tenendo conto della sopravvivenza del binario giudiziario “speciale”: da qui l’istituzione delle REMS che però  – nelle intenzioni del legislatore- sono assolutamente depotenziate. Dunque, non solo sono residuali, ma anche transitorie: l’assegnazione (eccezionale) alla REMS del prosciolto/a dovrebbe essere di breve durata solo al fine di predisporre programmi terapeutici di natura comunitaria, da svolgersi sul territorio. Da quanto detto, si comprende come il rispetto del principio di extrema ratio per le REMS sia un indicatore essenziale nel funzionamento del nuovo sistema di cura, e insieme una misura dell’effettivo superamento del paradigma manicomiale.

Quanto al concetto di pericolosità sociale, questo, seppure non più supportato dalla scienza, rimane annidato nel sistema giudiziario, con le misure di sicurezza psichiatriche. Si potrebbe pensare che venendo meno quel supporto scientifico, il ricorso alle misure di sicurezza si esaurisca progressivamente: è probabile che sia stato questo il pensiero del legislatore nel delineare il superamento dell’OPG limitandosi ad agire sul polo della cura.  Questa previsione non tiene conto del ruolo trainante del diritto penale con la sua forza normativa e simbolica. E infatti le agenzie penali hanno sin da principio cercato di ribadire le loro prerogative (come vedremo esaminando più da vicino l’applicazione della legge 81/2014). Il risultato è l’eccessivo ricorso alle misure di sicurezza e più in generale il rigonfiamento delle REMS. All’opposto delle intenzioni del legislatore, il perno del nuovo sistema di cura rischia di spostarsi sulle REMS, facendole diventare un sostituto dell’OPG. Anche la ribadita vocazione curativa delle REMS mostra una debolezza: può costituire per il giudice un “salvacondotto” a disporre le misure di sicurezza in piena coscienza “umanitaria” e “solidale”. In tal modo però non si smantella quello spazio “medico giudiziario”, “patologico normativo” di cui parlava Foucault; anzi, seppure orfano del supporto della vecchia psichiatria manicomiale, il sistema giudiziario opera per rilanciare quello spazio, paradossalmente avvalendosi della “riqualificazione” clinico terapeutica delle misure di sicurezza.  Da qui il dibattito circa il nuovo significato della misura di sicurezza dopo l’abolizione dell’OPG, che vedremo più avanti, analizzando la recente sentenza della Corte Costituzionale sulle REMS.

Dal punto di vista dei paradigmi interpretativi della malattia mentale, se il regime di cura in misura di sicurezza diventa la regola, si ripropone il problema della “cura speciale” per il malato di mente in regime di coercizione (ovvero il vecchio nodo del manicomio).

Per concludere: dopo la “rivoluzione gentile” della chiusura dell’OPG, il modello manicomiale sopravvive nel binario speciale delle misure di sicurezza psichiatriche (Corleone, 2018)[8]. Spezzata la vecchia alleanza fra psichiatria e penale, i due poli, curativo-normativo, sono destinati a entrare in conflitto: a meno che il polo giudiziario non ceda il passo al polo curativo, dunque uniformandosi nelle pratiche alla progressiva residualità della misura di sicurezza, in conformità alla decadenza – in ambito scientifico – della idea di “pericolosità” della malattia mentale. Ciò però finora non è avvenuto, e sono iniziate le tensioni fra i due poli, sfociate nell’impugnazione davanti alla Corte Costituzionale delle leggi 9/2012 e 81/2014.

In sintesi: il polo giudiziario, nel rilanciare le proprie prerogative sulla base della normativa penale speciale per i folli rei, rischia di diventare l’ultimo baluardo del modello manicomiale, nella ribadita necessità di “custodire al fine di curare” il malato di mente. Il rischio è tanto più grave se prende piede l’idea che le nuove cure abbiano per così dire “rilegittimato” la custodia.

Le REMS nel conflitto fra i poli sociosanitario e penale

Le resistenze a lasciarsi definitivamente alle spalle il vecchio modello si palesano nella tematizzazione stessa del dibattito intorno all’applicazione della riforma. Non si discute, come si dovrebbe, sulla funzionalità del nuovo, complesso sistema di presa in carico dei folli rei nel rispetto della sua vocazione territoriale; quanto sull’anello in teoria eccezionale del sistema, le REMS e sulle “liste di attesa” per accedervi. Le agenzie giudiziarie lamentano che misure di sicurezza, soprattutto provvisorie, ordinate dal giudice, non siano eseguite con l’immediatezza richiesta poiché  la dirigenza sanitaria delle REMS tarda ad accogliere le persone sottoposte alle misure appellandosi al rispetto della capienza massima dei posti stabilita dalla legge. Col risultato – si lamenta- o di avere persone pericolose in libertà; o in detenzione impropria in carcere per quelle giudicate, a seguito di perizia ivi eseguita, inferme di mente e pericolose socialmente.

Non è qui luogo di approfondire la controversa questione circa la consistenza delle liste di attesa, che comunque sembra concentrarsi in un numero limitato di Regioni[9]. Ciò che interessa ancora una volta sottolineare è la stortura dell’esclusivo focus sulle REMS e sul loro asserito “malfunzionamento”, che domina il dibattito. Peraltro, il giudizio di “malfunzionamento” è formulato esclusivamente dall’ottica securitaria.  Passa – non a caso- in secondo piano il fatto che, nella prospettiva di tutela della salute, nell’ottica degli operatori ivi impegnati, le REMS siano al contrario giudicate una esperienza positiva (Corleone, 2021; Corte Costituzionale, Risposta ai quesiti, 2021)[10].

L’insoddisfazione per le REMS, che non riuscirebbero a far fronte alle richieste dell’autorità giudiziaria di eseguire le misure di sicurezza, ha raggiunto il culmine col rinvio delle leggi 9/2012 e 81/2014 alla Corte Costituzionale da parte del GIP del tribunale di Tivoli[11]. Le ragioni addotte per il rinvio bene sintetizzano il conflitto fra le competenze giudiziarie e le competenze sociosanitarie che insistono sulle REMS stesse. A parere del Gip di Tivoli, la missione terapeutica delle REMS non può escludere la finalità di custodia, inerente alla misura di sicurezza detentiva. Ciò perché “la limitazione della libertà personale derivante dalla misura di sicurezza provvisoria del ricovero in REMS trova giustificazione e fondamento costituzionale anche nella tutela dei diritti fondamentali alla vita e all’incolumità personale dei terzi diversi dall’infermo di mente che vi è sottoposto..ferma restando la concorrente tutela della salute del detto infermo di mente”; da qui “l’aspetto penale della misura di sicurezza detentiva personale”, che dovrebbe essere immediatamente eseguibile[12].

Come si vede, il rilancio delle prerogative del potere giudiziario poggia, ancora una volta, sui caratteri di “pericolosità a sé e agli altri” del soggetto “infermo di mente”. Ed è significativo che in primo piano siano le misure di sicurezza provvisorie, che, per l’appunto, rispondono più ad esigenze cautelari di sicurezza, che a fini terapeutici.

In questo scontro, di finalità del trattamento dei folli rei e di competenze nella sua esecuzione, colpisce la mancanza di “sguardo di sistema”, che ci si aspetterebbe anche – se non in primo luogo- dalle autorità giudiziarie.

Nella prospettiva sistemica, l’attenzione dovrebbe spostarsi sulle ragioni del ricorso alle misure di sicurezza detentive, specie alle misure di sicurezza provvisorie (che occupano buona parte dei posti nelle REMS), piuttosto che sul ritardo di esecuzione dei provvedimenti e sulla carenza di posti.

In altre parole, la corretta tematizzazione dovrebbe essere: come risponde il “binario speciale” di giustizia per gli “infermi di mente” al cambio di paradigma sancito dalle leggi di superamento dell’OPG? Come il polo giudiziario si adegua alla nuova interpretazione della malattia mentale, non più associata alla presunzione di pericolosità? Perché, vale la pena ripeterlo, ci si aspetterebbe una progressiva rinuncia alle misure di sicurezza, un loro “naturale” deperimento in ottemperanza al principio della residualità delle REMS.  Si aggiunga che tale adeguamento è condizione per il buon funzionamento del sistema, poiché con ogni evidenza, il nuovo sistema di trattamento, per funzionare, ha bisogno che i due poli, sanitario e giudiziario, viaggino in armonia.[13].

Va dato atto che questo “sguardo d’insieme” non è mancato nei settori più avvertiti della Magistratura, ed è stato ripreso anche nel dibattito bioetico. Si veda una risoluzione CSM del 2018, che denuncia l’eccessivo ricorso all’applicazione dell’art.88 CP (per l’accertamento del vizio totale di mente), col conseguente accesso “massivo e indiscriminato alle REMS”[14]. Guardando all’indietro, non va dimenticato che la stessa “rivoluzione gentile” ha proceduto sulla via aperta da importanti sentenze della Corte Costituzionale: respingendo il principio di persistenza e immutabilità dell’infermità psichica, progressivamente “attualizzando” il giudizio di pericolosità sociale (fino al superamento dell’automatismo dell’internamento in OPG) [15].

Così il Comitato Nazionale di Bioetica, riprendendo il giudizio del CSM, scrive che “l’eccessivo ricorso alla non imputabilità e al giudizio di pericolosità sociale (cui consegue l’ampio utilizzo delle misure di sicurezza) è spia della vecchia visione del malato psichiatrico come soggetto pericoloso, da contenere più che da curare” (CNB, 2019, 18).

Nuove figure della “pericolosità” del malato di mente

Nella riflessione di molti giuristi, è presente la questione di come conciliare la vecchia impalcatura delle misure di sicurezza psichiatriche con i nuovi approcci terapeutici, a seguito del mutato paradigma di interpretazione della malattia mentale. Una impalcatura che si regge sul legame causale fra malattia e reato, in conseguenza – come già detto- del pericolo potenziale annidato in  quella “speciale” malattia. Nel nuovo sapere alla base della riforma psichiatrica (che prende spunto – è bene precisarlo – dal movimento di psicologia di comunità, le cui origini risalgono alla metà del secolo scorso) la pericolosità sociale è “un concetto sfuggente simile a una specie di oracolo, fatto da una serie di condizionamenti a priori, senza possibilità alcuna di essere valutato quantitativamente e qualitativamente” (De Mattos, 2012, 56). E la presenza della malattia mentale non legittima l’accostamento della persona alla pericolosità sociale più di quanto legittimerebbe l’accostamento di una persona non affetta dal disturbo (D’Autilia, Dell’Acqua, 2013; Pellegrini, 2017).

Se la nuova psichiatria[16] non supporta più quel legame, un suggerimento interpretativo viene dalle scienze sociali. La connessione causale disturbo mentale-reato non è che “la diretta espressione della differenza stigmatizzata” (Goffman, 1963, 26)[17]. Come spiega Goffman, lo stigma è la costruzione di una “differenza indesiderata”, cui vengono ricondotti tutti i comportamenti della persona segnata da quella differenza. In tal modo la differenza indesiderata finisce per esaurire la sua identità. Il concetto, applicato allo stigma della malattia mentale si articola così: se la caratteristica della malattia mentale è individuata nella pericolosità, non solo tutti i comportamenti del folle saranno visti sotto quella lente, il particolare comportamento criminoso (appannaggio anche – anzi soprattutto- dei “normali”) nel caso del malato di mente sarà inesorabilmente attribuito alla sua malattia.

Va precisato che una certa evoluzione c’è stata in ambito giuridico, come già accennato: l’accertamento della incapacità di intendere e volere è vincolato “al momento del fatto”; in caso di conferma, l’infermo mentale non necessariamente è giudicato pericoloso socialmente, e in ogni modo la pericolosità è sottoposta a revisione. In altre parole, l’accertamento e la verifica puntuali della pericolosità possono essere visti come segnali di allentamento del nesso malattia-crimine-pericolosità.

Tuttavia, proprio questo accertamento si rivela oggi difficoltoso. Da un lato la revisione dello statuto teorico di malattia mentale porta a una revisione delle categorie diagnostiche, che rende problematico il loro utilizzo nelle perizie; dall’altro, nell’ambito generale della salute mentale e delle pratiche psichiatriche e psicologiche, la diagnosi perde la sua centralità. L’attenzione si sposta infatti dal deficit unicamente individuale, alla interazione dell’individuo col contesto relazionale e sociale: da qui lo spostamento dall’approccio cosiddetto “reattivo”, centrato sulla malattia, all’approccio “pro-attivo”, dinamico, attento al paziente in evoluzione nel suo ambiente di vita. La conseguenza è la perdita di rilievo della modalità statica classificatoria della diagnosi, centrata sulla malattia più che sul malato (Pitch, 1989). Ma poiché proprio questa modalità classificatoria è richiesta dal giudice allo psichiatra forense, il risultato è un preoccupante divario fra il sapere (e le prassi) in accordo col nuovo paradigma di salute/malattia mentale e il sapere della disciplina psichiatrico-forense che continua ad avvalersi di concetti logori, quali la pericolosità del paziente psichiatrico, la sua imprevedibilità, la cronicità (Venturini, 2012).

L’analisi di perizie psichiatriche di pazienti ricoverati a Castiglione delle Stiviere conferma il giudizio: la maggioranza delle perizie sono state stilate dopo un solo colloquio con la persona, la “incapacità di intendere e volere”, lungi dall’essere attualizzata “al momento del fatto”, è desunta dalla diagnosi e dalla classificazione nosologica, così come la pericolosità. Il periziando è oggetto di perizia e non soggetto con dignità e diritto di parola (Report REMS, 2021, 53)[18] .

Il mutato e difficile rapporto fra scienza e diritto nel trattamento dei folli rei non sfugge al dibattito fra giuristi. Così Francesco Palazzo riconosce che il rapporto fra malattia e incapacità, fra malattia e pericolosità non sono “scientificamente affermabili”. Per non parlare della “vera e propria inconcepibilità scientifica” della distinzione fra “vizio totale” e “vizio parziale” di mente, che tuttavia – sottolinea il giurista- è largamente applicata in sede di giudizio[19] (Palazzo, 2020, 12).

Si potrebbe pensare che la caduta delle false certezze della psichiatria manicomiale porti con sé il crollo dell’edificio giuridico di non imputabilità. Invece, la conclusione – per certi versi sorprendente- del giurista, è l’apprezzamento per il ruolo di guida che il diritto sta assumendo “in questo particolare momento storico, nelle terre incognite dell’imputabilità, in cui principalmente passa il confine fra il punire e il curare”, così “riconquistando terreno rispetto alla scienza”.

Citando e condividendo un progetto di riforma della non imputabilità del 2017, il giurista spiega come il diritto “riconquisti il terreno”: attraverso una classificazione (allargata) dei disturbi mentalmente “incapacitanti”, e, soprattutto l’esplicitazione del “nesso psichico-causale che deve sussistere fra infermità e fatto criminoso”, polarizzando “il giudizio di accertamento dell’imputabilità sul dato della “normalità” comportamentale, conferendogli così una consistenza marcatamente normativa”(ibidem, 2020, 13 sg.) [20].

Come si vede, la vocazione del diritto penale a ricercare la “certezza” può spingere a ripercorrere le vecchie “certezze” della psichiatria manicomiale. Ciò che più colpisce è il riferimento alla normalità/anormalità comportamentale, che ci riporta a Foucault e alla sua analisi circa il ruolo storico trainante del diritto nella costruzione di quel cruciale spazio “normativo-patologico” del manicomio criminale: in cui la psichiatria manicomiale svolge un ruolo ancillare al diritto, predisponendo una cura con i caratteri di una punizione speciale. Qui sta il pericolo del ruolo guida del diritto, nel ridefinire la linea che separa il punire dal curare: sia la ratio stessa del diritto penale (assai differente da quella della cura), sia l’eredità del connubio storico fra diritto e scienza nel campo della malattia mentale, spingono ad una ridefinizione della separazione fra pena e cura ancora sotto l’influenza del paradigma manicomiale: non a caso è citato uno dei pilastri del paradigma, il “nesso psichico causale fra infermità e fatto criminoso”.

Come in un gioco dell’oca, siamo ricondotti al cuore della questione: su quali fondamenti poggi oggi la non imputabilità per l’infermità mentale, e quindi quale legittimità, scientifica ed etica, abbiano le misure di sicurezza psichiatriche.

La sentenza della Corte Costituzionale 22/2022

La sentenza prende spunto dal rinvio delle leggi 9/2012 e 81/2014 da parte del GIP di Tivoli, che, come già illustrato, contestava la esclusione del Ministero della Giustizia dalla gestione delle REMS, a suo avviso incompatibile con il carattere della misura di sicurezza disposta da autorità giudiziaria in risposta alla pericolosità sociale del soggetto. In particolare, l’incompatibilità si manifesterebbe nelle “liste di attesa” per entrare nelle REMS, che rispondono a criteri – squisitamente e esclusivamente – attinenti alla protezione della salute del folle reo.

Con la sentenza 22/2022 la Corte non solo ribadisce la legittimità costituzionale delle leggi di riforma, ma spende significative parole a difesa del sistema delle REMS “che costituisce il risultato di un faticoso ma ineludibile processo di superamento dei vecchi OPG” (Sentenza 22/2022, 6).

Ciò nondimeno, essa accoglie in parte il punto di vista del tribunale di Tivoli, invitando il parlamento a “dare adeguata base legislativa alla nuova misura di sicurezza”, “assicurando forme di adeguato coinvolgimento del Ministero della Giustizia”, sulla base del riconoscimento che “l’assegnazione a una REMS non può essere considerata come una misura di natura esclusivamente sanitaria” (5.1).

Ciò che qui interessa è approfondire il carattere di questa “nuova” misura di sicurezza: novità che risulterebbe dalla assegnazione del prosciolto in REMS invece che in OPG. Sulla natura, definita “ancipite” della nuova misura di sicurezza (terapeutica e insieme di contenimento della pericolosità sociale), la Corte si sofferma ampiamente (al punto 5.3). Al centro del ragionamento è il riconoscimento che l’assegnazione a una REMS, in quanto misura limitativa della libertà personale, è distinta da ogni “ordinario trattamento sanitario della salute mentale”. Diversi sono gli aspetti citati per distinguere l’assegnazione in REMS dal trattamento sanitario “ordinario”: in primo luogo la persona non è solo malata di mente, ha commesso un reato ed è valutata pericolosa socialmente, intendendo con ciò “la probabilità di commissione di nuovi fatti preveduti dalla legge come reati”. Il rilievo penale della misura fa sì che sia applicata non già dall’autorità amministrativa, come nell’ipotesi del Trattamento Sanitario Obbligatorio (art.35 l.833/78), bensì dal giudice penale (in via definitiva, dopo l’accertamento del fatto, oppure provvisoria); e che alla sua esecuzione sovrintenda il magistrato di sorveglianza[21].

E’ di estremo interesse osservare come, nell’argomentazione della Corte, la condizione di mancanza di libertà personale si riverberi sulla terapia in REMS, conferendole un carattere coattivo. A dimostrazione, la sentenza cita in parallelo il riflesso della misura restrittiva sia sulla perdita della libertà di movimento, sia sulla perdita della libertà rispetto al trattamento, che diventa obbligato[22]. E non a caso il trattamento in REMS è accostato al Trattamento Sanitario Obbligatorio previsto dalla 833/78 (vedi sopra). In ultimo, la coattività del trattamento in REMS entra di nuovo in gioco quando la Corte, nel ribadire “la natura ancipite della misura di sicurezza a spiccato contenuto terapeutico” sottolinea “la necessità che essa si conformi ai principi costituzionali dettati, da un lato, in materia di misure di sicurezza, e, dall’altro, in materia di trattamenti sanitari obbligatori” (5.3).

Cura e privazione della libertà, un arduo connubio

Ciò che la Corte sembra dimenticare è che il TSO non è affatto un “ordinario trattamento sanitario della salute mentale”, ma un’eccezione da limitare il più possibile[23]. Poiché uno dei pilastri della “normalizzazione” della malattia mentale è appunto l’aggancio ai principi dell’etica medica, con particolare riguardo a quello che storicamente è stato ignorato nel campo della malattia mentale: l’autonomia del paziente. Ovviamente, il rispetto dell’autonomia del paziente quale ordinaria regola nella cura è possibile solo avendo reciso il legame fra malattia mentale e pericolosità alla base della commistione/coincidenza di cura e custodia.

Il vero problema è dunque il contrasto fra i principi ispiratori della moderna cura e la logica della misura di sicurezza psichiatrica detentiva. Per risolverlo, il primo passo è di esplicitarlo come tale.  Esattamente il contrario di quanto fa la Corte alla ricerca di una (ardua) conciliazione fra le due irriducibili logiche, della cura e del contenimento della pericolosità.

Non c’è da stupirsi se la sottolineatura della coattività del trattamento in REMS sollevi tante riserve, in primis sul versante dei diritti delle persone con disabilità mentale. Se si stabilisce il loro diritto alla salute, per quale ragione non dovrebbero per loro valere le leggi che tutelano l’autonomia del paziente nel trattamento (legge 219/2017)? Il quesito è tanto più stringente in quanto la tutela della salute è un diritto fondamentale, che non può essere annullato o compresso dalla privazione della libertà conseguente allo stato detentivo (CNB, 2013).

Dal mondo degli operatori sanitari, concretamente impegnati nel lavoro delle REMS, si avanzano articolate obiezioni alla concezione di trattamento contenuta nella sentenza. Scrive Pietro Pellegrini: “La cura in psichiatria è complessa ed implica interventi farmacologici, psicologici, sociali, da attuarsi nella responsabilità e libertà (del paziente). Nel definire il dove e il come dell’esecuzione della misura di sicurezza occorre tenere presenti questi elementi, altrimenti torneremo ad un sistema custodiale, dove la cura è privazione della libertà e psicofarmaci coattivamente imposti” (Pellegrini, 2022).

Da qui le ragioni per restare scettici di fronte alla concettualizzazione della nuova misura di sicurezza detentiva in REMS. Secondo la Corte, la differenza con l’OPG non sarebbe nelle funzioni, poiché anche la REMS mantiene “collegate e non scindibili”, sia la funzione di  contenimento della pericolosità sociale sia la funzione terapeutica ; quanto nel diverso accento sulla prima (in OPG) piuttosto che sulla seconda (in REMS). Mentre l’OPG “privilegiava in maniera pressoché esclusiva le ragioni di tutela della collettività contro la pericolosità dell’internato”, la REMS  è frutto di una nuova logica “per assicurare l’effettiva funzionalità a quella finalità terapeutica, che ne condiziona la stessa legittimità costituzionale” (punto 5.2).

In realtà, la distanza fra OPG e REMS si accorcia pericolosamente, se la cura viene trascinata nella logica di privazione della libertà della misura detentiva, rievocando – e dando nuovo spazio- alle pratiche coercitive del vecchio OPG. Aggiunge Pellegrini: “Se la misura giudiziaria diviene una nuova forma di trattamento obbligatorio e coatto, la via per una nuova grande istituzionalizzazione rischia di essere aperta”.

Un’ultima osservazione. La vera novità nel campo della cura per le persone sofferenti psichiche consiste nell’attenzione alla soggettività. Dunque, al vissuto delle persone in REMS andrebbe dato il giusto rilievo. Dal punto di vista etico, dare voce ai soggetti, i pazienti in primis e poi gli operatori impegnati sul campo, si presenta come una priorità: per ricondurre nei giusti binari la riflessione a illuminare anche il dibattito giuridico.

Una ricerca condotta nel sistema di REMS polimodulare di Castiglione delle Stiviere, una delle poche che focalizzano l’esperienza delle persone rinchiuse nelle REMS,  mostra le difficoltà dei pazienti (e degli operatori) ad accettare, e prima ancora a comprendere, quella che chiamano “la cura obbligata al chiuso”. Da un lato “l’essere chiuso/a” trasmette al paziente un messaggio in chiave punitiva, eppure quel luogo non è il carcere e lo stato di detenzione non è nominato come pena; dall’altro, messe di fronte alla mission curativa della REMS, le persone colgono la contraddizione fra il nuovo modello curativo (fondato sulla adesione del paziente e sulla sua responsabilizzazione) e la condizione di perdita della libertà, con un conseguente effetto di disorientamento. In altre parole, la prima difficoltà dei pazienti sta nel rielaborare il significato di quel “luogo chiuso”, collocato in una sorta di “terra di nessuno” concettuale. Il conflitto diventa tanto più acuto quando il raggiungimento degli obbiettivi di recupero di salute mentale non coincidono con la fine della “cura obbligata”, ossia della misura di sicurezza. Si presenta allora “la questione molto grande di dove collocare la necessità della cura rispetto al processo di uscita da qua” (Report REMS, 2021,20)[24].

Come si è visto, lo sforzo della Corte di valorizzare la valenza curativa delle REMS riconfermandone al tempo stesso la funzione detentiva, per il contenimento della pericolosità sociale, conduce alla “cura obbligata”. Alle obiezioni già formulate, altre se ne possono aggiungere.

In primo luogo, va ancora una volta ricordato che il confronto fra l’OPG e le REMS rischia di essere fuorviante, se si perde l’orizzonte ampio, di sistema di presa in carico territoriale, in cui le REMS sono inserite, come soluzione eccezionale e residuale. Dunque, il confronto andrebbe semmai fatto fra l’OPG, con la sua regola di cura/custodia in condizioni di detenzione, e il nuovo sistema di presa in carico dei folli rei, con la sua regola di cura tesa alla compliance del paziente, nel rispetto della sua autonomia e con l’occhio rivolto alla riabilitazione sociale del soggetto.  Vale la pena sottolineare ancora quanto affermato poco fa: la residualità delle REMS è cruciale e in tempi ravvicinati il nuovo sistema di presa in carico dovrebbe fare a meno delle REMS, in quanto servizi di cura rivolti a pazienti in stato di privazione della libertà. In altri termini: ciò che andrebbe spezzato è il legame che tuttora permane fra il vecchio OPG e il nuovo sistema, ossia la misura di sicurezza detentiva.

La Corte sembra però muoversi in altra direzione: non solo riconferma la funzione della misura di sicurezza detentiva, in certo senso la rafforza, proiettando la sua logica coercitiva sulla cura: con ciò minando proprio la “novità” delle REMS, nella loro funzione terapeutica. Le contraddizioni esplodono anche su altri versanti: se la cura in REMS è da considerarsi come cura coatta, allora va normata: da qui l’invito della Corte a legiferare, anche per rispondere ad esigenze di garanzia per i pazienti.

Irresponsabile e non imputabile: l’ultima catena del manicomio

Finora si è assistito a tentativi di ridefinire il confine fra “punire” e “curare” e di concettualizzare la novità delle REMS, senza mettere in discussione il sistema a monte, ossia il binario speciale di giustizia per folli rei, che ruota intorno alla non responsabilità penale. Eppure, la costruzione culturale e giuridica del binario speciale per folli rei è il convitato di pietra: poiché quel binario di giustizia speciale è intimamente legato alla visione della follia come “negazione della ragione”(da cui “l’incapacità di intendere e volere”); e alla concezione del folle come “pericoloso a sé e agli altri” (da cui il ricorso alle misure di sicurezza detentive).

Dunque, le contraddizioni che il “nuovo” sistema di cura innesta sul tronco delle “vecchie” misure di sicurezza non saranno risolvibili se non esce dall’ombra quel convitato di pietra: se non si affronta cioè il nodo del proscioglimento (per incapacità di intendere e volere) che “si riverbera sul futuro, con una incapacitazione permanente che si salda con l’affermazione di possibilità della reiterazione del reato” ( Corleone, 2022).

L’idea di modificare il codice Rocco nelle norme che prevedono la non imputabilità dell’infermo di mente era già stata avanzata nella commissione guidata dal senatore Marino: nel presentare le misure urgenti per la chiusura degli OPG, si auspicava che queste “debbano costituire solo il primo passo verso la successiva abolizione dell’istituto della non imputabilità” (Senato, Relazione sugli OPG, 2011).

Anche il CNB cita come problema bioetico “rimasto intatto anche dopo la chiusura dell’OPG la non-imputabilità”. E ricorda che “il cosiddetto doppio binario degli imputabili/non imputabili costituisce un nodo irrisolto, alla base delle difficoltà, normative e culturali, nell’assicurare la tutela degli autori di reato affetti da disturbo mentale”(CNB, 2019).

Disegni e proposte di legge sono stati depositati in Parlamento fino dagli anni novanta del secolo scorso. L’ultimo è stato presentato alla Camera nel 2021[25]. E tuttavia il “nodo irrisolto” denunciato dal CNB non è ancora stato sciolto, nonostante la storia dimostri come il binario speciale di giustizia per i folli rei non abbia affatto “assicurato la loro tutela”, per parafrasare lo stesso Comitato.

Questo è il primo equivoco da chiarire: poiché ancora si continua a rappresentare i due binari (imputabili versus non imputabili) come il binario del “punire” versus il binario del “curare”. Si badi: quando ci si appella alla storia a dimostrazione che i non imputabili per vizio di mente hanno subito una sorte più dura degli imputabili, non ci si riferisce solo alla condizione di vita inumana dei manicomi criminali, ma anche alla sottrazione di diritti e garanzie, che si estende dal giudizio alle misure di sicurezza. Anche dopo la chiusura degli OPG, la persona giudicata incapace di intendere e volere non gode di un trattamento equipollente a quello delle persone ritenute responsabili dei reati commessi: il folle reo non ha accesso alle misure alternative alla detenzione (anche se può ottenere una sostituzione della misura di sicurezza detentiva con quella non detentiva della libertà vigilata); non gode della liberazione anticipata e non può vedersi applicata la sospensione condizionale. In più, il non imputabile per vizio di mente è sottoposto a una misura che non ha una durata prederminata (Corleone, 2020).

E’ vero che alcuni passi avanti sono stati compiuti sul piano delle garanzie per le persone colpite da misure di sicurezza, come abbiamo citato poco fa. Nel fare ciò, non a caso ci si è allineati alla logica del binario ordinario di giustizia per imputabili: si veda l’introduzione di un tetto massimo pari al massimo della pena edittale prevista per il reato commesso. In altre parole, volendo tutelare il folle reo, ci si è necessariamente spostati da una logica centrata sulla valutazione del deficit del soggetto e della probabilità che a causa di tale deficit torni a delinquere in futuro (la logica della misura di sicurezza), a una centrata sulla condotta passata, da sanzionare in maniera proporzionata (la logica della pena) (Margara, 2022).

Per una “giustizia dei diritti” attenta alle differenze

Tornando alla (ingannevole) rappresentazione del binario- punizione versus il binario -cura: la presunzione di pericolosità sociale legata alla malattia mentale (che sposta l’accento dal delitto commesso alla qualità della persona) rappresenta l’aspetto punitivo/afflittivo più rilevante. La persona etichettata come “incapace di intendere e volere” deve sopportare un peso di esclusione superiore a quello di chi, non avendo problemi di disturbo mentale, è giudicato secondo il binario “ordinario” di giustizia penale (De Mattos, 2012).

Se dunque il binario speciale niente altro rappresenta se non un binario punitivo parallelo, l’idea di estendere ai soggetti con disabilità psicosociale la disciplina giuridica ordinaria risponde in pieno a una esigenza “umanitaria”. Soprattutto se si concepisce il giudizio penale “ al di fuori di qualsiasi idea punitiva dello Stato e nel massimo rispetto della persona e nelle più ampie garanzie dei suoi diritti” (Baratta, 1985,p.462).

La precisazione dell’insigne giurista è utile per rispondere alle più comuni obiezioni all’eliminazione della non imputabilità per i folli rei. La prima: il timore che così si spalancherebbero le porte del carcere ai disabili mentali, proprio ora che si è posto fine all’orrore degli OPG. La seconda: annullare la non imputabilità significherebbe allinearsi al filone di pensiero che nega ideologicamente la malattia mentale.

Iniziamo dalla seconda, che rimanda al cuore della questione, l’interpretazione della malattia mentale. Dietro l’accusa di “negazione” della malattia, si intravede la persistente dominanza in ambito giuridico del paradigma manicomiale, nel nesso centrale follia-reato: negando il quale, si negherebbe la malattia tout court. Non è così, già si è detto: l’abbandono dell’ottica deterministica positivista alla base di quel nesso non significa affatto la negazione della sofferenza psichica. Per affrontare la quale, nella complessità dei fattori biopsicosociali che interagiscono influenzando il manifestarsi e l’evolversi della malattia, è fondamentale rovesciare lo sguardo “invalidante” (rivolto al deficit invece alle capacità residue delle persone): l’effetto è di allontanare lo stigma, restituire dignità alla persona nel rispetto delle differenze, comprendere il valore empowering  – risocializzante e riabilitante – del riconoscimento di soggettività e diritti alle persone.

Non meno importante è cogliere i risvolti etici della designazione di “irresponsabile” a carico della persona con sofferenza psichica. Sappiamo che libertà e responsabilità, intrinsecamente congiunte, caratterizzano “l’umano”, a livello di senso di identità individuale e di identità sociale. Perciò negare libertà e responsabilità si traduce in una diminutio morale della persona; non a caso, la ipotizzata “irresponsabilità” della persona sofferente conduce alla riduzione di libertà e diritti: dietro il titolo rassicurante della tutela, si consuma l’annullamento della soggettività.  Con riflessi sul piano terapeutico: poiché, come detto, la moderna filosofia e pratica terapeutica fanno leva proprio sulla soggettività del paziente, espungere l’atto criminoso dall’orizzonte di responsabilità con la mossa di valore simbolico del proscioglimento, significa rendere più ardua la rielaborazione di una parte importante del vissuto del paziente legato al reato.

Rimane la preoccupazione di come il binario di giustizia ordinario sia in grado di fare i conti con la differenza della disabilità mentale.

Da un punto di vista etico, la questione potrebbe essere declinata così: il sistema penale, fondato sulla uguaglianza dei cittadini e delle cittadine, è in grado di farsi carico della particolare vulnerabilità di alcuni soggetti?

Dietro questa domanda, si intravede la controversia fra la “giustizia dei diritti” e la “giustizia dei bisogni”. La prima è accusata di “formalismo astratto”, così che chi difende il binario speciale di giustizia per i folli rei si rifà alla “giustizia dei bisogni”, che sarebbe più consona a confrontarsi con la differenza della sofferenza mentale (Pitch, 1989).  Tuttavia, proprio guardando alla differenza delle persone con disabilità psicosociale, quel modello mostra drammaticamente i suoi rischi: poiché ha dato vita a una forma di paternalismo autoritario, che ha spogliato la persona di dignità e diritti.

Dunque, è la giustizia dei diritti che, proprio in nome della uguaglianza, deve dimostrare di sapere far fronte alle differenze, specie quando queste si traducono in bisogni di cura.

In questa elaborazione, viene in soccorso quell’idea di Stato che ha lasciato alle spalle “qualsiasi idea punitiva”, nell’orizzonte costituzionale della finalità della pena volta alla abilitazione sociale del condannato. Il giudizio si scinde allora in una prima fase di accertamento della responsabilità penale; e in una seconda fase di determinazione della pena, tenendo conto della storia della persona (Pitch, 1989, 169). In questa seconda fase si procede a una ricognizione delle responsabilità individuali, valutando i fattori ambientali e relazionali in cui è maturata l’azione. Entrano in gioco i servizi di comunità, ivi compresa la consulenza psicologica e psichiatrica: cui non sarebbe più affidata la perizia sull’incapacità “di intendere e volere al momento del fatto”, ma piuttosto la valutazione circa le migliori condizioni di presa in carico del soggetto, secondo il nuovo modello (“proattivo”) che si proietta verso la ri-costruzione di un ambiente di vita orientato al recovery.

L’attenzione alle differenze e alle vulnerabilità richiede il giudice abbia a disposizione una pluralità di pene, in cui il carcere è solo una delle opzioni, da riservarsi ai delitti più gravi; e a una pluralità di alternative terapeutiche nella comunità, per le persone con gravi problemi di salute, sia fisica che psichica.

La già citata proposta di legge a firma del deputato Magi, presente in parlamento nella legislatura che si è appena chiusa, risponde a questa ratio. L’eliminazione della non- imputabilità e semi imputabilità per vizio di mente, nonché delle misure di sicurezza psichiatriche, si accompagna a un complesso di norme tese a far sì l’individuo condannato con disabilità mentale finisca in carcere soltanto come extrema ratio: a tal fine si utilizzano tutte le possibilità offerte dalla giustizia di comunità, aggiungendo misure alternative ad hoc per le esigenze curative delle persone con disabilità psicosociale sulla falsariga di quanto previsto per la tossicodipendenza. In tal modo si offrirebbe una risposta unitaria, in chiave umanitaria, sia ai folli rei sia ai rei folli, nel rispetto dei loro bisogni di cura, agendo sul sistema generale di articolazione delle pene.

Il vero ostacolo da abbattere è la centralità del carcere, ben presente nel sentire comune, a seguito di una concezione escludente e vendicativa della pena.

Forse, ammainare l’ultimo vessillo del manicomio criminale può aiutare a rilanciare uno “Stato al di fuori di qualsiasi idea punitiva”.


Referenze

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Note

[1] L. 9/2012 (di conversione del decreto legge 211/2011) e L. 81/2014 (di conversione del decreto legge 52/2014).

[2] In accordo con la convenzione delle Nazioni Unite sulla disabilità, la nuova definizione è  “disabilità psicosociale”, seguendo il paradigma del “individuo nel contesto”, dove la variabile “contesto” gioca il suo ruolo nel costituirsi del disturbo e nelle forme con cui si manifesta, così come nella sua remissione (Convenzione disabilità, 2006).

[3] Sentenza 99/2019 per permettere la detenzione domiciliare delle persone con patologia psichiatrica grave. Una recente ricerca sulla salute mentale nel carcere di Firenze Sollicciano mostra che i magistrati non si avvalgano affatto di questa importante sentenza(Rapporto di ricerca, 2022) .

[4] La più recente versione del Manuale Diagnostico Psichiatrico della Associazione Psichiatrica Americana-APA, il DSM V, offre ampio spazio per patologizzare i comportamenti “disturbanti”, scaricando così il carcere dalla responsabilità di limitare per quanto possibile lo stress della carcerazione e il suo evidente impatto  sulla salute mentale dei detenuti e delle detenute. L’etichettamento diagnostico (si pensi al “disturbo antisociale di personalità”, catalogato nel DSM V) offre infatti su un piatto d’argento la possibilità di trascurare il ruolo del contesto, focalizzando unicamente sul deficit patologico individuale. Tutto ciò rientra nel processo di “medicalizzazione della normalità” (Frances, 2013).

[5] La convenzione Onu sulla disabilità stabilisce all’art.5, comma 1 e 2: 1. States Parties recognize that all persons are equal before and under the law and are entitled without any discrimination to the equal protection and equal benefit of the law.

  1. States Parties shall prohibit all discrimination on the basis of disability and guarantee to persons with disabilities equal and effective legal protection against discrimination on all grounds.

[6] Si tratta del documento a cura del Ministero della Salute, della Giustizia, e della Conferenza delle Regioni e Province autonome, in risposta ai quesiti della Corte Costituzionale, chiamata al giudizio di legittimità costituzionale sulle REMS. Prima di emettere la sentenza, la Corte, con ordinanza n.131/2021, chiedeva alle autorità succitate spiegazioni in merito al funzionamento della riforma dopo l’abolizione degli OPG.

[7] Le caratteristiche sono definite nelle stesse leggi 9/2012 e 81/2014.

[8] Lo scritto ricostruisce il percorso di riforma e le ragioni del termine stesso di “rivoluzione gentile”.

[9] Nella citata ordinanza 131/2021, la Corte, fra i quesiti circa il funzionamento della riforma (numero delle REMS, provvedimenti non eseguiti e reati contestati, ragioni delle difficoltà, progetti di riforma etc.), ne formula uno sulle liste di attesa. Dalla Risposta ai quesiti della Corte a cura degli organismi interpellati sappiamo che, al 31 luglio 2021 risultavano operanti 36 REMS, fra definitive e provvisorie, per un totale di 652 posti. Quanto alle liste di attesa, alla stessa data risultavano di 568 persone, cui si aggiungevano 61 persone in carcere in attesa di internamento. Da notare: la “Risposta ai quesiti” evidenzia una differenza con i numeri forniti dal Dipartimento Amministrazione Penitenziaria e segnala la mancata registrazione di eventuali passaggi dalla misura detentiva alla misura di libertà vigilata di persone in lista di attesa (Corte Costituzionale, Risposte ai quesiti, 2021, 31 sgg.).

[10] Nella Risposta ai quesiti della Corte sono enumerati i criteri di giudizio fondamentali circa il funzionamento delle REMS: in particolare – si scrive- il principio di territorialità è stato rispettato (p.11), e il turn over è soddisfacente, a dimostrazione che anche il principio di temporaneità è stato rispettato. La relativamente breve permanenza in REMS sembra assolvere l’obbiettivo prefissato, di ricognizione delle risorse comunitarie e di predisposizione di programmi terapeutici sul territorio, nonostante le carenze di funzionamento in rete dei servizi sociosanitari e le difficoltà nel raccordo fra l’insieme dei presidi sanitari e sociali (REMS-Dipartimento Salute Mentale, altri servizi sanitari e sociali del territorio) con l’autorità giudiziaria. Questo raccordo è fondamentale per individuare soluzioni terapeutiche sul territorio, sì da permettere all’autorità giudiziaria di revocare, o non predisporre, la misura di sicurezza detentiva in REMS.

[11] Il rinvio è del Giudice per le Indagini Preliminari del tribunale di Tivoli, con ordinanza del 11 maggio 2020 (Gazzetta Ufficiale n.38, prima serie speciale, anno 2020). La motivazione è nella mancata accettazione da parte delle REMS della regione Lazio di una persona colpita da misura di sicurezza detentiva provvisoria. Il giudice lamenta che la misura di sicurezza non abbia trovato applicazione per circa un anno, a fronte del fatto che la misura di libertà vigilata in che la misura di libertà vigilata in struttura terapeutica, disposta in via provvisoria, si rivelava non idonea poiché “la persona sottoposta a indagini si era sistematicamente sottratta a tutte le terapie e agli obblighi inerenti alla libertà vigilata”.

[12] Dall’ordinanza di rimessione sopra citata.

[13] Si noti: nella Risposta ai quesiti della Corte Costituzionale, il Ministero della Giustizia, soffermandosi sulle liste di attesa scrive “che il sistema delle REMS presenta una strutturale carenza di posti letto”. Tale giudizio, significativamente, non è condiviso dal Ministero della Salute, che sottolinea invece: “ ricercare nella dotazione di posti in REMS la soluzione del problema delle misure di sicurezza è espressione della cultura precedente alla riforma”(Risposta ai quesiti della Corte Costituzionale, p. 15). Sembra che la divergenza fra i poli (giudiziario e sociosanitario) arrivi fino al cuore del governo politico del sistema.

[14] Consiglio Superiore della Magistratura, Risoluzione sui protocolli operativi in tema di misure di sicurezza psichiatriche, 24 settembre 2018.

[15] Cfr. sentenza 27 luglio 1982, n.139 e 28 luglio 1983, n.349; e sentenza 253/2003.

[16] Più che la psichiatria, sarebbe meglio dire tutte le scienze coinvolte nel paradigma bio- psico- sociale di interpretazione della salute mentale.

[17] Goffman continua con un illuminante esempio: “Ex pazienti mentali a volte hanno paura di alzare la voce con la moglie o col loro datore di lavoro perché mostrare le loro emozioni può essere preso come un segno della malattia (1963, 26, trad.mia)

[18] Il rapporto di ricerca continua: “Non è presa in considerazione la sua volontà (del periziando) e non è messo al corrente delle prospettive. La sua vita, la sua storia, le sue relazioni sono rilevanti solo ove possano essere letti come elementi sintomatici di un disturbo o cause eziologiche dello stesso” (cit., 53)

[19] Si ricordi che le persone giudicate affette da vizio parziale di mente, sono imputabili; dunque sono condannate al carcere, cui generalmente segue un periodo in misura di sicurezza detentiva in REMS, che viene vissuto dagli internati come una doppia punizione, per di più incomprensibile.

[20] Palazzo si riferisce alla progettata riforma della imputabilità e delle misure di sicurezza, frutto dei lavori della cosiddetta commissione Pellissero, per attuare la legge delega 107/2017 (Pellissero, 2021)

[21] Il magistrato di sorveglianza svolge l’importante compito di riesaminare la pericolosità del soggetto, potendo così revocare la misura detentiva o trasformarla in misura non detentiva (come la libertà vigilata).

[22] Per sostenere che la assegnazione in REMS comporti la perdita della libertà, la Corte cita sia il fatto “che al soggetto può essere legittimamente impedito di allontanarsi” dalla struttura, sia il fatto che “possono essere praticati al paziente trattamenti sanitari coattivi, ossia attuabili nonostante l’eventuale volontà contraria del paziente” (5.1).

[23] Prima nella 180/1978 e poi nella 833/78 istituente il Servizio Sanitario Nazionale

[24] La citazione, di un medico psichiatra, è da un focus group di operatori.

[25] Cfr. i disegni di legge presentati al Senato nel 1991 da F.Corleone e D.Modugno; alla Camera nel 1996 da F.Corleone; alla Camera nel 2021 da R.Magi (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e alla legge 26 luglio 1975, n.354 in materia di imputabilità e di misure alternative alla detenzione per le persone con disabilità psicosociale” (AC 2939)

(pubblicato su Biolaw Journal, rivista di Biodiritto dell’Università di Trento, n.4, 2022)

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