Dalla savana alla metropoli, come Homo sapiens è riuscito a trasformare lo stress da risposta adattativa ad arma di autodistruzione di massa. Le modalità lavorative legate alla gig economy, attivando sistematicamente la risposta allo stress, hanno un alto rischio di portare a un deterioramento delle condizioni di salute del singolo lavoratore, compromettendone l’efficienza e producendo come esternalità centinaia di migliaia di persone affette da patologie croniche e debilitanti.
Gli avanzamenti scientifici dell’ultimo secolo hanno permesso di rivoluzionare il modo di vivere e di morire di Homo sapiens, secondo un’asimmetria globale tra i paesi cosiddetti “sviluppati” e il resto del mondo. Si sono creati così poli diversi tra chi continua a morire di malattie trasmissibili, tra cui tubercolosi, polmonite o infezioni gastrointestinali (le prime tre cause di morte globali nel 1900) e chi invece ha il discutibile privilegio di morire lentamente di malattie non trasmissibili, per lo più croniche, come malattie cardiovascolari, diabete o cancro che nel 2019 hanno rappresentato il 74% di tutte le cause di morte globali.
Utilizzare una misura binaria di vita o morte per comprendere l’effettivo peso e distribuzione delle diverse malattie nel mondo rischia però di non riflettere la realtà dei fatti, soprattutto in un mondo che non muore più per condizioni acute, ma che ha imparato a morire lentamente per condizioni croniche. Invece di contare le morti possiamo usare un indice di gravità delle malattie, il Disability Adjusted Life Years (DALY), che corrisponde agli anni di vita persa a causa di disabilità o di morte prematura. Una recente analisi sistematica ha confrontato i valori di DALY di 204 paesi dal 1990 al 2019 e ha rivelato una diminuzione globale – trainata dai paesi non sviluppati dove tali malattie sono ancora molto più frequenti – delle malattie trasmissibili, materne, neonatali e nutrizionali, che è stata però controbilanciata da un aumento del carico da malattie non trasmissibili, tra le quali anche i disturbi psichiatrici.
L’aspetto più allarmate è che queste analisi non hanno rivelato miglioramenti in quasi trent’anni nel DALY attribuito a 12 disturbi mentali, riscontrandone anzi un aumento – soprattutto nei paesi ad alto indice sociodemografico -; simili risultati sono stati rilevati per altre malattie non trasmissibili (fig. 1 e 2).
Figura 1 – da Global Burden of Disease Collaborative Network, Global Burden of Disease Study 2019 (GBD 2019) Results (Institute for Health Metrics and Evaluation – IHME) https://vizhub.healthdata.org/gbd-results/
Figura 2 – da Global Burden of Disease Collaborative Network, Global Burden of Disease Study 2019 (GBD 2019) Results (Institute for Health Metrics and Evaluation – IHME) https://vizhub.healthdata.org/gbd-results/
In alcune parti del mondo le preoccupazioni quotidiane sono radicalmente cambiate, si muore lentamente: vaccini, antibiotici e pratiche igieniche condivise hanno conquistato lo spazio occupato da millenni di morti aleatorie causate dalle malattie trasmissibili. Come gli ultimi anni ci insegnano, la conquista di questo spazio può sempre essere messa in discussione, ma è innegabile che nell’ultimo secolo ci sia stata una eliminazione (talvolta totale, si pensi al vaiolo) di quelle malattie enormemente temute dai nostri antenati in tempi poi non così lontani.
Eppure, siamo di fronte a un paradosso: in questi stessi anni in cui le condizioni di vita di una parte del globo sono migliorate, molte delle malattie che prima erano poco rappresentate hanno iniziato a sottrarci sempre più anni di vita o sono rimaste agli stessi valori di DALY di decenni fa. Queste sono le malattie non trasmissibili, nello specifico malattie cardiovascolari, metaboliche, psichiatriche e neurodegenerative, che a loro volta rappresentano i disturbi più sensibili agli effetti negativi dello stress cronico.
Come pesci nell’acqua, l’invisibilità di un nuovo agente patogeno
Questo strano paradosso ci permette di rendere visibili gli effetti culturali e socio-strutturali che rimarrebbero altrimenti invisibili, ma di cui, ora più che mai, sentiamo gli effetti sulla salute del nostro corpo e della nostra psiche. Per comprenderlo, è necessario approfondire il modo in cui la fisiologia dello stress rende sottile come non è mai stata la linea che separa natura e cultura: utilizzando questa conoscenza come strumento di indagine è possibile analizzare i modi in cui quello che possiamo considerare un “agente patogeno” troppo a lungo rimasto invisibile sia inserito in molti e nuovi tipi di lavoro legati alla cosiddetta “gig economy”, e di come sia possibile tutelarci da questa pandemia strutturalmente trasmissibile, molto più cronica e silenziosa.
L’antropologo Ralph Linton ha sostenuto che la cultura è come l’acqua in cui il pesce nuota: il pesce vede attraverso quell’acqua, ma non la vede come tale. La sfida nella lotta alle malattie non trasmissibili sta proprio nella invisibilità delle loro cause. Oggi la medicina si ritrova in una rivoluzione di paradigmi simile a quando Louis Pasteur introdusse la teoria dei germi patogeni per spiegare l’eziologia di alcune malattie infettive: allora si trattava di una invisibilità diversa, suscettibile di essere vista con lo strumento giusto e che ha introdotto nuove spiegazioni causali per malattie fino ad allora incomprese.
La difficoltà di questa nuova invisibilità, che porta a nuovi modi di pensare alla causalità in medicina, sta nel fatto che un pesce malato immerso nel suo acquario ha difficoltà a riconoscere che il problema può essere nell’acqua e non nelle sue pinne. Il primo atto necessario per cercare una cura a ciò che non siamo stati capaci di debellare con vaccini e antibiotici è rappresentato dal riconoscere il modo in cui queste acque che ci circondano, e che troppo spesso non vediamo o a cui non diamo dignità di causazione, abbiano un reale effetto sui nostri corpi, sulla nostra salute.
La risposta allo stress
Negli anni moltissime ricerche hanno cercato di indagare le basi biologiche di numerosissimi disturbi; è mancata però a lungo un’integrazione tra il sapere puramente biologista e una prospettiva capace di includere nei modelli di eziologia anche una componente culturale e socio-strutturale, pur di fronte all’evidenza che tutt’ora il codice postale di un individuo è un miglior predittore di salute del suo codice genetico.
Immaginiamo di essere nella savana: siamo una zebra che sta pacificamente brucando dell’erba accanto alla sua mandria. Il nostro corpo ha una serie di parametri fisiologici ottimali in relazione al contesto in cui ci troviamo. Il nostro battito cardiaco ha un valore a riposo, e così anche la pressione sanguigna e la frequenza respiratoria; il nostro sistema circolatorio provvede a irrorare maggiormente l’apparato gastrointestinale, diminuendo la perfusione di altri settori ora meno importanti come i muscoli degli arti, mentre la ferita che ci eravamo procurati pochi giorni fa sta lentamente guarendo. Il nostro sistema nervoso autonomo (SNA) è sbilanciato verso l’attivazione della componente parasimpatica piuttosto che di quella simpatica e, assieme agli ormoni che troviamo in circolo, stimola i processi digestivi.
Ecco però che improvvisamente con la coda dell’occhio notiamo un leone che sta avanzando tra l’erba alta nella direzione del nostro branco. D’improvviso capiamo che la nostra vita è in pericolo. Il nostro cervello comprende la presenza di quello che possiamo definire uno “stressor”, che minaccia di mettere a repentaglio gli obbiettivi di digestione e guarigione che si era anticipatoriamente prefissato regolando i parametri fisiologici di tutto l’organismo, che ora non sono più ottimali.
D’improvviso la migliore strategia per mettere in salvo la pelle (e i nostri geni per le generazioni future) non è più quella di continuare a brucare tranquillamente l’erba, ma è quella di fiondarsi il più velocemente possibile nella direzione opposta dalla quale sappiamo provenire il leone. Ci serve energia e ci serve subito. Non possiamo più permetterci di digerire, inibiamo subito il sistema parasimpatico e spostiamo il tono del SNA verso il sistema simpatico. Questo squilibrio del SNA, assieme alla secrezione di alcuni ormoni come i glucocorticoidi, ha effetto sulla mobilitazione rapida dei substrati energetici (glucosio e lipidi). A questo si accompagna un effetto sulla velocità e la direzione del loro trasporto attraverso il sistema circolatorio, attraverso il potenziamento del battito e della forza di contrazione del cuore, della pressione sanguigna e della frequenza respiratoria. Tutti i progetti a lungo termine in cui il nostro corpo impegna grandi quantità di energie vengono soppressi: c’è una inibizione della digestione, della crescita e dei processi di riparazione, le ferite non guariscono più; ogni processo finalizzato alla riproduzione è posticipato a data da destinarsi, così come anche la risposta immunitaria è inibita. Infine, vengono inibite anche la percezione del dolore e l’acuità dei sensi, mentre le capacità cognitive sono potenziate. In questo nuovo stato il nostro corpo di zebra riuscirà a ottimizzare tutte le risorse energetiche per rispondere a un pericolo imminente; purtroppo però le stesse modifiche avverranno anche nel leone, questa volta finalizzate a procurarsi un lauto pasto.
Questa serie di modifiche nervose e ormonali sono alla base della risposta allo stress, che ha un ruolo ben definito e adattativo per gestire un pericolo imminente e aspecifico. La logica è quella di ottenere una risposta capace di mettere a disposizione un quantitativo di energia che possa poi essere orientato in base al pericolo in una risposta di attacco o di fuga. A dimostrazione della sua importanza, la risposta allo stress è una strategia adattativa molto antica, diffusa con meccanismi molto simili in tutti i vertebrati.
È invece molto più recente il modo in cui le specie di primati più socialmente sofisticate sono capaci di attivare la risposta allo stress. La stessa definizione di stressor, che mette in moto tutto il processo, si è estremamente allargata, includendo non solo sfide fisiche nel presente, ma anche minacce vere o supposte nel futuro. Ed è così che i primati sono capaci di attivare una risposta adattativa, evolutasi per essere acuta e di breve durata, in modo cronico e ripetitivo anche in casi in cui non è necessaria, trasformandola in un potentissimo e silenzioso agente patogeno: lo stress psicologico. I nostri stressors non sono più un leone che ci rincorre o una zebra ferita e vulnerabile da attaccare: la risposta allo stress oggi si integra con la cultura che ci circonda, la struttura della nostra società e la logica della sua economia capitalistica. Tutto questo è reso possibile dall’ampliarsi della definizione di stressor oltre il confine del pericolo fisico e immediato, verso il pericolo cronico di un futuro imprevedibile e su cui non abbiamo nessun controllo, scatenando gli effetti del famigerato stress psicologico.
Robert Sapolsky, neurobiologo e antropologo californiano, espone nel suo saggio Why zebras don’t get ulcers il concetto di “stress psicologico”, quello che tra tutti gli stressor è il più comune e il più letale nell’odierna società occidentale. Ma in che cosa consiste nello specifico e in quali contesti è così comune da rappresentare uno tra i primi fattori di rischio per le più comuni malattie in occidente? Sapolsky divide i fattori che caratterizzano, in positivo o in negativo, lo stress psicologico in quattro principali macrocategorie: 1) sfoghi per la frustrazione; 2) supporto sociale; 3) controllo; 4) prevedibilità.
1) Sfoghi per la frustrazione: sono rappresentati all’interno di un contesto sociale da gerarchie di rapporti dove il gradino più alto si sfoga sul gradino più basso per terminare una propria risposta allo stress. Questo si è osservato sia negli umani sia negli altri animali. Nei babbuini, che vivono in salde gerarchie sociali che determinano la possibilità dei comportamenti individuali, si è dimostrato che quando viene presentato uno stressor al babbuino di rango più alto se questo si sfoga attraverso atti violenti nei confronti del rango a lui direttamente inferiore i livelli circolanti di ormoni scatenati dallo stressor iniziale calano molto più velocemente di come farebbero senza tali atti violenti. Questa regola, che vale per ogni rango ed è stata documentata attraverso diverse specie (inclusi noi umani), è nota come “trasferimento dell’aggressione”. Si prenda il caso umano: è stato dimostrato che nei casi in cui una squadra di calcio locale perde inaspettatamente contro una sua rivale i tassi di violenza familiare aumentano fino al 20% . Numerosissimi studi inoltre indicano come i babbuini di basso grado tendono a sviluppare molto più facilmente malattie non trasmissibili legate allo stress; questo risultato è stato analogamente ritrovato nei casi di lavoratori all’ultimo gradino della gerarchia aziendale.
2) Un altro modo per alleviare gli effetti di uno stressor attraverso l’interazione con altri organismi, ma più auspicabile per la nostra società di domani, è il supporto sociale. Le ricerche rappresentative di questo tema sono quelle dell’epidemiologo giapponese Ichiro Kawachi. Kawachi ha dimostrato che uno dei maggiori predittori di basso livello di salute nella popolazione generale è un più basso “capitale sociale”, rappresentato da tutte quelle organizzazioni locali e nazionali di supporto sociale. Tale effetto è mediato per una sua parte proprio dalla prematura terminazione o mancata attivazione della risposta allo stress.
3) Un’altra caratteristica che implica l’aumento di stress psicologico è la mancanza di controllo: anche in questo caso numerose evidenze di studi sperimentali dimostrano che uno stressor incontrollato genera una risposta molto più elevata rispetto a una condizione in cui l’animale può avere anche solo l’“illusione” di controllo, ponendo per esempio una leva che il topo impara ad associare alla terminazione dello stress.
4) La mancanza di prevedibilità è un’altra caratteristica di uno stressor che genera una risposta allo stress più elevata e duratura, che può tendere a cronicizzare e assieme al controllo rappresenta il quadro degli stressors più comuni che influenzano la salute umana, soprattutto in relazione al lavoro.
Il lavoro come performance: il caso dei “gig workers”
Molte delle categorie che definiscono gli stressors psicologici tendono a comparire assieme in alcune modalità di ingaggio lavorativo capaci di proliferare in un sistema di gig economy. La gig economy è un modello economico dove i “gig workers” sono lavoratori autonomi o impegnati in lavori accessori. Il termine “gig” è uno slang americano utilizzato per indicare le singole performances che i musicisti o comici vengono chiamati a svolgere, venendo quindi pagati non secondo uno stipendio regolare, ma in base alle singole “gigs”.
Nell’economia gig il lavoratore è un performer: ciò che viene valutato costantemente – grazie anche alle numerose tecnologie di raccolta e analisi dei dati di cui fanno largo utilizzo le aziende gig – è proprio la sua performatività nella singola mansione che gli viene assegnata e da cui dipende (come per un vero musicista) se verrà o meno richiamato per una prossima performance e quanto verrà pagato. Robert Karasek – psicologo e sociologo svedese – cercando di comprendere in che modo l’attività lavorativa può impattare negativamente sulla salute umana, ha elaborato il modello di “job demand-control”, con cui ha definito fonte dell’effetto deleterio l’alta domanda assieme all’assenza di controllo del lavoratore sulle proprie mansioni. Questo pone diversi elementi di criticità, di fronte alla totale assenza di controllo che il lavoratore gig ha sui propri orari di lavoro, sull’imprevedibilità della difficoltà di una prossima mansione che dovrà svolgere e su un sistema algoritmico che premia la performance massima sempre, spasmodicamente misurata e valutata a ogni mansione nella sua efficienza.
Questi lavori gig fanno ampio utilizzo proprio dell’attivazione della risposta allo stress; quello che interessa alla compagnia è avere due algoritmi principali: uno che permetta un’efficienza puntuale per la singola mansione, e un altro che permetta di identificare in modo repentino i singoli lavoratori poco performanti e licenziarli, spesso senza che il lavoratore conosca le ragioni specifiche del suo licenziamento. Stimolare quindi una risposta di allarme nell’organismo, in modo tale che questo mobilizzi le riserve di energia, ed efficientare la singola mansione diventa un obbiettivo aziendale.
Un esempio calzante sono le aziende di consegne di cibo e i loro lavoratori, i riders. In queste aziende i riders vengono ingaggiati grazie a una semplice app, non hanno un luogo fisico dove concentrare lo svolgimento delle loro mansioni, il cui carico e numero non è stabilito, ma dipende dalla diretta richiesta del consumatore. L’attivazione della risposta allo stress di un rider è funzionale alla massima efficienza della singola consegna, grazie ai processi fisiologici di risposta allo stress che abbiamo visto sopra. Ciò permette una modificazione del corpo e della psiche del lavoratore incentrata a un solo scopo: il rider, insomma, è la zebra. Solo che qui il leone è invisibile. Gli stessi cambiamenti neurormonali della risposta allo stress, che i nostri antenati avrebbero intelligentemente usato per scappare da un leone nella savana, vengono ora attivati in cronico dalle prossime consegne del rider su cui non ha nessun controllo, né sa quando arriveranno né quali saranno le loro difficoltà, ma da cui dipende il suo guadagno. Ciò che per l’azienda è strategia aziendale e per l’individuo è precarietà è codificato dal secondo “algoritmo”. Un licenziamento può avvenire all’improvviso, è noto il caso di Sebastian Galassi, giovane rider fiorentino, che a ottobre del 2022 morì in un incidente proprio durante la sua ultima consegna e sul cui telefono il giorno dopo la famiglia si ritrovò un messaggio di licenziamento di questo tenore: “Per mantenere una piattaforma sana ed equa, talvolta è necessario prendere dei provvedimenti quando uno degli utenti non si comporta in modo corretto”.
La gig economy è un modello che non sarebbe lo stesso senza la precarietà strutturale su cui si fonda: implica infatti un tale livello di coinvolgimento biologico tramite la sua forte carica di stressors psico-sociali con cui efficienta il suo guadagno, che a medio o lungo-termine vi è un alto rischio che porterà a un deterioramento delle condizioni di salute del singolo lavoratore, compromettendone l’efficienza e producendo come esternalità centinaia di migliaia di persone affette da patologie croniche e debilitanti. La presenza di pratiche lavorative di questo tipo, in assenza di riconoscimenti in termini di contributi previdenziali, coperture sanitarie, ferie, giorni di malattia retribuiti e assicurazioni contro infortuni, rappresenta a medio o lungo termine un grave danno per l’economia di uno stato. Infatti delle malattie croniche di questi lavoratori dovrà prendersi carico il Sistema sanitario nazionale (SSN), fondi pubblici che dovranno pagare per i profitti di enti privati ottenuti attraverso danni cronici sul corpo delle persone. In questa logica la necessità di tutela e finanziamento del SSN diventa un cardine politico attraverso il quale ottenere il riconoscimento dei diritti dei lavoratori. Non solo. Se si fosse un po’ più lungimiranti attraverso la tutela di un diritto, quello alla salute, se ne tutelerebbero molti altri, fondanti di una vita senza malattie e senza ingiustizie.
Fortunatamente, qualcosa si sta muovendo. Il Tribunale di Milano ha dichiarato illegittimi i licenziamenti che Uber Eats Italy Srl aveva intimato a circa 4.000 riders, con un decreto pronunciato il 28 settembre 2023, registrato al R.G. n. 6979/2023. Ciò è avvenuto dopo che la società ha annunciato l’intenzione di uscire dal mercato italiano e di chiudere definitivamente la sua piattaforma digitale italiana. Il giudice ha riconosciuto le concrete modalità con cui si è svolta l’attività lavorativa dei riders come un rapporto di lavoro subordinato piuttosto che autonomo rispetto a Uber Eats Italy Srl. In una direzione simile sembra andare l’Europa, dove le aziende gig non potranno più considerare i riders come lavoratori autonomi. Per alcune aziende, come Just-Eat in Italia, era stata già raggiunta una prima intesa con i sindacati nel 2021, in base alla quale i riders sono considerati lavoratori dipendenti a cui è stato applicato il contratto collettivo del settore logistica. A ogni dipendente spetta una retribuzione oraria fissa, oltre al congedo parentale, congedo per malattia, ferie e il trattamento di fine rapporto. Del resto, secondo le previsioni dell’UE, entro il 2025 gli europei che lavoreranno su piattaforme digitali saranno 43 milioni.
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l’Autore
Maurilio Menduni De Rossi è attualmente studente al quarto anno di Medicina e Chirurgia presso l’Università di Pisa e allievo ordinario presso la Scuola Superiore Sant’Anna. Sta formando la sua carriera per diventare un medico-ricercatore, con un forte interesse nelle interazioni bidirezionali tra cervello e sistema immunitario, cercando di comprendere il modo i cui le identità individuali si costruiscono in un intreccio complesso tra mente, corpo e ambiente. Ha pubblicato articoli peer-reviewed nel campo della neuropsichiatria, in particolare sulla regolazione delle emozioni, e ha condotto attività di ricerca nelle neuroscienze a Pisa, Genova, Cambridge e Toronto. Qui ha lavorato a progetti che spaziano dallo studio degli effetti dello stress precoce sul neurosviluppo fino alle interazioni neuroimmunologiche in modelli di dolore infiammatorio. Appassionato di scrittura e lettura, ama esplorare i confini tra diverse discipline, con l’obiettivo di integrare conoscenze che possano contribuire a una visione situata della salute umana.